Le pandemie non sono soltanto emergenze di salute pubblica, ma anche grandi eventi socio-politici. Lo dimostra il caso dell’Egitto, dove la risposta alla diffusione del COVID-19 è stata determinata in gran parte dai preesistenti rapporti tra società e Stato e dai vincoli imposti dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali.
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 10:41:07
Se le pandemie sono spesso percepite innanzitutto come emergenze di salute pubblica, in realtà sono anche grandi eventi politico-economici. Esse possono benissimo apparire dal nulla, ma non si manifestano mai in un vuoto sociale o politico-economico. La diffusione della pandemia e la capacità di contenerla e affrontarla dal punto di vista sanitario dipendono quasi interamente da fattori come i rapporti tra Stato e società, la tipologia e l’ideologia dei regimi politici, le strutture di welfare, l’universalità dell’assistenza sanitaria, i modelli di consumo, le relazioni di genere, la regolamentazione del lavoro e le precedenti politiche di austerità e privatizzazione, solo per citarne alcuni. Pertanto, la pandemia non è così universale come si potrebbe pensare dal punto di vista meramente microbiologico. Il suo impatto e la capacità degli esseri umani di rispondervi dipendono dalla classe sociale, dal genere, dall’età, dalla posizione geografica all’interno di un singolo Paese e tra i Paesi del mondo, oltre a una serie di altri fattori che sono intrinsecamente sociologici, più che fisici e biologici.
Le pandemie interagiscono, spesso simultaneamente, con preesistenti strutture, norme e pratiche culturali, assetti istituzionali e modelli di distribuzione della ricchezza e del potere su scala nazionale, regionale e globale. Ciò significa che la risposta politica a una pandemia, l’interpretazione dei suoi effetti, dei suoi costi, delle sue ripercussioni e del cambiamento che essa potrebbe o meno generare dipendono dalla configurazione istituzionale preesistente alla pandemia. In molti casi e attraverso una miriade di meccanismi, queste condizioni pregresse – per usare un’espressione della medicina – non solo determinano gli effetti della pandemia, ma ne definiscono anche l’estensione, l’intensità e persino la forma. È una relazione a doppio senso, a dir poco complessa, in cui la salute pubblica e i fattori sociali interagiscono e si condizionano reciprocamente.
Quasi due anni di pandemia di COVID-19 hanno messo in luce come la trasformazione avvenga in entrambe le direzioni. Da un lato, il verificarsi di una pandemia può rafforzare un assetto socio-politico o economico esistente oppure distruggerlo, in parte o del tutto. Può gettare i semi del cambiamento o accelerare mutamenti già in atto in una direzione piuttosto che in un’altra, aprendo la strada a trasformazioni di lungo periodo, spesso impreviste e non volute, nella distribuzione del potere e nelle funzioni delle autorità politiche e delle politiche pubbliche. Dall’altro lato, le strutture politico-economiche preesistenti a livello nazionale, regionale e internazionale si sono mostrate capaci di trasformare la pandemia stessa, creando nuovi ceppi e varianti e stabilendo modelli di contagiosità che seguono le direttrici degli scambi economici e degli spostamenti di lavoratori, rifugiati, migranti e turisti. In questi casi, le strutture e le costruzioni create dall’uomo modellano la pandemia come realtà biologica e fisica tanto quanto questa può, a sua volta, modellare le prime.
In questo articolo mi concentro sul caso egiziano. Lungi dal costituire un’eccezione, l’Egitto è un contesto abbastanza rappresentativo della pandemia nel Sud del mondo, in Medio Oriente e in Nord Africa. Ciò non significa che quello egiziano sia un caso identico a tanti altri nel mondo. Come detto, in quanto evento globale di sanità pubblica, con profonde ripercussioni politiche e socioeconomiche, la pandemia è stata modellata a livello nazionale da preesistenti relazioni tra Stato e società. Per usare ancora il linguaggio della medicina, ciò ha creato delle varianti nazionali di un processo globale. A determinare gli assetti preesistenti in Egitto vi sono anche la posizione di quest’ultimo nell’economia globale attraverso il suo ruolo nel commercio internazionale di beni e servizi, la sua dipendenza dai flussi di investimenti esteri e dal debito estero, la presenza delle istituzioni finanziarie internazionali con le loro condizionalità e raccomandazioni, oltre alle rimesse dai Paesi arabi ricchi di petrolio.
L’eccezione egiziana
L’Egitto è stato uno dei pochi Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, ma anche del mondo intero, a mantenere un tasso positivo di crescita economica nonostante il COVID-19. A parte casi come la Cina, dove la pandemia è stata precocemente posta sotto controllo, la maggior parte delle economie nel mondo ha registrato un crollo nei tassi di crescita nel biennio 2020-2021. Questo è avvenuto a causa degli effetti della pandemia sulla salute pubblica, ma soprattutto delle misure adottate per contenere la diffusione della malattia, come i lockdown prolungati, le restrizioni alla mobilità e l’interruzione delle catene di approvvigionamento e del trasporto di beni e servizi. Secondo le stime della Banca Mondiale, nel 2020 l’economia mondiale ha subito una contrazione del 3,5%[1]. Il Medio Oriente e il Nord Africa non hanno fatto eccezione, facendo registrare nello stesso periodo un tasso di crescita negativo del -3,9%, soprattutto a causa all’abbassamento del prezzo del petrolio innescato dal rallentamento dell’economia globale. Nello stesso periodo, invece, l’Egitto ha registrato una crescita stimata intorno al 3,6%. Nonostante la pandemia abbia inciso negativamente sul settore turistico egiziano e sulle rimesse degli emigrati nei Paesi del Golfo ricchi di petrolio, l’economia nazionale non è entrata in recessione.
Non solo l’economia egiziana è riuscita a crescere in tempi così difficili, ma il governo ha mostrato una sorprendente perseveranza nella disciplina fiscale. Secondo la Banca africana di Sviluppo, infatti, «nonostante le spese legate alla pandemia e la diminuzione delle entrate, il saldo di bilancio al netto del servizio del debito pubblico dovrebbe rimanere positivo, con un avanzo pari allo 0,5% del PIL. Questo cuscinetto fiscale, conseguenza delle riforme per il consolidamento fiscale, ha contribuito a mantenere il deficit complessivo sostanzialmente invariato all’8% del PIL nel 2020, rispetto al 7,9% del 2019, quando aveva beneficiato di un avanzo primario del 2%»[2].
Se i dati ufficiali dei contagiati e dei deceduti a causa del COVID-19 sono rimasti piuttosto bassi per un Paese delle dimensioni dell’Egitto, l’eccesso di mortalità registrata nell’estate del 2020 (sempre secondo fonti ufficiali), quando il virus ha raggiunto il picco, indica che il bilancio potrebbe essere stato molto più pesante[3]. A maggio 2021, uno studio dell’Economist che analizzava lo scarto tra eccesso di mortalità e dati ufficiali sui decessi per COVID-19, stimava in 194.260 le vittime in Egitto, contro le sole 15.050 indicate dalle statistiche governative[4]. L’Egitto però non è affatto l’unico Paese ad aver sottostimato i decessi legati al COVID-19. Lo stesso studio dimostra infatti che il problema riguarda trasversalmente molti Stati del Sud del mondo. Rispetto agli altri però, l’Egitto era uno dei Paesi se non addirittura il Paese con la forbice più ampia tra i due dati, con un rapporto di 12 a 1.
Tuttavia, la situazione sanitaria in Egitto non si è rivelata disastrosa come in Brasile, in Messico, in India o negli Stati Uniti, anche se resta un mistero il motivo per cui alcuni Paesi o alcune regioni sono stati colpiti più duramente di altri. Ciò che ci interessa qui sono le politiche pubbliche adottate per rispondere alla pandemia e i rischi posti da quest’ultima per la salute e il benessere collettivi. Nel caso dell’Egitto è piuttosto curiosa la risposta decisamente blanda dello Stato e l’alto grado di tolleranza al peggioramento delle condizioni sanitarie. Ad esempio non è mai stato imposto un lockdown totale. All’inizio del 2020 è stato decretato un lockdown parziale di tre mesi, che prevedeva il coprifuoco notturno e la chiusura dei ristoranti e dei centri commerciali. Poco tempo dopo però il governo ha allentato le restrizioni sulle attività nei luoghi pubblici, inclusi i settori dell’ospitalità, dei viaggi e del turismo interno. La domanda a cui questo articolo cercherà di rispondere è come e perché il governo egiziano abbia potuto assumersi questi rischi nella gestione della pandemia.
I vincoli esterni
Dietro la rilassatezza con cui il governo egiziano ha risposto al peggioramento delle condizioni sanitarie, oltre che dietro gli scarsi investimenti nell’assistenza sanitaria e le carenze nelle politiche di protezione sociale, si trova un insieme di fattori, interni ed esterni. Le politiche messe in atto per fronteggiare la pandemia, infatti, non sono state il risultato di una decisione improvvisa, né si collocano in un vuoto storico-istituzionale. Benché si tratti di “scelte” fatte in presenza di possibili alternative, esse si collocano in un contesto di numerosi vincoli strutturali interni ed esterni, che hanno reso alcune decisioni più probabili e percorribili di altre.
Questi vincoli hanno a che fare con le modalità d’integrazione dell’Egitto nei mercati finanziari globali, in particolare dopo l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale del novembre 2016. All’epoca, tecnocrati animati da una visione neoliberista avevano subordinato l’accesso dell’Egitto al credito estero al mantenimento di tassi di crescita positivi e della disciplina fiscale. Il FMI ha sempre vigilato su queste condizioni e a metà del 2020 ha rinnovato il suo sostegno alla preservazione della stabilità macroeconomica e finanziaria che il governo egiziano aveva raggiunto in seguito all’accordo iniziale. Ciò ha rappresentato un forte vincolo da diversi punti di vista, dal momento che esso è sostenuto da convinzioni ideali, condizionalità di vario tipo e inserimento nel mercato globale.
Esternamente, il consolidamento fiscale e monetario faticosamente conseguito dall’Egitto nei due anni precedenti alla pandemia è avvenuto al prezzo di un incremento senza precedenti dell’indebitamento estero, sotto l’egida delle condizionalità stabilite dal FMI e con una crescente dipendenza dalle valutazioni delle agenzie di rating, visto il ricorso sistematico ai mercati internazionali. In effetti, il debito estero dell’Egitto è passato da 33,7 miliardi di dollari nel 2010 a 48 miliardi di dollari a luglio 2015. Nei due anni successivi ha avuto uno sbalorditivo aumento del 66%, passando da 48 miliardi di dollari ai 79 miliardi del luglio 2017, per poi raggiungere i 92,6 miliardi nel 2018[5]. La ripresa immediata, in particolare nel settore delle esportazioni e del turismo, è stata importante per generare gli indicatori macroeconomici necessari a ottenere condizioni favorevoli di indebitamento sui mercati finanziari internazionali. È il caso, per esempio, del rapporto tra il servizio del debito estero e i proventi delle esportazioni, che è passato dal 6% nel 2010 a circa il 19% nel 2016, raggiungendo un livello che non toccava dall’inizio degli anni ’90[6].
Il governo non ha voluto cedere su questi indicatori macroeconomici positivi per non compromettere il suo accesso al capitale, sia attraverso l’indebitamento sia attraverso l’attrazione di investimenti esteri. È interessante notare che le riserve di valuta estera dell’Egitto hanno subito un duro colpo nei primi due mesi della pandemia globale a causa dell’intensificarsi della fuga dei capitali[7]. Questo fattore potrebbe aver contribuito alla decisione di rinnovare gli impegni con il FMI attraverso un nuovo accordo stand-by, firmato nel 2020 a sostegno di quello precedente, giunto a scadenza nel 2019[8].
I fattori interni
In un’economia semi-periferica come quella egiziana, questi fattori si sono rivelati di primaria importanza nel determinare una risposta politica in cui gli indicatori macroeconomici hanno avuto la precedenza rispetto ai rischi per la salute pubblica e alle politiche di protezione sociale necessarie a mitigare gli effetti dell’emergenza sanitaria. Sarebbe però un errore pensare che i fattori esterni abbiano inciso sulla situazione interna in modo immediato. Influenze, connessioni e vincoli esterni sono stati infatti mediati dagli assetti nazionali esistenti. Questi sono legati in maniera specifica, anche se non esclusiva, alla traiettoria storica dell’Egitto, che ha modellato le relazioni tra lo Stato e la società, il tipo di regime e la capacità delle istituzioni statali di regolare i rapporti socioeconomici. Sono stati questi aspetti politici e istituzionali interni a definire le scelte politiche contingenti, che hanno scommesso sulla stabilità macroeconomica scaricando sulla società i costi della pandemia.
La risposta delle autorità statali alla crisi sanitaria è stata determinata in particolare dai fattori ereditati dal periodo pre-pandemico, come lo stato e le caratteristiche del sistema sanitario nazionale, la demografia, i livelli di reddito e le condizioni di salute pubblica. A questi vincoli strutturali si sono aggiunti alcuni elementi più recenti nell’ambito delle relazioni Stato-società, come le dinamiche del regime politico e precedenti evoluzioni delle politiche pubbliche. Per esempio, un sistema autoritario più isolato è per definizione meno reattivo e meno responsabile nei confronti della società.
A partire dal 2015 e fino al 2019, una lunga serie di misure economiche impopolari, come la riduzione dei sussidi, minori investimenti pubblici, un aumento della tassazione diretta e indiretta e la massiccia svalutazione della lira egiziana del 2016, ha mostrato la capacità del nuovo regime di mettere in atto provvedimenti redistributivi svantaggiosi per gran parte delle persone. Secondo le statistiche ufficiali, tra il 2015 e il 2019 il tasso di povertà è aumentato del 5%, passando dal 27 al 32%[9]. Nonostante questo, le autorità sono riuscite a reprimere praticamente tutte le forme di dissenso e a mantenere la sicurezza e la stabilità politica conquistate a fatica. È questo ad aver creato le condizioni che hanno portato a scaricare sulla società i costi della pandemia, privilegiando la crescita e la disciplina macroeconomica piuttosto che l’adozione di strumenti di protezione sociale in grado di mitigare gli effetti dell’emergenza sanitaria sulla popolazione più vulnerabile.
In effetti, secondo le statistiche ufficiali, un buon 50% delle famiglie egiziane ha visto una diminuzione dei propri consumi e/o una maggiore propensione a ricorrere al debito come mezzo principale con cui far fronte alla perdita del reddito e/o del lavoro a causa della pandemia[10]. Nel frattempo, il governo ha realizzato un avanzo primario e ha continuato a ridurre il deficit di bilancio (al 3,6% del PIL rispetto al 4,1% nel 2019/2020), arrivato ai minimi storici nonostante la pandemia[11]. Questo dato indica quanto poco il governo abbia risposto alla pandemia e alle sue conseguenze sanitarie ed economiche attraverso una politica fiscale e monetaria espansiva. Oltretutto, la maggior parte delle risorse pubbliche è stata destinata a salvare o aiutare le imprese anziché i disoccupati o i sottoccupati, le donne con figli a carico o i bambini a rischio.
Per quanto importanti possano essere le dinamiche del sistema politico, da sole esse non spiegano del tutto le scelte del governo egiziano di fronte alla pandemia. Come abbiamo detto, esse hanno rafforzato alcune consolidate caratteristiche strutturali, connesse con tre decenni di politiche neoliberali. La combinazione tra questi processi ha causato l’indebolimento della classe operaia nel suo insieme attraverso l’aumento del lavoro nero e della precarietà. Come la crisi ha messo in luce ovunque nel mondo, i Paesi con solidi sistemi di welfare hanno potuto anteporre la salute pubblica alle preoccupazioni economiche immediate. Più l’economia informale e il precariato sono estesi, più debole è stata invece la risposta delle autorità pubbliche. I lavoratori informali hanno infatti spinto per la ripresa delle attività economiche e dunque per l’allentamento delle restrizioni, in modo da poter continuare a guadagnarsi da vivere. Questo non è accaduto soltanto in Egitto, ma anche in molti altri Paesi del Sud e del Nord del mondo. L’informalità diffusa del lavoro contribuisce, almeno in parte, a perpetuare una situazione di scarsa protezione sociale, elevati rischi sanitari e politiche a favore delle imprese per preservare l’occupazione e garantire la crescita.
Tra tendenze globali e traiettorie locali
Il modo in cui l’Egitto ha affrontato la pandemia è rappresentativo di tendenze globali più ampie, essendo stato sottoposto come altri Paesi alla precedente adozione di misure neoliberiste che hanno implicato la riduzione degli investimenti pubblici nella sanità e nel welfare e aumentato parallelamente la precarietà e l’informalità del lavoro. Questi fattori sono stati rafforzati dalla posizione dell’Egitto come Paese semi-periferico del Sud del mondo, reinserito dal 2016 nei mercati finanziari mondiali come grande debitore. I vincoli esterni derivanti dai rapporti coi mercati e dalle condizionalità imposte dal Fondo Monetario Internazionale hanno contribuito a determinare la risposta di politica pubblica alla pandemia del 2020-2021.
I provvedimenti adottati internamente, tuttavia, non sono stati semplici cinghie di trasmissione di tendenze e condizionamenti internazionali. Essi sono il risultato di traiettorie storiche nazionali che hanno mediato le influenze globali. In questo senso, disciplina fiscale rigida e scarsa protezione sociale riflettono i vincoli finanziari ed economici esterni e allo stesso tempo un alto grado di irresponsabilità dello Stato nei confronti dei suoi cittadini. Nel complesso, queste scelte di politica pubblica e la capacità di portarle avanti in modo coerente per quasi un anno e mezzo indicano una chiara predilezione per il capitale straniero e nazionale a scapito del lavoro e dei cittadini vulnerabili delle aree rurali e urbane.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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