Laicità positiva /3. Sulle parole “secolo” e “secolare” si è esercitata una vera e propria manipolazione linguistica: il significato autentico di “non sacro” è stato trasformato in “non religioso”. Le conseguenze sono state enormi, senza che gli uomini di fede se ne siano accorti.
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 12:02:48
Il secolarismo, così come oggi inteso dalla maggior parte delle persone, è una creazione profondamente anti-religiosa. L’idea che “secolare” significhi “non religioso” è una deviazione dal significato originario e mette in discussione la legittimità della religione a occupare un posto nella sfera pubblica. In quest’idea “a-religiosa”, ciò che è “secolare” finisce per essere un’illusione, e il fatto che noi la coltiviamo pone un grosso ostacolo a un ruolo adeguato della religione nella sfera pubblica di tutti i paesi. Per molto tempo il “secolo” è stato compreso in relazione al tempo più che a qualcosa di “non-sacro”. Di qui la divisione nel clero cattolico tra “clero secolare” e “clero regolare”, entrambi religiosi, con la differenza che il “clero regolare” viveva in monastero e non nel mondo (in parrocchia). Ma una buona dose di imperialismo culturale ha radicalmente alterato la comprensione del termine “secolare”. Così l’interpretazione comune di “secolare” come “non-religioso” contribuisce a fare in modo che la sfera pubblica, spogliata della religione (ma non, si badi, di altre credenze), venga considerata neutrale. È un’ironia della sorte che i cittadini religiosi e i loro vicini non religiosi, pur divisi da tante cose, condividano lo stesso fuorviante vocabolario del “secolare”. In questo breve articolo sostengo che un “secolare” illusorio è sostenuto da un oscuro “secolarismo”, tanto più significativo nelle sue conseguenze culturali quanto più ampiamente ignorato. Lo spazio secolare non ha sempre fatto riferimento a una zona non-religiosa dominata da quei presupposti atei e agnostici che, spacciandosi per neutrali, hanno finito per dominare la sfera pubblica. Come e perché credenti e personalità religiose si sono tanto rapidamente adeguati a questa rottura tra il sacro e il pubblico, o tra la religione privata e l’irreligione pubblica? L’espressione usuale “religione e laicità” riflette questa rottura; essa isola virtualmente tutti gli aspetti rilevanti dell’ordine pubblico (ad esempio l’educazione, l’etica medica, il diritto e le istituzioni statali) da una legittima dimensione pubblica dell’attività religiosa. Da qui nasce una tensione. Le giurisprudenze della maggior parte dei Paesi riconoscono i diritti costituzionali delle religioni, la libertà di associazione e quella di espressione, e li considerano come legati a una dimensione necessariamente pubblica. La religione ridotta alla mera dimensione privata non è una religione praticata in modo veramente libero. Così, quando si riconosce che i credenti hanno il diritto di insegnare, rendere pubblico e diffondere, individualmente e tramite la loro associazione, il proprio credo nella sfera pubblica, la religione non si trova “fuori” dalla sfera pubblica, ma è, in un certo senso, al suo interno. La “laicità non religiosa” contraddice questa comprensione religiosamente inclusiva della sfera pubblica. Eppure sono le stesse persone religiose a usare questa versione impoverita di “laicità”, non accorgendosi probabilmente della pretesa di dominio che essa cela. Non sorprende perciò che i loro argomenti a favore della correttezza siano frustrati dal modo in cui la sfera pubblica viene descritta attraverso la terminologia di una laicità “a-religiosa”. Benché le religioni e lo Stato (come diritto e politica) possiedano ognuno una propria giurisdizione, essi possono sovrapporsi dal momento che lo Stato è pubblico e il pubblico comprende cittadini religiosi e non religiosi. Quando il termine “laico”, con il suo più recente significato di “non-religioso” (nel quale il trascendente è ignorato e trattato progressivamente come irrilevante), sostituisce il più preciso vocabolo “pubblico”, si perde di vista lo spazio della vita condivisa, che include cittadini religiosi e non religiosi. È giunto il momento di invocare un significato più inclusivo dei termini “laico” o “secolare”, magari sostituendo al loro uso ormai logoro quello di termini più precisi, e di eliminarli per quanto possibile dai nostri dibattiti sulla religione e lo spazio pubblico. Che cosa si può fare in una situazione tanto confusa per descrivere meglio la natura della sfera pubblica e il ruolo che cittadini religiosi e non religiosi possono avere come pari interlocutori nella vita comune delle nazioni? E come convincere tutti i cittadini che ciò è bene? Una Serie di Scontri Pubblici Tanto per cominciare, va riconosciuto che tutte le persone sono credenti e che tutti hanno fede, siano esse atee, agnostiche o religiose di tutti i tipi. La domanda non è allora se sono credenti, quanto in che cosa essi credono. In un epoca sempre meno desiderosa, o forse più incapace, di articolare fini e scopi (sia per le discipline che per le persone), non sorprende che tali credenze si trovino sepolte in tradizioni e pratiche diventate sconosciute, invisibili e dimenticate come le radici degli alberi, che sono essenziali ma giacciono sotto terra. Non esistono quindi non credenti per se e l’utilizzo a ogni livello di un linguaggio tanto impreciso da parte di persone religiose, che ricorrono al termine “non credente” per identificare coloro che non credono nelle loro stesse credenze, nasconde questa verità. Gli atei contemporanei che si gloriano di non “credere in nulla” si sbagliano, e non è certo la dicotomia credente/non credente a poter sfidare le loro convinzioni. Quando gli atei o gli agnostici pretendono che solo le loro credenze debbano avere un riconoscimento pubblico (per esempio nell’insegnamento universitario) dovrebbe essere relativamente semplice rimarcare che sono proprio loro a voler imporre la propria fede e le proprie credenze agli altri. Il problema è che, messi insieme, gli errori che abbiamo segnalato compromettono la capacità di dibattere su ciò che sta accadendo. Non è una lotta tra il credere e il non credere, né tra quanti hanno “fede” e quanti non ce l’hanno. Ciò cui assistiamo è, di fatto, una serie di scontri pubblici per il riconoscimento e un trattamento equo tra sistemi di credenze in competizione. Uno di questi sistemi (quello degli atei o degli agnostici) pretende di non essere un sistema di credenze e cerca perciò di non essere sottoposto a qualsivoglia tipo di valutazione in merito alla ragionevolezza o meno dell’attribuzione di spazi e vantaggi sulla base dei sistemi di credenze personali. Non indossare un simbolo religioso è solo un modo un po’ più vago di mostrare ciò in cui uno crede o non crede. Un velo, una kippah, un turbante o una croce sono modi più specifici di mostrare le proprie credenze che indossare una t-shirt che menziona l’antica dea Nike. Farne sfoggio (in forma commerciale) nelle aule della laicità sembra concesso. Pare infatti che gli dei del consumismo siano invisibili anche quanto fanno apertamente uso di vecchi nomi pagani. Affinché la religione sia in grado di ispirare gli attuali ordini del diritto e della politica, o almeno di entrare nel loro dibattito interno, la terminologia impiegata deve emergere da un’antropologia adeguata della persona umana come persona credente e il ruolo delle fedi dei cittadini deve affiorare da sotto il falso mantello della neutralità in cui i presupposti della persona, della morale e della comunità e i fini della cultura sono aggirati in una corsa di massa verso ciò che non è altro che metafobia (o paura della metafisica). Tutti i credenti si trovano in comunità, grandi o piccole, di reti sociali che condividono le stesse credenze e la stessa posizione di fede. Ecco perché quando le persone religiose parlano di “comunità di fede” col solo significato di “comunità religiose” non fanno altro che rafforzare il loro stato di esclusione. Sommati uno all’altro, gli usi impropri di “secolare”, “laicità”, “credenza”, “fede” e “comunità di fede” creano un’inesorabile serie di barriere all’inclusione delle religioni nella sfera pubblica. Le religioni, il pluralismo e il multiculturalismo non saranno interpretati come sfide allo “Stato laico” a meno di accettare l’esistenza di uno “Stato laico” contrapposto allo Stato, alimentato da esplicite e spesso incipienti credenze tipiche della deriva contemporanea delle culture. Tale deriva nella comprensione dello Stato ha le sue analogie nella deriva interna alle religioni. Ci sono infatti diversi significati attribuibili al pluralismo e al multiculturalismo e se accettiamo i filoni ateleologici di entrambi, quelli che implicitamente e incessantemente affermano che non esistono beni condivisi o che non ci sono virtù ma solo “valori”, tutti equivalenti in virtù della sola libertà di scelta, non faremo altro che parlarci addosso. Non saremo perciò in grado di sfidare il secolarismo anonimo e ambiguo della nostra epoca. Cosa possiamo dire del secolarismo? Che è una forza che confonde. È interessante il fatto che il secolarismo non sia mai stato definito in un discorso pubblico. Anche nelle grandi opere che discutono “l’età secolare” o nei saggi scientifici che a loro volta commentano questi lavori, il “secolarismo” figura negli indici tematici ma nel testo viene discusso in termini di “secolarizzazione” (o di qualche sua variante). Tale assenza è tanto stupefacente quanto potrebbe esserlo l’assenza dei leoni in un libro sulla fauna africana. I leoni vanno presi in considerazione e, in questo caso, il movimento conosciuto come “secolarismo”, che ha una strategia e un obiettivo specifico, va compreso alla luce del fatto che questa strategia ha avuto ampio successo. Quando nel 1851 George Jacob Holyoake usò per primo il termine “secolarismo”, aveva in mente un significato preciso, non riconducibile, come affermano molte fonti successive (che non hanno fatto altro che ripetere gli argomenti di Holyoake) a un progetto neutrale. Esso intendeva ridmensionare il coinvolgimento pubblico e l’influenza della religione e costruire la sfera pubblica su “basi materiali”. Non si tratta di un progetto neutrale e non è un termine analogo a “secolare”, che, come abbiamo visto, rimane in ogni caso un concetto molto confuso. Il fatto che importanti lavori prendessero Holyoake alla lettera ripetendo l’affermazione che il movimento “secolarista” era “neutrale” quando invece non lo era, è un segno di quello che, in tempi più vicini ai nostri, sarebbe stata la cronica incapacità di analizzare il contenuto e la strategia del secolarismo. Holyoake intitolò il suo libro English Secularism: A Confession of Belief [1] (Il Secolarismo inglese: una professione di fede). È un peccato che questo complesso di credenze sia stato raramente esaminato e commentato visto che l’ideologia del “secolarismo”, della riduzione al minimo dello spazio della religione nel diritto e nella politica, è ben viva tra noi, benché rimanga senza concorrenti a causa della nostra incapacità di identificarla. Non basta ignorare la presenza dei leoni per impedire che ti mangino. Segnali non Incoraggianti C’è ora una sorta di cappa di confusione in cui il termine “secolare” rimane incompreso dalle persone molto religiose (e dai rispettivi gruppi di appartenenza) che vogliono impegnarsi nella sfera pubblica. Il loro linguaggio, fatto di “religione e laicità”, impedisce alla prima di occupare il posto che le spetta nello spazio pubblico. Nel frattempo, l’incapacità di intendere l’ateismo e l’agnosticismo come sistemi di credenze analoghi a quelli religiosi concede ad essi e alle loro comunità il controllo di un discorso sulla “neutralità” che non è affatto neutrale. Allo stesso modo l’incapacità di cogliere gli obiettivi strategici del movimento noto come “secolarismo” e ogni tipo di significato oscuro del termine “secolarismo” permette che il movimento, tanto nella sua essenza quanto nelle sue conseguenze, rimanga inesplorato [2]. Religione, pluralismo e multi-culturalismo, suscettibili come sono di portare a comprensioni completamente diverse (relativista e anti-sussidiarista o morale e favorevole alla sussidiarietà, per considerare solo una delle possibili opposizioni) non sono per se in grado di sfidare l’ideologia del “secolare”, perché tutto dipende da cosa le religioni e i gruppi etnici intendono con “secolare”. I segnali non sono sempre incoraggianti. Vista una tale mancanza di chiarezza su ciò che questi concetti cruciali significano, e dal momento che la chiarezza è essenziale per impegnarsi pubblicamente, è giunto il momento di una rivalutazione attenta e strategica del linguaggio che le religioni utilizzano per impegnarsi nella sfera pubblica o metterla in discussione. Tale valutazione deve essere incentrata su una comprensione del movimento storico del “secolarismo” e dei suoi stessi antecedenti, non inteso come movimento neutrale affine alla secolarizzazione (nel caso venga interpretato in questo modo), ma in quanto movimento politico volto a escludere aggressivamente e a ridimensionare le religioni con ogni mezzo possibile. Con “movimento” non intendo un’organizzazione che deliberatamente sferri i suoi attacchi alla religione su singole questioni, benché molti di questi attacchi operino già in tal modo nelle assemblee legislative e nelle aule dei tribunali. È quindi ora di rendere esplicite le visioni concorrenti del pluralismo soggiacenti a questi diversi usi. La sfida allo Stato dominato dal secolarismo non verrà dalla religione, dal pluralismo e dal multiculturalismo per se. È innanzitutto necessario definire cosa intendiamo con pluralismo. Il filosofo inglese John Gray individua due versioni contrastanti di “liberalismo”. Il “liberalismo della convergenza” minaccia il liberalismo autentico perché più che avvalorare la possibilità di vivere insieme dissentendo (ciò che Gray chiama modus vivendi), rischia di condurre al principio della “taglia unica” (one size fits all) o convergenza [3]. Gray sostiene che il futuro del liberalismo autentico dipenderà dal saper rinunciare all’ipotesi che ci vuole tutti d’accordo in virtù della tolleranza (con il diritto come strumento di convergenza). È vero che una comunità civile ha necessariamente bisogno di essere sostenuta da alcuni impegni di fondo, come il principio di legalità, la giustizia sociale e via dicendo. Ma nella maggior parte delle società moderne ci siamo spinti molto oltre. Occorre invece affermare, al di là della convergenza, lo spazio sociale implicito nell’idea del modus vivendi di Gray. Al pluralismo per convergenza dobbiamo sostituire il pluralismo per accomodamento. Lo sviluppo dei principi del modus vivendi (che comprendono i principi dell’accomodamento di credenze diverse e il rispetto dei diritti di associazione), piuttosto che quelli della convergenza sarà molto probabilmente ciò che in futuro segnerà il discrimine tra la libertà e un controllo illiberale. Gli Stati moderni, sia nei loro aspetti politici che in quelli giuridici, devono imparare le implicazioni di un’autentica diversità in relazione ai temi fondativi delle credenze e per questo non sempre condivisi su base etnica o religiosa. L’uso improprio di concetti quali “secolarismo” come equivalente di “secolarizzazione” (effetto dell’allontanamento dall’influenza pubblica della religione) o il corrispondente uso improprio del termine pluralismo sono profondamente problematici. Nascondono infatti una strategia predominante di esclusione e ridimensionamento del religioso. Abbiamo perciò bisogno di terminologie nuove e più chiare. Potremmo iniziare a parlare di “pubblico” ogni qualvolta fossimo presi dalla tentazione di usare “laico” e smettere di parlare di non-credenti quando ci riferiamo a persone che credono cose diverse da quelle che crediamo noi. E potremmo iniziare a usare l’espressione “pluralismo per accomodamento” per descrivere gli obblighi dello Stato.
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[1] George Jacob Holyoake, English secularism: a confession of belief, Open Court Publishing Company, Chicago 1896. Una discussione della concezione del “secolarismo” si trova in Iain T. Benson, Considering Secularism, in Douglas Farrow (a cura di), Recognizing Religion in a Secular Society, McGill Queens Press, Montreal 2004, 83-98.
[2] Ciò è chiaro, ad esempio, nel recente libro di Michael Warner, Jonathan Van Antwerpen e Craig Calhoun (a cura di), Varieties of Secularism in a Secular Age, (Harvard University Press, Cambridge 2010), contenente una serie di articoli che commentano il libro di Charles Taylor, A Secular Age (Harvard University Press, Cambridge 2007; trad. it. L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009).
[3] Cfr. Iain T. Benson, The Case for Religious Inclusivism and the Judicial Recognition of Associational Rights: A Response to Lenta, «Constitutional Court Review», 1 (2008), 297-312 (298-299).