Viaggio nel Sud Sudan, che ha mosso i primi passi da Paese indipendente dopo oltre venti anni di durissima guerra civile. Due milioni di morti e tre milioni di sfollati sono il tremendo bilancio del conflitto che ha opposto il Nord musulmano al Sud animista e cristiano.

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Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 11:07:23

Per indicare la Loreto School, situata a 6 chilometri dal centro cittadino di Rumbek, città di 300 mila abitanti nel Sud Sudan (ufficialmente “solo” 60 mila, ma i profughi hanno ingrossato di baracche questa località), è stata posta una pietra bianca a mo’ di cartello, come un segnavia per chi percorre la grande strada coloniale che sale verso la città di Wau: «La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra angolare».

Scherza, sebbene serio, monsignor Cesare Mazzolari, Vescovo della diocesi di Rumbek, da 30 anni missionario in queste terre d’Africa lontana, meta del grande apostolo Daniele Comboni. Visitare questa scuola femminile, l’unica del suo genere in tutto il nascente Stato del Sud Sudan, significa toccare con mano la forza “rivoluzionaria” dell’educazione. La pietra scartata, in questo caso, sono le ragazze dinka, la principale delle tribù nilotiche, cioè negroidi, di queste lande.

Già, perché le donne qui debbono sobbarcarsi la maggior parte del lavoro, sia in casa che fuori: l’educazione dei figli, le faccende domestiche, un impiego fuori. Per fare un esempio: andare a prendere l’acqua, a queste latitudini, non è una bazzecola visto che bisogna fare chilometri e chilometri di strada a piedi, ogni mattina e sera. Qui alla Loreto School, invece, le ragazze ricevono qualcosa di diverso: vanno a scuola, vengono istruite e si preparano a diventare leader nella loro società. Godono di un piccolo Eden ben curato. «Ah, si vede sempre la mano delle suore», esclama il vescovo Mazzolari, bresciano di origine, americano di vocazione (ha studiato e lavorato in California), sudanese di adozione. «Guarda i fiori, le piante: tutto qui è bellissimo!». 10.jpg

E infatti l’interno dell’edificio sembra essere di design, vista la modernità e il buon gusto nella dislocazione delle stanze. Ora le 54 studentesse di questa secondary school stanno affrontando gli esami di fine anno. Gli insegnanti – tutti provenienti dall’estero, Uganda e Kenya, ciò che la dice lunga sulla situazione di arretratezza del Sudan, il 150° Paese più povero al mondo – le stanno valutando in inglese, scienze, geografia e storia. La Loreto School è davvero un unicum in tutto il Sudan, l’ormai ex Paese più grande d’Africa, smembrato dallo storico referendum che il 9 gennaio 2011 ha sancito l’indipendenza del Sud dopo 23 anni di sanguinosissima guerra civile. Un conflitto che ha opposto il Nord musulmano al Sud animista e cristiano: nel 1983 il presidente Nimeiri, leader a quel tempo a Khartoum, aveva imposto su tutto il Paese la sharî‘a, la legge islamica; il Sud aveva risposto cercando con la via delle armi una strada per l’autodeterminazione. Non uno scontro per ragioni economiche, come ha evidenziato di recente l’analista John Ashworth in un incontro nella sede della diocesi di Rumbek: «I giacimenti di greggio nel Sud sono stati scoperti dopo l’inizio del conflitto».

Quindi, una guerra dalle motivazioni principalmente politiche (l’indipendenza del Sud, rifiutata dal Nord) e smaccatamente condita da motivi religiosi: Khartoum voleva imporre un regime islamista a tutto il Paese, i popoli del Sud (i cristiani raggiungono il 25% degli abitanti, il resto sono animisti) volevano difendere la propria identità non islamica. «I Vescovi del Sudan hanno ribadito di aver combattuto non per il petrolio ma per la libertà», ha rimarcato Ashworth. Due milioni di morti e tre milioni di sfollati: questo è stato il risultato di un conflitto che ha visto la Chiesa cattolica, con i suoi missionari e le sue missionarie, accanto al popolo nilotico (gli africani neri, osteggiati dagli arabi del nord: differenze etniche che si sovrappongono a diversità religiose) anche nei drammatici momenti di fuga e di esodo verso la vicina Etiopia o il Kenya.

2.jpgLa via dell’indipendenza ha come traguardo il 9 luglio 2011, secondo quanto stabilito dal Comprehensive Peace Agreement, firmato il 9 gennaio 2005 a Nairobi dai due contendenti, il presidente sudanese Omar El-Bashir (ricercato dal tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità in Darfur), e John Garang, il leader del SPLA, il Sudan People Liberation Army, l’esercito indipendentista sudista. Garang è deceduto l’anno seguente in un misterioso incidente d’aereo in Uganda.

La Chiesa cattolica – che nel Sud Sudan arriva al 15% della popolazione – ha guardato con favore al referendum d’indipendenza del Sud, promuovendo una campagna di preghiera e di sensibilizzazione durata 101 giorni, favorendo incontri, formazione sociale e istruzione sulle conseguenze dell’esito delle urne. E si prepara attivamente alla formazione del 54° Stato africano, il Sud Sudan. Il quale però non ha ancora un nome. La prima alternativa è quella dell’antica dicitura, appunto Sud Sudan, considerato però da molti in chiave negativa, visto che mantiene la parola araba “sudàn”, che letteralmente significa “terra dei neri”. Oppure resta valida la soluzione più prosaica Nile Republic, Repubblica del Nilo, in onore del fiume che lo attraversa (nonostante l’Egitto abbia già manifestato le sue rimostranze). Quello che però tutti si augurano – il vescovo Mazzolari in primis, lui che la guerra civile l’ha vissuta tutta, prima come Provinciale dei comboniani del Sud, poi come Amministratore apostolico (dall’89), quindi come Vescovo (dal ’99) – è che la transizione verso l’indipendenza non preveda altri scontri, altro sangue, nuova violenza e distruzioni ulteriori. Già basta ciò che lo storico Gianpaolo Romanato ha definito «la più lunga guerra del Novecento», se si assomma al periodo 1983-2005 anche il primo conflitto civile, scaturito già all’indomani dell’indipendenza (1956) e conclusosi solo con gli accordi di pace di Addis Abeba (1972).

 

Dimenticare la vendetta

7.jpgLa prima sfida, in un Paese che conta l’85% di analfabeti, è decisamente l’istruzione. Non solo per insegnare a leggere, scrivere e far di conto. Bensì per costruire un’identità personale, una forma di popolo, una nazione rivolta al futuro. Mazzolari lo spiega bene durante un viaggio in jeep, alla guida sebbene le sue primavere siano ormai 74 e le strade del Sud Sudan risultino poco più che piste nella savana. Uno dei problemi che i missionari hanno di fronte tutti i giorni è la sudditanza della donna in una cultura poligamica.

«Una delle cose che farà crollare la poligamia è l’educazione e l’emancipazione della donne, le quali capiranno che sono destinate a qualcosa di meglio che essere la 20° o 30° moglie del vecchio riccone del villaggio – argomenta convinto Mazzolari. Anche l’uomo istruito dovrà pensare che mantenere 30 figli (cosa che già non fa!) non gli sarà possibile e che dovrà averne al massimo 2-4. Oggi il marito poligamo è affezionato solo alle bambine, visto che ognuna, quando si sposerà, gli porterà 30 mucche. Infatti, quando una ragazza si sposa, la famiglia dello sposo la “paga” al suocero con un numero corrispondente di vacche a seconda del “valore” della donna: se è bella, se ha istruzione … vale di più!»

Nonostante la modernità faccia il suo timido ingresso in una società impenetrabile come quella sud-sudanese, i giovani, frastornati dai costumi sociali, «sono completamente incatenati alla loro cultura con una sorta di complesso. La poligamia, l’obbligo della vendetta e altre situazioni negative: la gente è vittima di questo circolo vizioso. Ci vorranno convinzioni cristiane tremendamente forti per sconfiggere tutto questo», spiega il presule bresciano. Oltre alla débacle della poligamia, sconfitta della dignità della donna e dello stesso valore dell’amore, l’educazione, intesa in senso cristiano, sta portando nell’antica Nigritia un altro valore umano e sociale importantissimo: il perdono.

«Come Chiesa abbiamo riconciliato i nuer e i dinka attraverso la nostra associazione diocesana intitolata a Santa Monica: abbiamo fatto incontrare tribù un tempo in lotta, le famiglie dinka sono andate a trovare i nuer e i nuer si sono recati nelle case dei dinka. È successo negli ultimi 7-8 anni, quando c’era ancora la guerra. Quando le persone dimenticano la vendetta, arriva la pace. Molte donne hanno perdonato le nefandezze che il Nord ha compiuto verso il Sud: a Khartoum erano stanchi di combattere, noi al Sud giacevamo esausti. Il trattato di pace, in fondo, è stato un atto di riconciliazione, sebbene il Nord lo consideri unicamente un atto di tregua»

8.jpgL’opera di riconciliazione della Chiesa non è avvenuta solo nelle stanze del potere politico. Anche se, annota Mazzolari, «per la pace abbiamo fatto il giro delle ambasciate: siamo stati in Sudafrica, Uganda, Nigeria, in Kenya, dove finalmente si sono riusciti a fare gli accordi di pace. Noi Vescovi siamo anche venuti in Europa: al ministero degli Esteri di Roma, in Germania, Francia e Gran Bretagna. La Conferenza Episcopale degli Stati Uniti è venuta a visitarci, come pure i Vescovi del Sudafrica. È stato un continuo tentativo di creare un nuova situazione, un’epoca di libertà per risuscitare lo spirito di questa gente che ha sofferto per troppi anni di guerra».

Quello che Mazzolari e altri come lui hanno tentato, è stato cicatrizzare tra la gente le ferite di oltre un ventennio di scontri e di contrapposizioni. In modo da superare il termine nemico. Un esempio: «Nella zona al confine tra Nord e Sud molti giovani riuscivano a scappare dai campi di tende dove venivano ammassati come schiavi dai baghar, i mercanti schiavisti arabi. Allora abbiamo messo in piedi delle scuole a Gordhim e a Marial Lou, due delle nostre missioni, dove è stata offerta un’educazione a questi ragazzi ex schiavi. Erano giovani traumatizzati e mentalmente scossi al punto che non sapevano più parlare il loro dialetto. Ricordo di aver visto in un campo vicino a Malualkon alcuni ragazzi sotto capanne fatte di frasche: erano appena fuggiti! Le nostre non sono state solo scuole, ma veri rifugi per questi bambini. Erano posti dove amalgamavo bambini che venivano dal Nord, refrattari a incontrare quelli del Sud: i nostri centri sono stati capaci di una vera riconciliazione e integrazione. Siamo stati in grado di offrire un futuro a centinaia di bambini ex schiavi. Essi, un giorno, diranno: “Se non c’era la Chiesa, saremmo ancora abbandonati e ignoranti”. Alcuni ex bambini schiavi li ho mandati all’università. Una ragazza, Suzanne, è andata fino a Oxford: ora è responsabile delle pubbliche relazioni del governo del Sud Sudan».

L’educazione qui serve come il pane per l’affamato e l’acqua per chi ha sete. «Vedi questo ragazzo che fa il benzinaio – mi diceva il Vescovo un giorno, andando a fare rifornimento in centro a Rumbek –, viene dall’Etiopia. Lo si capisce perché è più “chiaro” dei sudanesi del Sud. La nostra gente non è capace di organizzarsi in modo da diventare benzinaio. Se non ci fosse questo straniero, si resterebbe senza carburante! Il 95% dei mercanti che trovi al mercato sono stranieri. Per i dinka non è istintivo fare progetti e pianificare, essere organizzati, pensare al domani o alla settimana prossima. Sono preoccupati solo della sopravvivenza. Non sono stati educati: c’è bisogno di formazione, la scuola è rimasta solo una questione teorica che non incide nella vita: cosa mangiano, a che ora, il come …, tutto questo non è ancora entrato nel modo di vivere. Fare progetti, pianificare la vita, è la cosa che sentono più difficile. Vivono come viene…».

 

Numeri in aumento

Alla Loreto School si lavora alacremente per l’ampliamento del complesso scolastico. Sono in costruzione un nuovo dormitorio, l’aula informatica, aule più grandi: il piano di sviluppo prevede di arrivare ad accogliere 200 studentesse. Mentre lo visitiamo, le 54 ragazze che vivono qui sono impegnate in un workshop sulla pace e la giustizia. Catharina, una giovane greca, membro dell’ONG keniota Copaca, guida il workshop e domanda: «Se nel vostro villaggio scoppia un litigio al pozzo tra le donne, come potete fare per mettere pace?». Le ragazze, nelle loro belle t-shirt della Loreto School, si guardano di sottecchi, forse intimidite dalla presenza del Mazzolari e dello sconosciuto bianco arrivato or ora. Poi, una prende coraggio e risponde: «Beh, si potrebbero costruire più pozzi, così non ci sarebbe da litigare per avere l’acqua». Un’altra propone la sua soluzione: «Dando un ordine per chi va al pozzo, facendo la fila». Osservazioni tra lo scontato e il sorprendente, verrebbe da dire, che però non devono essere sminuite: per ragazze adolescenti, appartenenti a una cultura che misura la donna in vacche, già la possibilità di ricevere un’istruzione, di mettersi in cerchio e scambiare le proprie idee vedendole valorizzate e apprezzate, rappresenta una rivoluzione culturale e sociale “made in Chiesa” che trova nei missionari – in questo caso Mazzolari – il volano e punto di riferimento.

L’educazione, tema che sta tanto a cuore al Vescovo bresciano, rappresenta indubbiamente il campo in cui la diocesi di Rumbek risulta più forte. Il settore ha sede a Nairobi ma è ben presente in Sudan: Arnold, un giovane keniota, ne è il field coordinator a Rumbek. A lui fanno capo le 15 Comboni primary school (scuole elementari e medie) e le 4 secondarie (superiori), che si trovano sparse in vari punti della diocesi: a Mapourdit (260 alunni), a Rumbek (la scuola Loreto), a Tonj dai salesiani (160 studenti) e a Liamlel, dove studiano 25 ragazzi. Altre strutture sono in fieri.

I numeri sono destinati ad aumentare: si prevede che Mapourdit accoglierà in futuro 500 studenti e i salesiani di Tonj non vogliono essere da meno.

«Gli studenti stanno scoprendo, insieme alle loro famiglie, che le scuole secondarie della diocesi sono affidabili – afferma il Vescovo – e quindi riportano a casa i loro figli dall’Uganda e dal Kenya per farli studiare da noi. È un processo lento ma penso che aumenterà. In totale come diocesi educhiamo 50 mila ragazzi»

Una vera e propria folla. «I risultati ci sono e ci incoraggiano ad andare avanti» evidenzia Mazzolari. «Vorremo fare di più, ma poco alla volta la messe cresce e aumentano quelli che intuiscono quanto il Signore ha fatto per loro. Ovunque io vada, negli uffici delle organizzazioni non governative nel Lake State (la provincia di cui Rumbek è capitale, ndr), ad esempio l’UMMIS (l’ente Onu per il Sud Sudan), trovo sempre diversi ex studenti delle nostre scuole che oggi lavorano a livello di logistica o amministrazione. Alcune ragazze educate da noi in Kenya sono già membri del parlamento a Rumbek e fanno parte del movimento Women for Women. Ho inviato un giovane rientrato dai campi dell’Etiopia a studiare alla Catholic University of Eastern Africa: adesso ricopre l’incarico di Direttore Generale dell’Educazione nel nostro Stato. È un grande riconciliatore nella regione. Altri ragazzi e ragazze vengono a dirmi: “non sarei quello che sono senza di te, perché tu mi hai mandato a scuola a Nairobi e mi hai fatto andare avanti negli studi”. A Mapourdit abbiamo già avuto 500 diplomati, in Kenya ne abbiamo formati 250; tanti di loro hanno già dei posti di lavoro che garantiscono a loro e alla società un certo sviluppo. E hanno enorme riconoscenza verso la Chiesa e vivono apertamente la loro fede cattolica».

La Chiesa si è presa in carico anche una ferita collettiva e una riconciliazione popolare: curare le vittime del trauma della guerra. All’indomani degli accordi di pace del 2005 ha messo in piedi l’Healing the Healers, un programma di riabilitazione e di cura del trauma rivolto a tutti. Anzitutto ai pastori della comunità cristiana, segnati anch’essi da anni di bombe, timori, morti e distruzioni. Ma anche come scuola di cura del trauma («Gesù è la vera terapia, basti pensare alla scena dei due di Emmaus, come cura la loro paura!»): «Qui la gente è stata traumatizzata da 22 anni di scontri: è traumatizzato il comandante dell’esercito, il soldato che ha sparato e che vive nella colpevolezza di quanto fatto. È traumatizzato il bambino che ricorda di aver visto uccidere i propri genitori, la mamma che ha presente la scena dell’assassinio dei suoi figli e del marito sotto i suoi occhi… Questo trauma continua a mostrare le sue tremende immagini nel cuore, negli occhi e nel sangue del nostro popolo. Tale situazione delle persone causa una grave mancanza di fiducia nel futuro, una rabbia indomita, un continuo desiderio di vendetta, un’incapacità di reagire di fronte alla realtà. La rabbia paralizza la nostra gente e la rende apatica. Per questo ci vuole qualcuno che sveli i loro segreti, facendo vuotare il sacco a questa gente perché racconti e parli della guerra terroristica che abbiamo subito».

Una delle maggiori consolazioni per un missionario è vedere, almeno in parte, i frutti della sua missione. Un esempio? I battesimi. Monsignor Mazzolari non nasconde l’entusiasmo parlando dei suoi primi cristiani: «Ho sempre goduto del beneficio di quanti preparano i catecumeni, per poi celebrare i battesimi e amministrare le cresime. Nei primi anni di missione tra gli azande ho curato personalmente la preparazione ai battesimi. Poi, da Vescovo, una sera ho battezzato in una volta sola a Niam Liel ben 1200 giovani. La mattina seguente ne ho cresimati 900. Sono momenti – quando diventiamo strumenti di santificazione – in cui siamo santificati anche noi. Non si dimentica quanto e come Dio lavora nel cuore della gente. E quando tu diventi Suo ministro, beh, è bellissimo! Un’esperienza gigantesca! Tra i miei catecumeni, oggi, uno è vescovo di Tombura-Yambio, monsignor Eduard Hiiboro, altri sono bravi sacerdoti mentre qualche ragazza è diventata suora». La tradizione, cioè la consegna della fede di mano in mano, di vita in vita, tramite l’educazione della persona e il dono, inestimabile, della fede, arriva fino nella lontana Nigrizia di San Daniele Comboni.

 

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