La famiglia Massabki, martiri e beati. Nel 1860 in Siria e Libano la comunità maronita è al centro di una ondata di persecuzioni che provoca decine di migliaia di morti
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:19
I beati fratelli Francis, Abdel Mo‘ti e Rouphael Massabki, martirizzati a Damasco nel XIX secolo, rappresentano una delle pagine più alte nella storia della Chiesa maronita moderna.
Al tempo dei beati, la diocesi maronita di Damasco si estendeva per circa 70 km di lunghezza, da Sarba, sul litorale mediterraneo del Libano, all’attuale capitale siriana. La sede episcopale si trovava ad Achkout, sulla montagna libanese e il Vescovo era rappresentato a Damasco dal suo vicario. Nel 1960 si procedette alla separazione dei territori libanesi da quelli siriani e la parte libanese divenne la diocesi di Sarba. Privata della Beqaa nel 1977, nel 1990 essa divenne uno dei quattro vicariati che formano la Diocesi Patriarcale Maronita. La sede episcopale rimane ad Achkout, dove sono conservati diversi documenti riguardanti i Massabki nonché alcune reliquie loro e degli otto francescani che ne condivisero la sorte.
Tale realtà tangibile suscita perciò in noi un legame di fraternità con i fratelli martiri, che trae origine dal senso di appartenenza alla medesima diocesi storica. In realtà, il caso Massabki apre orizzonti ben più ampi e costituisce un momento importante dei rapporti tra la Chiesa romana e quella maronita. Nella Chiesa cattolica la proclamazione di un beato spetta esclusivamente al Papa. Il beato è morto, ha ottenuto grazia presso Dio, i credenti possono pregarlo di intercedere presso l’Altissimo ed erigere luoghi di culto in suo nome, chiese o cappelle. Durante i primi secoli del Cristianesimo i Vescovi si erano riservati il diritto di dichiarare che una persona defunta aveva meritato il cielo e i favori di Dio. In realtà, il più delle volte si accontentavano di confermare la voce del popolo.
Nel XII secolo, in Occidente, Papa Alessandro III limitò questo diritto al solo Pontefice e poi, nel XIII secolo, Innocenzo III ne definì le regole. Queste subirono diverse riforme, l’ultima delle quali fu apportata da Giovanni Paolo II nel 1983. Secondo queste regole, per procedere alla beatificazione di un fedele rivestono certo grande importanza i miracoli che gli vengono attribuiti, ma non quanto il suo martirio e le sue virtù cristiane. Il martirio, fedeltà a costo della vita, rende esemplare colui che lo subisce, quand’anche la sua vita passata non sia stata tale. La testimonianza del sangue costituisce infatti la prova più evidente che una persona ama Dio al di sopra di tutto ed è tra gli amati di Dio. Nel caso in cui non si dia martirio, sono invece le virtù a rendere manifesta la forza della fede.
Processo record
I fratelli Massabki, i primi della nostra Chiesa se non di tutte le Chiese d’Oriente a essere stati beatificati ufficialmente dal Papa, sono martiri laici. La loro beatificazione, risalente al 10 ottobre 1926, ha preceduto di 39 anni quella del santo eremita Charbel, di 59 anni quella della santa monaca Rafka, di 70 anni quella del santo monaco Neemtallah e di 82 anni quella del beato cappuccino Padre Jacques al-Haddad, nomi tutti che compongono l’elenco dei nostri santi e beati moderni. Quanto a quelli più antichi, dobbiamo la loro canonizzazione alla formula in vigore nei primi secoli, ovvero al riconoscimento popolare piuttosto che a un decreto dell’autorità ecclesiastica. Il processo di beatificazione richiede tempo, il tempo necessario per assicurarsi che le virtù attribuite al candidato siano effettive e siano state rese manifeste in particolare durante gli ultimi anni della sua vita terrena. L’unica deroga è il martirio, per il quale sono sufficienti i documenti attestanti che la persona è morta per Cristo, e, come Lui, con il perdono e l’amore nell’anima, anche per i nemici. Malgrado ciò, il processo di beatificazione degli otto francescani, martirizzati nello stesso giorno e nello stesso luogo dei Massabki, durò anni.
Il caso dei Massabki, trattato separatamente da quello dei francescani, fu invece estremamente rapido. Avendo appreso che a Roma era in corso un’indagine riguardante i francescani e che la data della loro beatificazione era stata fissata per il 10 ottobre seguente, mons. Bechara Shmali, Vescovo della diocesi di Damasco, su iniziativa del Nunzio Apostolico di Damasco e sostenuto dal Patriarca e dal Sinodo dei Vescovi maroniti, presentò il 4 maggio 1926 una richiesta nella quale annunciava che tre persone della sua comunità erano state messe a morte per essere rimaste fedeli alla loro fede; il loro caso ancora non era stato segnalato alla Santa Sede, ma esistevano molti documenti che potevano certificare l’autenticità della loro suprema testimonianza. Sua Santità Pio XI ordinò di eseguire l’indagine, d’istituire una rapida inchiesta e di unirla al fascicolo dei francescani. Il 16 luglio Mons. Shmali ne informò il Sinodo maronita. Il 10 agosto Roma inviò una commissione d’inchiesta. Il 16 agosto la commissione sbarcò a Beirut: tre giorni d’inchiesta a Beirut e tre giorni a Damasco. Il 13 settembre la commissione ripartì per Roma. Il 7 ottobre 1926 il Santo Padre diede il via libera per proclamare beati i tre fratelli Massabki e il 10 ottobre 1926 i Massabki furono beatificati insieme ai francescani.
Processo conforme alle norme legali, tempo record: meno di un mese! La ragione va cercata nell’alto valore morale e nella pietà dei Massabki, nelle circostanze chiare del loro martirio e nella sollecitudine mostrata da Papa Pio XI nei confronti dell’Oriente.
Francis Massabki era il più anziano dei tre fratelli: alto e di costituzione robusta, sguardo penetrante e voce profonda, di piacevole compagnia, dolce e per nulla irritabile; tunica in seta, cappotto in lana, cintura alla persiana. Fumava la pipa lunga. Sua moglie, Elisabeth Chiha, era una damascena di rito latino. Ebbero otto figli, cui assicurarono l’istruzione, una cultura adeguata e un’educazione cristiana. Francis era commerciante di seta. Grazie alla sua serietà ed energia, all’integrità e a una buona gestione degli affari, fece fortuna e meritò la considerazione di tutti, cristiani e musulmani, nella Siria intera. Quando andava in Libano, le campane suonavano a festa. Il Patriarcato maronita e numerosi notabili si rivolgevano spesso a lui per gli affari di natura civile. Buono di natura e per convinzione, era generoso, soprattutto verso i poveri e le chiese. La sua casa era un luogo di accoglienza, aperto a tutti i visitatori e ai turisti provenienti da lontano o da vicino. Non mancava mai ai doveri religiosi, era timorato di Dio, venerava soprattutto la Santa Vergine e recitava ogni giorno l’Angelus e il rosario. Da bambino, e poi da adulto, ogni mattina diceva le orazioni, andava a Messa e si comunicava spesso. La sera si riuniva con i fratelli e i bambini per la preghiera e la lettura spirituale e digiunava in preparazione delle feste: il Natale, la Quaresima, San Giuseppe e l’Assunta. Chiudeva spesso la bottega per partecipare insieme alla famiglia alla via crucis.
Abd al-Mo‘ti Massabki, il fratello di mezzo, piccolo e di taglia media, un aspetto poco appariscente, indossava una tunica in stile persiano e un cappotto nero, era pacifico e amava la solitudine. Con sua moglie, originaria della famiglia Sekran, e i suoi cinque figli, viveva nella casa di Francis e si occupava dell’istruzione e dell’educazione dei bambini. La più giovane delle sue figlie entrò nel convento delle Suore della Carità. Per buona parte della vita insegnò presso la scuola dei frati francescani, preoccupandosi della fede dei suoi allievi e sforzandosi di condurli verso l’amore per il Signore e la rinuncia al peccato. Con l’età, stanco d’insegnare, aprì un negozio il cui capitale non faceva che diminuire: desideroso di favorire i clienti, fu costretto alla fine a chiudere. Anche lui, ogni mattina, recitava le orazioni e poi andava alla Messa. Il Giovedì Santo rimaneva nella cappella dei francescani, in ginocchio, fino al venerdì mattina, poi restava in convento fino alla mezzanotte del sabato. Si recava quindi alla chiesa dei maroniti per il rito della Resurrezione e della comunione pasquale. Il suo leit-motiv era: «Non vi è grazia più grande del martirio».
Rouphael Massabki, il minore, era piccolo e fragile, dalla pelle scura e tendente al giallastro; indossava una tunica e un cappotto corto. Senza un’occupazione specifica, celibe, si dedicava ad aiutare la gente del convento e la famiglia. Uomo di preghiera, particolarmente devoto a Nostra Signora, nell’arco della giornata frequentava regolarmente la cappella dei francescani e si ritrovava poi con le famiglie dei suoi fratelli per la preghiera serale.
La pietà dei fratelli Massabki non era esagerata. Erano membri del Terz’Ordine francescano e all’epoca le famiglie cristiane di Damasco erano abituate a queste preghiere e letture spirituali, ai digiuni e alle adorazioni: nel mese di marzo in omaggio a San Giuseppe, nel mese di maggio in onore della Vergine Maria.
Uccisi a colpi di spada
Il Cristianesimo è in Siria fin dai suoi albori. Sulla via di Damasco e poi nella città, Saul, il persecutore, divenne Paolo, apostolo di Gesù Cristo tra le genti. I maroniti erano a Damasco prima ancora dell’avvento dell’Islam. Proprio a Damasco, più esattamente nel quartiere denominato Masbak al-Burrânî (il Masbak esterno), nel XIII secolo viveva un prete maronita noto col nome di Yaqub Massabki. Nel 1293, un emiro damasceno promise a Padre Yaqub Massabki di aiutare la comunità maronita se questa si fosse schierata al suo fianco contro i franchi. Dopo la morte della moglie, il prete si recò in Libano per mettere il Patriarca maronita al corrente delle promesse dell’emiro. Il Patriarca, Jebrail Hjoula, che subì poi il martirio, in quel momento si teneva nascosto nel suo villaggio nel tentativo di sfuggire alle rappresaglie dei mamelucchi, che lo accusavano di essere in combutta con i franchi. Egli nominò allora Padre Massabki Vescovo di Damasco, con il nome di Hanania. Rientrato nel suo paese, il nuovo Vescovo fu costretto alla fuga, insieme a oltre 10 mila fedeli perseguitati dai mamelucchi. Durante la persecuzione perse suo figlio Francis. Gli altri suoi due figli s’insediarono in Libano. I figli di Francis invece fecero ritorno a Damasco dove costituirono quello che sarebbe stato il nucleo di provenienza dei tre martiri, Francis, Abd al-Mo‘ti e Rouphael.
Facciamo ora un balzo in avanti di parecchi secoli. Nell’aprile del 1860 il Libano è investito da tragici avvenimenti che si protraggono fino a luglio. Il bilancio fu di più di 60 località incendiate e circa 22 mila maroniti massacrati. A Damasco la tensione salì. La mattina del 9 luglio la città si svegliò con il segno della croce tracciato ovunque nelle strade, un modo per incitare allo scontro interconfessionale. Il governatore della città, Ahmad Bacha, istigatore della manovra, fece arrestare i cristiani. Il 10 luglio scoppiò un incendio nel convento dei francescani e dei cappuccini e nella chiesa dei maroniti, che devastò per cinque giorni 3.800 case del quartiere cristiano. La tragedia si estese anche al di fuori della città, in tutta la regione. Quasi 12 mila cristiani furono uccisi.
Qualcuno potrebbe trovare sgradevole ricordare questi avvenimenti, suscettibili di rinfocolare tensioni di natura confessionale, soprattutto in tempi come questi in cui si parla di scontro di civiltà e di culture tra l’Occidente e l’Islam. Al contrario, la storia dei Massabki, la loro vita e gli eventi che hanno accompagnato il loro martirio, favoriscono il riconoscimento di un incontro reale, nel rispetto reciproco, tra persone sincere e assetate di giustizia, di ogni convinzione religiosa, sociale o politica. In effetti, dall’inizio di questi avvenimenti, si formò in ambito musulmano un movimento d’opposizione al governatore, in favore dei cristiani. Possiamo citare alcuni nomi: a Damasco, l’algerino Abd al-Qader, esiliato in Siria, che prese sotto la sua protezione oltre un migliaio di cristiani; poi Saleh e Salim Agha al-Mahayani, Mahmoud Efendi Hamzi, Omar Agha al-Abd; nella regione, Mouhammad Agha Souidane, Farès Agha, prefetto di Baalbek, Hajjou Efendi al-Rifai e i Sibai a Homs. Tuttavia, per mettere fine al dramma, fu necessario l’intervento delle potenze straniere, specialmente della Francia.
Quando l’incendio divampò nel loro quartiere, Francis e Abd al-Mo‘ti, le loro famiglie e il fratello Rouphael si trovavano insieme. Avendo sentito che le donne e i bambini sarebbero stati risparmiati, avevano raggiunto il convento dei francescani insieme ai figli maggiori. Poco prima di mezzanotte, fra Manuel chiuse le porte del monastero. Tutti si recarono in cappella per recitare la litania dei Santi, implorare la Santa Vergine, celebrare l’ufficio del Santo Sacramento e ricevere la Comunione. Poi salirono sulla terrazza, tutti tranne Francis, rimasto in ginocchio davanti all’immagine di Nostra Signora dei dolori. Gli aggressori arrivarono dalla terrazza, passando per una porta laterale che un certo Hassan al-Allaf avrebbe indicato loro. La loro prima vittima fu fra Manuel, che disse loro: «Vi mostrerò un tesoro nascosto». Lo seguirono nella cappella. Accese due candele davanti al tabernacolo, lo aprì e mangiò le ostie sante. Poi, voltandosi verso i suoi aggressori, disse loro: «Questo è il tesoro nascosto, non ho nient’altro». Lo uccisero immediatamente.
Riconobbero Francis, in ginocchio, raccolto in preghiera. Gli dissero: «Shaykh Abdallah ci ha mandati perché tu e i tuoi abbiate salva la vita, a condizione che tu cambi di religione». Rispose: «Shaykh Abdallah può prendere il mio denaro, e voi la mia vita, ma nessuno può togliermi la fede. Sono cristiano e morirò cristiano». «Se è così, ti uccidiamo», replicarono. «Allora sarò insieme al mio Signore e Maestro che ha detto: “Non abbiate timore di coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l’anima”». Riprese a pregare. Lo uccisero a colpi di spada e ascia.
Poi si rivolsero a Abd al-Mo‘ti, in piedi accanto alla porta, e inutilmente gli ordinarono di convertirsi all’Islam. Lo uccisero selvaggiamente. Rouphael fu a sua volta messo a morte in maniera altrettanto barbara, se non di più. I Massabki furono sepolti nel convento, con i francescani e altre vittime. Come disse Mons. Shmali al Papa in occasione della presentazione del caso:
«Il sangue dei figli di San Marone e dell’Oriente si è mescolato con quello dei figli spirituali di San Francesco, venuto dall’Occidente, nella stessa suprema testimonianza di fedeltà a Gesù Cristo, e nell’elevazione felice e gloriosa, iscritta per sempre nella memoria dei secoli»
Insieme a lui, anche noi speriamo che il sangue di questi martiri laici del nostro popolo, sia fermento di vita nuova, fattore di rinnovamento della nostra Chiesa contribuisca all’unione di tutte le Chiese e alla riconciliazione tra i popoli. I fratelli Massabki, semplici laici della bimillenaria Chiesa di Damasco, si trovarono coinvolti in uno scontro politico-religioso molto più grande di loro. Apparentemente senza possibilità d’incidere nella storia, non vollero però rinunciare al dovere della testimonianza cristiana, fino al martirio. E in questo modo hanno lasciato un segno duraturo, mostrando, come ha affermato il Santo Padre alla Veglia della Giornata Mondiale della Gioventù 2005, che
«solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo»
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Guy-Paul Noujaim, Tre fratelli di Damasco e un tesoro nascosto, «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 95-98.
Riferimento al formato digitale:
Guy-Paul Noujaim, Tre fratelli di Damasco e un tesoro nascosto, «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/tre-fratelli-di-damasco-e-un-tesoro-nascosto.