Negli ultimi anni, in diverse università libanesi sono cresciuti i club “laici” o “indipendenti”, che contestano il sistema confessionale vigente anche negli atenei. Un fenomeno che è stato interpretato come il segno precursore di un’evoluzione generale del panorama politico del Paese.
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 10:56:43
Negli ultimi anni, in diverse università libanesi sono cresciuti i club “laici” o “indipendenti”, che contestano il sistema confessionale vigente anche negli atenei. Questo fenomeno è stato interpretato come il segno precursore di un’evoluzione generale del panorama politico del Paese. Le cose sono più complesse, ma è vero che il cambiamento manifestatosi nei campus si sta lentamente estendendo alla società nel suo complesso.
Nella prefazione del suo Voyage au bout de la violence (“Viaggio al fondo della violenza”), l’intellettuale e politico libanese Samir Frangié ripercorre le proteste studentesche scoppiate in Libano il 7 novembre 1968 e i conseguenti duri scontri tra sostenitori e oppositori della resistenza palestinese, in una spirale di violenza che «suscitò grande emozione nel Paese»[1]. Nel farlo, menziona un gruppetto di “agitatori” che, insieme a lui, furono ritenuti responsabili dei disordini e per questo invitati a rispondere delle loro azioni in un incontro organizzato dal giornale L’Orient: Bashir Gemayel, Karim Majdalani, Amin Maalouf. Di chi si tratta? Il primo è stato il fondatore delle Forze libanesi e fugace Presidente della Repubblica, eletto il 23 agosto 1982 e assassinato tre settimane dopo; il secondo, il rampollo di un’importante famiglia greco-ortodossa beirutina, ucciso anche lui nel 1982 in circostanze poco chiare, durante l’assedio israeliano alla città[2]; il terzo è oggi uno dei più celebri scrittori libanesi.
Per quanto aneddotico, l’episodio ricorda che chiunque abbia plasmato – in un modo o nell’altro – la storia libanese degli ultimi decenni, è stato prima di tutto uno studente, spesso già politicamente impegnato nell’università di appartenenza. Un’osservazione semplice, che suggerisce però di non ignorare, nell’instabile panorama politico libanese, le voci provenienti dai tanti campus del Paese, più di 40 in un Paese con poco più di 4 milioni di abitanti.
Uno sport nazionale serio
In Libano, le elezioni studentesche dei più importanti atenei del Paese sono state scherzosamente descritte come «uno sport nazionale» che si ripete ogni autunno[3]. Anche ammettendo la validità della metafora, bisogna aggiungere che si tratta di uno “sport” serio. Complici gli immancabili scontri e tensioni che accompagnano questo appuntamento e la loro forte mediatizzazione, la competizione per i diversi organi di governo delle università è un evento particolarmente seguito e tradizionalmente percepito come un microcosmo della scena politica nazionale[4]. La vittoria, infatti, ancor prima che in un reale potere, si traduce in un messaggio pubblico attestante la popolarità di un partito politico nazionale, di un’alleanza o coalizione di partiti, di gruppi “indipendenti” esterni all’establishment o esplicitamente contrari ad esso.
Un breve excursus storico
Storicamente, l’attivismo politico studentesco è stato un elemento connaturale alle istituzioni universitarie del Grande Libano sin dalla loro fondazione; esse d’altronde si prefiggevano di formare quella che sarebbe poi divenuta la classe dirigente del Paese[5]. La nascita dei più importanti istituti libanesi d’istruzione superiore – l’Università Americana di Beirut (1866) e l’Università Saint-Joseph di Beirut (1875) – è stata immediatamente accompagnata dallo sviluppo di movimenti studenteschi, alcuni dei quali clandestini, spesso impegnati in questioni accademiche, ma che avevano di fatto un risvolto nazionale (emblematico in questo senso il “caso Lewis”) o regionale (il panarabismo di associazioni studentesche come al-‘urwa al-wuthqā)[6]. Importante è stato inoltre il ruolo degli studenti nel porre termine al Mandato Francese (1943) e nelle proteste regionali in seguito alla nascita dello Stato di Israele (1948).
Ben noto e documentato è anche l’attivismo universitario nei decenni precedenti la guerra civile, durante i quali gli organi politici studenteschi acquisirono maggiore consapevolezza di sé, autonomia e influenza sulla scena politica libanese. Inizialmente, gli studenti si concentrarono su richieste di “democratizzazione” e miglioramento del sistema di istruzione superiore, caratterizzato da un certo elitismo e specchio di diseguaglianze e squilibri confessionali già propri del sistema libanese pre-guerra civile. Esemplari in tal senso furono le proteste studentesche degli anni ’50 e dei primi anni ’60, che chiedevano l’istituzione dell’Università pubblica libanese (ottenuta de facto solo un decennio dopo) come alternativa alle costose università private e una serie di profonde riforme del sistema educativo[7].
Dagli anni ’60 e fino allo scoppio della guerra civile, in linea con il clima internazionale, in Libano si assistette inoltre a una forte ideologizzazione dei movimenti studenteschi; a una mobilitazione senza precedenti (emblematico il lunghissimo sciopero che si verificò all’Università Americana di Beirut nel 1971)[8]; a un’internazionalizzazione della coscienza politica e delle conseguenti istanze, concentrate sul panorama politico regionale; a una radicalizzazione delle posizioni politiche, in particolare con il rifiuto generale dello status quo e dell’autorità, sia a livello universitario che nazionale, a favore di cambiamenti strutturali e grandi sogni rivoluzionari[9].
Fu in particolare la guerra civile scoppiata nel 1975 a frenare questo fermento e a frammentare (anche fisicamente, decentralizzando numerosi campus universitari in zone controllate da diverse fazioni) un certo sentimento comune anti-establishment dei vari movimenti studenteschi a favore di tendenze autoritarie e partitiche ben consolidate nella società libanese. Un periodo che vide inoltre la sospensione delle stesse elezioni studentesche: a titolo d’esempio, l’AUB non organizzò elezioni studentesche tra il 1982 e il 1993.
Negli anni ’90, l’eredità di quindici anni di guerra civile e la presenza siriana in Libano risultarono in quella che è stata descritta come la “grande assenza” dei movimenti studenteschi. Qualche eccezione ci fu, per esempio delle iniziative antisiriane difficilmente realizzabili fuori dallo spazio protetto – e a volte esplicitamente favorevole – di alcuni campus, avvenute in particolare dopo il 2000, anno della morte di Hafez al-Asad e della ritirata israeliana dal Sud del Paese[10]. Dopo il 2005 e fino al 2017-2018 circa, si assistette infine a una polarizzazione studentesca in linea con quella nazionale tra la Coalizione dell’8 Marzo e quella del 14 Marzo, in particolare intorno al 2008-2009. Per tale ragione, la scena politica studentesca degli ultimi due decenni è stata generalmente descritta come frammentata, partitica, cooptata o al servizio, volontario e attivo, dei tradizionali partiti politici confessionali nonché ridotta a “guerre territoriali” nei campus universitari[11].
Partiti politici tradizionali e università
Di fatto, tutti i principali partiti etno-confessionali post-guerra civile posseggono uno spazio rappresentativo all’interno delle principali università libanesi, benché ufficialmente la loro presenza non sia contemplata. Essi agiscono infatti attraverso organizzazioni – in particolare i “club” e le “società” studentesche – che, da un lato, negoziano lo spazio di potere all’interno dei campus e, dall’altro, mantengono la mobilitazione politica lungo linee confessionali.
I club fungono dunque da vere e proprie agenzie di reclutamento partitico, con annesse strategie mirate di coscrizione[12]: incontri di formazione, borse di studio “informali”, patrocini e favoritismi (libri di testo e cartoleria, esami già compilati, parcheggi gratuiti) finanziati dal partito di riferimento permettono agli studenti più anziani di fidelizzare i più giovani e allargare così il proprio bacino elettorale all’interno dell’università[13].
Alcuni campus sono perciò “tradizionalmente” associati ad alcune formazioni partitiche. Solo per fare qualche esempio: l’Università Libanese è spesso indicata come “dominata” da Amal e Hizbollah; l’Università Rafik Hariri è, senza sorprese, considerata la roccaforte del partito dell’ex premier Mustaqbal, e la Notre Dame è stata sovente terreno di scontro tra due partiti cristiani opposti (le Forze libanesi e il Partito Patriottico Libero)[14].
Nuovi attori: le alternative studentesche “laiche” e “indipendenti”
Fino a poco più di un decennio fa, sulla scena politica universitaria libanese non vi era alcuna reale alternativa a questo panorama etnico-confessionale[15]. Nel 2008, spinti da un crescente risentimento nei confronti della rappresentanza politica tradizionale e dagli avvenimenti politici del 7 maggio di quell’anno, quando dopo una lunga paralisi politica era esploso un conflitto tra il governo guidato da Saad Hariri e Hizbollah, alcuni studenti dell’AUB fondano il Secular Club. Nato in aperta opposizione ai partiti confessionali con lo scopo di creare uno spazio autonomo per il cambiamento sociale in seno all’AUB, questo club si definisce oggi «un’organizzazione studentesca politica indipendente che lotta per una società laica, democratica, equa e meritocratica»[16]. Il Secular Club partecipa alle elezioni universitarie dal 2012, riscuotendo un successo crescente (un seggio nel 2012, quattro seggi nel 2015, cinque seggi nel 2016, sei seggi nel 2017 e tre seggi nel 2018)[17]. Negli anni successivi, diversi club prendono forma in altre università, definendosi anch’essi “indipendenti” da ogni partito tradizionale. Per citarne solo alcuni: il Club Laïc alla Saint-Joseph, il Club Sama all’Università Libanese; il Secular Club alla Notre Dame; il Movimento Studentesco Alternativo all’Università Americana Libanese, etc. La maggior parte di queste realtà si definisce inoltre “laica” o “secolare” (‘almāniyya), un’idea e una pratica dai contorni spesso ambigui nel contesto libanese, generalmente inteso dai club studenteschi come un approccio opposto alla tradizionale politica confessionale libanese[18].
Nei loro primi anni di attività, i candidati di questi club denunciano censure, calunnie e atti di bullismo (sia fisici che telematici)[19], mentre la loro partecipazione alle elezioni studentesche è definita un atto “kamikaze” per le improbabili possibilità di vittoria[20]. Ciononostante, la loro presenza si rafforza lentamente sia all’interno che all’esterno dei perimetri universitari, con una sempre maggiore partecipazione alla vita pubblica del Libano. Ne è un esempio il 2015, con le proteste del YouStink Movement, che vedono la partecipazione, tra l’altro, di migliaia di studenti[21], in piazza per l’emergenza rifiuti scoppiata in quell’anno nella capitale.
Proprio per amplificare la loro influenza sulla scena politica universitaria e non solo, dalla cooperazione dei due club “laici” storicamente più attivi e importanti (AUB e USJ) nasce nel 2017 Mada[22]. Si tratta di una rete di studenti e gruppi universitari, non affiliata a partiti politici tradizionali, che istituzionalizza e coordina queste realtà “indipendenti”, e per questo è definita «un’unione studentesca nazionale de facto»[23]. Una realtà che sta giocando un ruolo fondamentale nell’aumentare l’incisività politica dei singoli club “laici” universitari e nell’elevare le loro preoccupazioni e istanze dal livello locale a quello nazionale[24].
Se fino al 2018 i risultati concreti sono per lo più ancora timidi e circoscritti, il 2020 è salutato dalla stampa libanese e internazionale come l’anno della svolta, in cui si «è realizzato il sogno di una minoranza»[25]. In mezzo, la cosiddetta “rivoluzione” (thawra), il collasso politico, economico e finanziario del Paese, l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 e la pandemia di COVID-19.
Le proteste antigovernative iniziate nell’ottobre 2019 vedono infatti la partecipazione di un alto numero di giovani e, tra loro, di studenti universitari, considerati tra gli attori fisicamente più presenti alle manifestazioni. La cosiddetta thawra riesce inoltre ad avvicinare alla mobilitazione politica coloro che ne erano disillusi o disinteressati e a spingere altri a mettere in discussione il proprio sostegno ai partiti politici tradizionali. Le conseguenze di questo sollevamento popolare sembrano profilarsi in modo chiaro nel panorama politico studentesco del 2020: fioriscono nuovi club studenteschi non partitici (tra i più interessanti, i club dell’Università Rafik Hariri, dell’Università Libanese e dell’Università Americana Libanese, oltre a Change Starts Here all’Università Americana di Beirut, nato dal «grembo della rivoluzione»)[26]; le istanze studentesche si estendono prepotentemente a questioni nazionali (introduzione dell’istruzione pubblica, riforma elettorale, parità di genere, protezione delle minoranze, salvaguardia dell’ambiente); e soprattutto, si assiste a inedite vittorie delle liste elettorali non partitiche.
Solo per citare alcuni dati salienti, alla Rafik Hariri i candidati indipendenti – che si sono presentati per la prima volta – ottengono 4 seggi su 9; gli indipendenti dell’Università Americana Libanese passano da 3 seggi nel 2019 a 13 seggi su 30 (contando sia il campus di Beirut che quello di Byblos) nel 2020. Il Club Laïc della Saint-Joseph si assicura 85 seggi sui 111 in cui i suoi candidati si sono presentati (l’exploit numericamente più interessante, contando che alle elezioni del 2017, loro primo banco di prova, i seggi ottenuti erano stati 5).
Come spesso accade, anche lo scenario all’Università Americana di Beirut si rivela interessante: il decennale Secular Club conta 42 seggi, quasi quanto il neonato club “laico” Change Starts Here, che se ne assicura 38, per un totale di 80 seggi su 101 attribuiti a candidati indipendenti (contro i 24 del 2018). Queste due liste non partitiche hanno dunque gareggiato una contro l’altra dichiarando obiettivi simili ma approcci diversi: il Secular Club ha mantenuto un approccio “rigido”, escludendo chiunque fosse ritenuto politicamente affiliato; il Change Starts Here ha invece accolto alcuni candidati già conosciuti per essere stati in passato sostenitori di partiti tradizionali.
Nel 2020 la vittoria “laica” e “indipendente” è dunque schiacciante, forte anche di alcuni boicottaggi da parte delle liste dei partiti tradizionali, che hanno descritto le modalità in cui si sono svolte le elezioni (le tempistiche e il formato telematico, a causa dell’emergenza pandemica) come «non democratiche»[27] e che accusano gli avversari di voler mettere a tacere le loro voci[28].
I risultati del 2021 sono per ora meno netti[29]. Se da un lato, sembrano confermare l’erosione della rappresentatività dei partiti politici tradizionali in seno all’Università Americana di Beirut (18 seggi su 20 ai club indipendenti e laici), dall’altro mostrano che questi ultimi non hanno perso la loro capacità di mobilitare (al voto o al boicottaggio) giovani studenti di altre università: alla LAU i candidati indipendenti hanno vinto 9 seggi su 29, 5 in meno dello scorso anno; l’affluenza è stata bassa, grazie anche al riuscito boicottaggio da parte dei sostenitori di Hizbollah, Mustaqbal e PSP; al campus di Beirut vi è stata perciò una vittoria schiacciante del Movimento Amal (tutti e 6 i candidati in corsa sono stati eletti) mentre a quello di Byblos le Forze Libanesi sono tornate a vincere con la maggioranza significativa di 10 seggi. Risultati che non hanno avuto, per ora, grande eco sui media.
Tra romanticizzazione e proiezione nazionale
L’inedita ed esuberante vittoria dei club universitari “laici” nel 2020 (e, solo in parte, nel 2021) è stata celebrata da buona parte della stampa internazionale come l’evidente inizio di una transizione dal sistema politico confessionale a uno “laico”, in linea con le richieste delle proteste di piazza dell’autunno 2019 e addirittura come un’eredità della cosiddetta Primavera araba. Una transizione che è stata proiettata di conseguenza all’esterno dei campus universitari, fino a spingersi a tracciare possibili parallelismi con le elezioni comunali e parlamentari libanesi programmate per la primavera del 2022[30].
Tuttavia, le differenze tra questi due tipi di elezioni sono considerevoli e gli stessi studenti sembrano esserne consapevoli[31]: le elezioni studentesche si svolgono secondo un sistema proporzionale, mentre i seggi in parlamento sono assegnati attraverso un complicato sistema confessionale che ricalca molto vagamente la composizione demografica dei 15 diversi distretti elettorali libanesi; il voto (in alcuni casi telematico, come all’AUB) del 2020 ha reso particolarmente semplice e “libera” la partecipazione alle elezioni studentesche, con minori pressioni esterne rispetto al passato; queste ultime sono invece ben presenti sia nei campus sia nel momento in cui i cittadini votano a livello comunale o nazionale, dovendosi trovare fisicamente nel luogo di nascita, dove le intricate reti etnico-confessionali hanno maggior peso e influenza sulle preferenze del singolo (senza contare episodi di brogli, manipolazioni, intimidazioni fisiche e morali, sui quali vigilano attentamente le amministrazioni universitarie, a volte diversamente dalle autorità statali libanesi).
Infine, benché non siano mancate nell’ultimo decennio proposte di legge e iniziative volte a cambiare tale legge, l’età legale per votare in Libano è di 21 anni. Ciò significa che più di un terzo del corpo studentesco universitario non può ancora votare a livello nazionale[32].
Qualcosa si muove
Dunque, non è cambiato niente? Oppure, per utilizzare le parole di Makrah Rabah – professore di Storia all’Università Americana di Beirut e autore di una tesi sui movimenti politici studenteschi libanesi – queste vittorie “laiche” e “indipendenti” «non salveranno la nazione»?[33]
È indiscutibile che, all’interno dei campus universitari, qualcosa è cambiato. A questo proposito, è interessante rileggere uno studio pubblicato nel gennaio 2019, pochi mesi prima della thawra[34]. Analizzando le elezioni studentesche all’AUB del 2018, i tre autori – tra cui un professore dell’AUB – affermavano che l’ingerenza dei partiti tradizionali nell’università limita gli effetti liberalizzanti della partecipazione alla vita associativa universitaria, influendo negativamente su atteggiamenti e modelli di impegno civico che sostengono le istituzioni democratiche liberali. In particolare, i processi di socializzazione universitaria riproducono la politica dello status quo e limitano la capacità di questi ambienti di incoraggiare cittadini critici, tolleranti e dalla mentalità liberale. Lo studio concludeva che, paradossalmente, gli studenti che partecipano alla vita associativa del campus hanno maggiori probabilità di sostenere fazioni politiche nazionali ampiamente clientelistiche ed etno-confessionali rispetto a quelli che non lo fanno.
Questo non pare più essere il caso oggi, a soli tre anni di distanza. Un panorama che sembra lontano anche da quello descritto nello studio di Elinor Bray-Collins, pubblicato nel 2016. Gli attori “alternativi” sembrano oggi godere di maggiore autonomia e paiono non correre più il rischio di essere inglobati nelle logiche confessionali nazionali come avveniva invece negli anni successivi alla fine della guerra civile. La loro voce è oggi ritornata sulla scena politica, in un Paese dove le politiche pubbliche, tendenzialmente, non sono immaginate o elaborate in modo da includerli attivamente nelle decisioni che li riguardano[35].
Al contempo, tra i risultati più interessanti, l’Università Libanese, l’unica università pubblica del Paese a fronte di circa quaranta università private, frequentata da circa il 40% degli studenti universitari libanesi[36], è tornata al centro del dibattito politico nazionale, e ha visto finalmente il ritorno di elezioni studentesche dopo più di un decennio[37]. Il graduale successo di gruppi studenteschi indipendenti nei campus universitari nell’ultimo decennio ha già avuto un effetto importante: ha incoraggiato elezioni degli organi studenteschi più partecipate, più competitive, con programmi elettorali più dettagliati, contenuti più convincenti e rilevanti (si pensi alla recente questione della dollarizzazione delle tasse universitarie)[38] e modalità di comunicazione più efficaci da parte di tutti i candidati.
D’altronde, non sono sufficienti alcuni risultati positivi in seno alla rete universitaria, per quanto numericamente rilevanti, per poter parlare di un imminente cambiamento anche a livello nazionale. Soprattutto, è necessario non cadere in un’ideologia giovanilista che vorrebbe la nuova generazione post-guerra civile precorritrice del cambiamento e chiaramente antisistema, in netta rottura con le generazioni precedenti, fautrici dello status quo[39]. Piuttosto, queste vittorie elettorali devono essere lette come il segnale di un generale rinvigorimento del movimento studentesco, in particolare di quello che si definisce “laico”, in linea con un sempre maggiore rafforzamento politico di attori alternativi all’establishment tradizionale che ha dominato la scena libanese degli ultimi trent’anni. Voci “alternative” capaci di capitalizzare il malcontento di una crescente – per quanto ancora minoritaria – fetta della popolazione nei confronti di una classe politica dimostratasi inadatta a gestire il Paese[40].
La relazione tra queste realtà “indipendenti” dentro e fuori i campus universitari non è però un semplice gioco di specchi, quanto un’intricata rete di mutevoli influenze e veri e propri partenariati.
La nascita di Beirut Madinati (“Beirut [è] la mia città”) è un esempio di quanto esposto finora. Questo movimento politico locale nasce nel 2015, in risposta all’evidente fallimento del governo libanese nel provvedere ad alcuni servizi essenziali come la gestione dei rifiuti, oltre che la distribuzione di acqua ed elettricità. È interessante rilevare che tra gli ideatori e fondatori vi sia un numero considerevole di accademici (in particolare dell’AUB), studenti attivisti ed ex universitari. Presentatosi un anno dopo le elezioni comunali di Beirut (2016), Beirut Madinati perde contro la lista comunale presentata dal partito Mustaqbal, ma colleziona il 40% dei voti totali, una percentuale considerevole che dimostra la capacità del movimento di attrarre consensi da un bacino eterogeneo di cittadini frustrati e in cerca di un nuovo patto sociale[41].
Questo coordinamento di voci indipendenti all’interno e all’esterno del campus non si limita alla sfera politica. Un caso di partenariato virtuoso è rappresentato da alcune nuove piattaforme mediatiche “indipendenti” presenti sulla scena libanese negli ultimi anni. Su tutte Megaphone[42], fondata nel 2017 in buona parte da membri dell’AUB Secular Club, i cui membri non si considerano solo «la voce del movimento di protesta libanese»,[43] quanto piuttosto un nuovo modo di fare giornalismo in Libano, più schietto ed esplicito, senza tabù, capace di mettere in discussione e contrastare le narrazioni dell’establishment e demistificare la politica, avvicinandola a un pubblico alienato dall’approccio partigiano dei media tradizionali[44].
Come ha affermato Jean Kassir, ex presidente dell’AUB Secular Club e tra gli ideatori di Megaphone: «L’esperienza del Secular Club deve essere estesa in seguito in altri ambiti al di fuori dell’università. È una specie di esportazione o produzione di attivisti qualificati […]; costruisci un’istituzione; esporti un modello; crei rete»[45]. Una rete che oggi sembra estendersi anche a sindacati e associazioni professionali, come i candidati indipendenti dell’Ordine degli Avvocati di Beirut, in cui la vittoria di Melhem Khalaf – membro di una storica famiglia di avvocati beirutini e attuale presidente dell’Ordine – è stata sbrigativamente salutata come una vittoria della thawra,[46] e i Sindacati degli ingegneri, entrambi in stretto contatto con le realtà studentesche indipendenti.
A chi appartiene il domani?
La peggiore crisi economica e politica che il Libano abbia mai affrontato nella sua storia ha certamente accelerato una serie di processi carsici già affiorati nell’ultimo decennio e ulteriormente esplosi con le proteste dell’ottobre 2019. Tra questi, uno dei più evidenti ed esuberanti è stato quello legato alla “laicizzazione” del panorama politico di alcune delle più importanti università libanesi al grido di «Il domani è nostro» (Bukra elna). Un fenomeno che riunisce certamente un vasto spettro di opinioni e sensibilità politiche diverse e presenta contorni ancora poco chiari sul tipo di laicità a cui rimanda. Lo stesso si può dire per l’etichetta di “indipendenti”, che indica un’identità politica fondata esclusivamente sul rifiuto dei partiti politico-confessionali tradizionali. Lo slogan degli studenti indipendenti del 2021 è stato infatti: “la battaglia per spezzare il sistema [politico settario] continua”; in arabo: ma‘rakat kasr al-nizām mustamirra.
Per sapere a chi appartiene il domani sarà necessario comprendere se e come queste nuove realtà “laiche” manterranno le variegate promesse contenute nei programmi elettorali che hanno convinto così tanti studenti; se sapranno stabilire una collaborazione virtuosa tra i diversi campus, allargando così le istanze di poche università private ed elitarie di Beirut a tutto l’ambiente universitario periferico e possibilmente a quello di tutta l’educazione superiore e in particolare a quella pubblica; se riusciranno a creare strutture che permetteranno loro di mantenere una totale autonomia, senza rischiare di essere cooptati o manipolati da partiti o ideologie tanto nazionali quanto regionali; nonché di assicurare una continuità sul lungo termine, in contrasto con la volatilità e transitorietà dell’esperienza universitaria o con la sempre più crescente diaspora giovanile, che caratterizza in particolare la classe più istruita; infine, se riusciranno a mantenere questa rete di partenariato tra realtà esterne all’ambiente universitario, che sembrano lentamente sfidare la longa manus dell’establishment politico tradizionale.
Si tratta di sfide particolarmente impegnative e verificabili solo sul lungo termine, che non possono essere affrontate né con entusiasmi fugaci né assecondando le “mode”[47]. Tuttavia, come afferma l’analista politico e giornalista libanese Hazem Saghieh: ignorare queste domande significa rendere ancora più difficile il processo di cambiamento che sembra essersi affermato in maniera evidente in alcuni campus universitari privati e che non pare avere intenzione di fermarsi lì[48].
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