Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:33:32
È meglio dirlo subito: le elezioni in Libano non hanno portato a una «sconfitta di Hezbollah», come si è letto qua e là, anche perché la forza della milizia sciita risiede più nelle strade e nelle armi di cui dispone che nei deputati eletti. Ciò, tuttavia, non significa che la tornata elettorale sia stata poco significativa. Le Monde ha infatti parlato di una «piccola scossa» per i partiti tradizionali, mentre per Al-Jazeera si è aperto un «nuovo capitolo della vorticosa storia politica» libanese. Nuovo, ha scritto il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, non perché si sia verificato un ribaltamento dell’equilibrio di forze nel Paese, ma perché questa consultazione «consacra molte dinamiche [iniziate] dopo le rivolte dell’ottobre 2019, che sono tutte semplicemente inedite nella storia libanese».
Tredici candidati indipendenti, la cui esperienza in politica è in gran parte legata movimento di contestazione libanese del 2019, hanno ottenuto un seggio nell’Assemblea Nazionale, mentre sono otto (un record) le donne elette. Par avere un paragone: tra i 128 deputati uscenti soltanto uno faceva parte delle liste indipendenti. La crescita di quest’area politica (se di area si può davvero parlare, vista l’eterogeneità che la contraddistingue) è un dato importante, perché, come ha ricordato il politologo Marc Lynch, è avvenuta all’interno di un sistema creato esattamente per impedire questa possibilità. Inoltre, considerando l’affluenza in calo dal 49% del 2018 al 41%, segnale della disillusione di molti libanesi, l’affermazione dei candidati del movimento di contestazione appare ancor più importante. Con un effetto non secondario: questo potrebbe favorire una futura crescita dell’affluenza, ha scritto Zvi Bar’el su Haaretz.
Il secondo dato da sottolineare in queste elezioni è l’affermazione del partito cristiano delle Forze Libanesi, che ha superato l’altro partito cristiano, quello del presidente Michel Aoun, alleato di Hezbollah. È qui che risiederebbe la sconfitta del partito di Dio, perché nonostante il clientelismo, le irregolarità e un sistema elettorale che favorisce i partiti tradizionali, il Movimento Patriottico Libero di Aoun ha perso tre seggi, ciò che impedisce alla coalizione con i partiti sciiti di formare una maggioranza in Parlamento. Non parliamo però di sconfitta per il duo Hezbollah-Amal, perché le forze sciite sono comunque riuscite ad ottenere tutti i ventisette seggi riservati alla comunità di riferimento, andando a formare il blocco il più grande all’interno dell’Assemblea Nazionale. Ciononostante, appare ora non scontata la rielezione di Nabih Berri (leader di Amal) nel ruolo di speaker del Parlamento.
L’affermazione delle Forze Libanesi ha subito provocato la reazione di Hezbollah, che attraverso il capo del suo gruppo parlamentare Mohammad Raad ha messo in guardia il partito di Samir Geagea, il quale mantiene stretti legami con l’Arabia Saudita: «fate attenzione ai vostri discorsi, al vostro comportamento e al futuro del Paese. Noi vi accettiamo in quanto avversari in Parlamento, ma non in quanto scudo a difesa degli israeliani»
È certamente significativo che nel sud del Paese, feudo del tandem Amal-Hezbollah, due candidati della lista d’opposizione “Insieme verso il cambiamento” siano riusciti a strappare due seggi e che alcuni pezzi da novanta dell’oligarchia politico finanziaria come il leader druso filosiriano Talal Arslan, il vice presidente del Parlamento uscente Elie Ferzli e il banchiere Marwan Kheireddine, abbiano perso i loro seggi.
Qual è il problema? Se da un lato è probabile che i tredici eletti tra le fila degli indipendenti – se riusciranno a unirsi in un unico blocco superando le divergenze che li caratterizzano – spingeranno per l’implementazione delle riforme volute dal Fondo monetario internazionale (anche perché i loro redditi personali non traggono beneficio dalla stagnante e corrotta economia del Paese, a differenza degli altri politici), dall’altro il nuovo parlamento appare ancora più frammentato, e ciascun gruppo lotterà per mantenere la propria posizione. Diversi osservatori affermano che sarà più complicato formare un governo e trovare un sostituto di Najib Mikati nel ruolo di primo ministro. A ottobre poi occorrerà eleggere il nuovo presidente della Repubblica e considerando che sono necessari i due terzi dei deputati per farlo, Hezbollah dovrà abbandonare il suo piano originale, ovvero eleggere in questa posizione uno dei suoi più stretti alleati.
Intanto il leader del partito-milizia sciita Hassan Nasrallah, ha già sottolineato la necessità di formare un governo di unità nazionale, mentre i rivali delle Forze Libanesi, sostenuti da Arabia Saudita e Stati Uniti, insistono sulla necessità di formare un governo nel quale l’influenza del partito filo-iraniano sia ridotta al minimo. Il rischio, ha affermato Nadim Houry (Arab Reform Initiative) ad Al-Jazeera, è che le parti non scendano a un compromesso, provocando lo «stallo completo» del sistema politico.
Cosa vuole Erdoğan in cambio del sì a Svezia e Finlandia?
Svezia e Finlandia hanno ufficialmente presentato la richiesta di adesione alla NATO, ma il processo si annuncia irto di ostacoli. Tra mille contraddizioni e una persistente ambiguità di fondo, la guerra in Ucraina ha dimostrato una volta ancora quanto sia importante la Turchia per un’alleanza che ha, come scopo primario, difendersi dalla Russia. Ankara ne è consapevole ed esprimendo la sua contrarietà all’ingresso dei Paesi scandinavi nella NATO segnala l’intenzione di voler capitalizzare la sua ritrovata rilevanza. Ufficialmente, l’opposizione all’ingresso della Svezia è dovuta ai legami che il Paese intrattiene con le milizie curde YPG, che Ankara ritiene un gruppo terroristico vicino al PKK. Nel complesso in Svezia c’è una consistente diaspora curda e la popolazione svedese è generalmente simpatetica con la loro causa. Ciò ha portato il presidente Erdoğan a dire che la Svezia è «un centro del terrorismo, un nido del terrorismo». Ha rincarato la dose il ministro degli Esteri Çavuşoğlu: «è inaccettabile che paesi che vogliono candidarsi [per entrare nella NATO] sostengano gruppi terroristici che ci attaccano. Non si tratta solo di sostegno politico. Per esempio, la Svezia fornisce armi apparentemente per combattere ISIS. Loro [i curdi, ndr] ci attaccano con queste armi. I nostri ufficiali, soldati e civili sono martirizzati con queste armi».
Per ora la posizione turca ha irritato l’Amministrazione americana e buona parte del Congresso, tanto che sulla stampa americana si sono lette posizioni molto dure nei confronti di Ankara. Il Wall Street Journal ad esempio ha detto chiaramente che sotto il governo Erdoğan la Turchia «non soddisfa gli standard della NATO». Ma in fondo il punto è che Erdoğan sta negoziando da una posizione che, per certi versi, è di forza, e per altri è di estrema debolezza (crisi economica, elezioni che si avvicinano, dissenso interno…). Michael Rubin su 1945 ha spiegato che se sarà costretto ad accettare Svezia e Finlandia nella NATO, allora il presidente turco «si aspetta delle ricompense». Queste potrebbero assumere la forma dell’approvazione da parte del Congresso della vendita di nuovi caccia F-16, o della fine del sostegno scandinavo alla causa curda (aspetto che gli potrebbe giovare anche in termini elettorali, rinvigorendo il nazionalismo turco). Ma mentre il presidente turco negozia con gli Stati Uniti e gli alleati NATO, è probabile che stia anche inviando i suoi intermediari a Mosca, per capire cosa sarebbe disposto a offrirgli Putin per bloccare l’accesso di Stoccolma e Helsinki nell’Alleanza. Intanto proprio nella giornata di venerdì la Turchia ha ottenuto una prima vittoria: Londra ha rimosso ogni restrizione all’export di materiale militare verso Ankara.
(Anche) Biden ha bisogno del petrolio del Golfo
Se da un lato la guerra in Ucraina ha sottolineato l’importanza strategica della Turchia, dall’altro ha evidenziato le fratture in seno all’alleanza tra gli Stati Uniti e i Paesi del Golfo, in particolare Arabia Saudita ed Emirati. Come avevamo messo in luce anche noi in precedenti puntate del Focus attualità, da tempo i funzionari americani e sauditi lavorano per ricucire i rapporti tra Riyad e Washington. Nuove indiscrezioni riportate dalla CNN parlano di un possibile incontro in giugno tra Mohammed bin Salman e Joe Biden, che dovrebbe avvenire a Riyad durante la presidenza saudita del Gulf Cooperation Council, beneficiando del fatto che il presidente americano si troverà oltreoceano per viaggi già programmati. Per Biden quella di incontrare MBS non è una scelta facile, ma secondo l’emittente americana il presidente – che si avvicina alle elezioni di mid-term con un tasso di approvazione al 39% (sondaggio Associated Press pubblicato oggi) – teme i consistenti rincari alla pompa di benzina, che iniziano a colpire anche i cittadini americani.
Parlando di petrolio, l’Arabia Saudita non è l’unico Paese a cui rivolgersi. L’altra “grande delusione” degli Stati Uniti sono gli Emirati Arabi. Anche in questo caso, la diplomazia è all’opera. Una delegazione di alto livello americana, capeggiata dalla vicepresidente Kamala Harris e dal Segretario di Stato Antony Blinken si è infatti recata ad Abu Dhabi per onorare la memoria di Khalifa bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti deceduto la settimana scorsa (per l’Italia ha partecipato il presidente Mattarella). Come ha scritto Al-Jazeera, è la stessa composizione della delegazione americana a mostrare quanto sia importante per Washington ristabilire buone relazioni con i Paesi produttori di petrolio. Non a caso Kamala Harris ha sottolineato la «forza» della partnership con Abu Dhabi che, si è augurata, proseguirà ora con Mohammed bin Zayed.
Piccola nota sulla successione: MbZ è ora ufficialmente alla guida dell’Emirato di Abu Dhabi perché la linea di successione prevede che il potere passi a tutti i figli dell’emiro, dal più vecchio al più giovane, e che solo alla fine di questa linea si passi alla generazione successiva. Va riempita adesso la casella di principe ereditario, che secondo queste regole dovrebbe andare a Sheikh Tahnoon, potente fratello di MbZ e consigliere per la sicurezza nazionale. Tuttavia non mancano le speculazioni riguardo alla possibilità che MbZ opti per la nomina di suo figlio, Sheikh Khaled, rompendo con la tradizione. Un’eventualità che Abdulkaleq Abdulla, influente politologo di Dubai, ha bollato come del tutto irrealistica.
Bashaga tenta il colpo su Tripoli
Quando Fathi Bashaga ha cercato di entrare a Tripoli per sfilare il potere dalle mani di Hamid Dbeibah, in Libia sono ricominciati gli scontri tra milizie. Secondo quanto riportato dal Financial Times, a poche ore dall’arrivo, Bashaga è stato costretto dalle milizie nemiche a riparare a Sirte. Yousef Bakhbakhi, accademico di Tripoli, ha detto ad al-Jazeera che l’azzardo di Bashaga è motivato dai timori che i colloqui in corso al Cairo possano portare alla sua estromissione dal potere, ciò che l’ha portato a giocarsi il tutto per tutto e tentare l’ingresso a Tripoli senza un accordo con Dbeibah.
La previsione di Wolfram Lacher è che l’incapacità di Bashaga di insediarsi nella capitale libica, ormai acclarata da questo fallimento, crei un’opportunità per l’avvio di un nuovo processo politico che, in ogni caso, richiederà tempo.
Proteste in Iran per i prezzi alimentari
Dopo la decisione del governo di rimuovere i sussidi sul grano, in Iran alcuni prezzi alimentari sono aumentati anche del 300%. Questo ha innescato delle proteste in diverse aree del Paese, inclusa la regione petrolifera del Khuzestan, dove una persona sarebbe stata uccisa negli scontri con le forze di sicurezza, che hanno bloccato l’accesso a internet per alcune ore. Secondo Borzou Daragahi le proteste per ora sono di entità ridotta, ma si sono già trasformate in manifestazioni politiche scandite dal grido «morte a Raisi». Per contenere il dissenso e aiutare le persone più in difficoltà il presidente iraniano ha annunciato un piano che prevede aiuti economici che, secondo Bloomberg, potrebbero ammontare fino 14 dollari al mese per le famiglie più povere.
Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
Gli Emirati piangono Khalifa, il Qatar Shirin
Quella che sta per concludersi è stata una settimana particolarmente ricca di notizie per il mondo arabo. Com’era prevedibile, la morte di Khalifa bin Zayed, secondo presidente degli Emirati, ha monopolizzato totalmente l’attenzione dei media del Paese, che con l’occasione hanno potuto continuare a esimersi dal commentare l’omicidio di Shirin Abu Akle, la giornalista di al-Jazeera uccisa l’11 maggio scorso da un proiettile israeliano. Una vicenda particolarmente problematica per gli Emirati, che meno di due anni fa hanno firmato gli Accordi di Abramo e normalizzato i loro rapporti diplomatici con Israele. La morte del loro presidente li ha salvati dal dover prendere una posizione su quella brutta storia e tutti i media nazionali si sono dedicati a celebrare la vecchia e la nuova guardia della leadership del Paese.
In primis al-Ittihād, quotidiano di proprietà del governo. Tra le decine di articoli ne segnaliamo un paio di ‘Ali Abu al-Rish, da 28 anni editorialista della testata, oltre che noto romanziere e poeta, che ha tessuto le lodi in rima del presidente defunto e del figlio, suo successore, definendo quest’ultimo «un leader geniale», «un cavaliere coraggioso», «bussola della nave della vita» e «uomo perspicace che tiene le redini e continuano il percorso vittorioso».
Al-Khalīj ha ricordato Khalifa bin Zayed attraverso le parole di Ali Nasser Mohammed, che negli anni ’80 fu segretario generale del Partito socialista yemenita e due volte presidente dello Yemen del Sud. Questi ha raccontato di aver conosciuto shaykh Khalifa bin Zayed nel giugno 1970 a Tripoli, in Libia, durante le celebrazioni per il ritiro delle forze britanniche, americane e italiane dal Paese. A quel tempo Khalifa era il principe ereditario di Zayed bin Sultan Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi, di cui l’uomo politico yemenita ha elogiato la generosità. Nel corso dei festeggiamenti libici, infatti, l’allora presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, parlando della Guerra dei Sei Giorni (1967), raccontò ad Ali Nasser Mohammed di come shaykh Zayed donò all’Egitto 5 milioni di dollari per sostenere il Paese che usciva sconfitto dalla guerra. In questo caso, la morte di Khalifa diventa un’occasione per celebrare le doti del padre di quest’ultimo, fondatore degli Emirati Arabi Uniti.
Al-Ayn al-Ekhbāriyya, in uno dei tanti articoli sul tema, ha definito Khalifa bin Zayyed niente meno che «pioniere del parlamentarismo emiratino» in virtù delle modifiche apportate durante la sua presidenza al Consiglio nazionale federale, un organo che rappresenta la popolazione della Federazione, composto da 40 membri dotati di potere consultivo. Dal 2006, la metà dei membri del Consiglio viene eletta dalla popolazione (prima erano tutti nominati dai leader dei sette emirati), mentre dal 2009 possono partecipare anche le donne, in veste sia di elettrici che di candidate.
In Kuwait il quotidiano al-Anbā’ ha pubblicato domenica scorsa un dossier commemorativo di Khalifa bin Zayyed seguito, il giorno successivo, da un dossier celebrativo di MBZ.
Lo stesso quotidiano ha celebrato la leadership di MBZ e dei suoi due predecessori, riconoscendo in particolare a shaykh Zayed Al Nahyan, fondatore degli Emirati, il merito di «essersi schierato a favore dei diritti del popolo del Kuwait durante l’occupazione irachena del Paese» nel 1990 e di aver «preso parte alla guerra per la liberazione del Paese». Al-Anbā’ conclude citando una massima benaugurante di Jaber al-Ahmad al-Sabah, emiro del Kuwait dal 1977 al 2006: «le nazioni sono costruite dalle mani dei loro giovani figli, perché la giovinezza è forza ed energia».
La stampa saudita ha dato la notizia senza eccedere in ossequi. Il quotidiano Okāz, per esempio, ha ripercorso «il viaggio di un abile leader», che ha saputo guidare il Paese nel percorso di sviluppo, per esempio migliorando l’assistenza sanitaria, garantendo una maggiore stabilità e sicurezza, rafforzando la posizione della donna.
La “stella di Gerusalemme”
I media filo-palestinesi legati al Qatar hanno invece pressoché ignorato la morte di Khalifa bin Zayed e continuato a parlare incessantemente dell’omicidio di Shirin Abu Akle. Come scrisse un anno fa sui suoi profili social, in modo quasi profetico, la giornalista uccisa, «nell’assenza c’è una maggiore presenza». Al-Jazeera ha titolato “Shirin Abu Akle… icona dei media liberi” e ricordato come la sua cerimonia funebre sia stata unica nella storia della Palestina: «il suo corpo è transitato nelle città palestinesi della Cisgiordania e il presidente palestinese le ha assegnato la “Stella di Gerusalemme”, la più alta onorificenza palestinese». «È paradossale – conclude l’autore dell’articolo – che in questo mondo vi sia ancora chi crede che Israele sia una democrazia e rispetti la libertà dei media e di espressione, mentre il suo esercito mette a tacere per sempre la voce di Shirin e di altri come lei, credendo, così facendo, di riuscire a evitare che la verità raggiunga il mondo».
Al-Quds al-Arabī ha titolato provocatoriamente “Giustizia per Shirin o più terrorismo dell’‘unica democrazia in Medio Oriente’”, denunciando l’impunità di cui godono i soldati israeliani e la capacità di Israele di autoassolversi sempre. L’autore dell’articolo è il giornalista algerino Tawfiq Rabihi. La sua posizione non sorprende più di tanto, essendo l’Algeria tra i Paesi più ostili a Israele e più critici verso i firmatari degli accordi di normalizzazione. Il mondo è chiamato a intervenire – scrive Rabihi – «privando il soldato israeliano di quell’eterna immunità di cui gode ed equiparandolo al soldato russo, sudanese e di altre nazionalità; […] smettendo di credere al detto ‘la legge è al di sopra di tutti e Israele è al di sopra della legge’ e alla menzogna per cui Israele è ‘l’unica democrazia in Medio Oriente’; […] trovando il coraggio di rivolgersi all’Aia». Fare giustizia per Shirin è l’unico modo per evitare che un’altra Shirin venga giustiziata «dai delinquenti dell’‘unica democrazia del Medio Oriente’».
Il sito filo-islamista ‘Arabī21 ha parlato della vicenda attraverso una vignetta raffigurante il braccio esanime della giornalista percorso da un rivolo di sangue e il microfono che cade dalla mano aperta. Il vignettista di al-‘Arabī al-Jadīd ha invece ricordato la vicenda disegnando una bara da cui spuntano un uomo e una donna stilizzati coperti da una bandiera palestinese e agli angoli della quale si ergono un minareto e un campanile, mentre alla sua testa campeggia la scritta “Viva la Palestina”.
L’omicidio di Shirin ha aperto nuovamente il dibattito sulla normalizzazione di alcuni Paesi arabi con Israele. Ne ha parlato il giornalista marocchino ‘Ali Anuzla ancora su al-Arabī al-Jadīd in un articolo accompagnato da una fotografia che ritrae il volto di Shirin e la bandiera palestinese proiettate su due grattacieli (non a caso!) di Doha. Shirin, scrive Anuzla, ha rischiato di finire come i tanti giornalisti uccisi dall’esercito israeliano di cui nel tempo si perde memoria, ma nel suo caso, a fare la differenza, sono le scene del funerale, durante il quale i soldati israeliani hanno attaccato le persone che portavano la sua bara: «Quel momento sconvolgente è stato più forte di qualsiasi arma dell’esercito più potente del mondo». Anuzla conclude denunciando la normalizzazione, che incoraggia Israele a persistere nei suoi crimini. Ma l’aspetto più interessante è ciò che intende il giornalista con questa espressione: «Non si tratta soltanto dell’azione politica volontaria di alcuni regimi arabi che hanno imposto la propria volontà al loro popolo, ma anche e soprattutto della […] normalizzazione promossa dai media arabi, che impongono ai loro spettatori la narrazione del criminale».
Infine, segnaliamo un articolo comparso su al-Quds al-‘Arabī a firma di un giornalista iracheno. L’Iraq è infatti un altro Paese fortemente ostile a Israele e che – notizia della settimana scorsa – ha proposto un disegno di legge per «vietare la normalizzazione e l’istituzione di relazioni con l’entità sionista». Consapevole del disimpegno americano in Medio Oriente, dei cambiamenti che si stanno profilando nei rapporti di forza tra i Paesi della regione e del rischio che il tasso della popolazione palestinese possa crescere più di quello della popolazione israeliana, Israele ha adottato delle contromisure, che l’autore dell’articolo (Mazhar Jabir al-Saadi) riassume in alcuni punti. Quella più sostanziale è evidentemente la normalizzazione, definita «una pugnalata al cuore della questione palestinese, […] e una pugnalata nel corpo del mondo arabo». Seguono il tentativo di creare un’opinione pubblica araba che sostenga le tesi israeliane sul tema della questione palestinese, ma non solo; il rafforzamento della cooperazione tra Israele e Russia con grande disappunto degli USA; il tentativo di porsi come mediatore nei processi di risoluzione dei conflitti intra-arabi. La previsione dell’autore è che i popoli arabi e in primis quello palestinese «ribalteranno i tavoli neri nelle stanze buie sulle teste dei politici malvagi e diabolici».
Chi ha vinto in Libano?
Dopo le elezioni legislative di domenica scorsa, in Libano è tempo di bilanci. I giornalisti si dividono tra chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi invece lo vede mezzo vuoto. Per Joumana Farhat, giornalista libanese di al-‘Arabī al-Jadīd, è presto per cantar vittoria perché la strada è ancora lunga e articolata, ma alcuni segnali positivi ci sono. Il fatto, per esempio, che per la prima volta abbiano vinto alcuni candidati estranei alle logiche dei partiti politici tradizionali o che Hezbollah e i suoi alleati abbiano perso la maggioranza in parlamento. Farhat ripone molte speranze nei «parlamentari del cambiamento», che nei prossimi quattro anni avranno l’importante compito di convincere chi in questa tornata elettorale si è astenuto o ha lasciato la scheda bianca a recarsi alle urne.
Tra le posizioni più ottimiste spicca quella di Marwan Iskander, giornalista di al-Nahār, secondo il quale il risultato elettorale sarebbe comunque soddisfacente visto che ha segnato «una riduzione considerevole dei sostenitori del governo siriano». Iskander conclude che «è giunto il momento di cambiare le cose, e il cambiamento deve essere attuato in direzione di riforme radicali, amministrative, politiche ed economiche» anche se, riconosce, «il governo attuale è ben lontano dal raggiungimento di questi obiettivi».
Sullo stesso quotidiano, anche Iskander Khachachu mette in risalto la debacle dei sostenitori della Siria, tra cui il druso Talal Arslan e As’ad Hasrdan, storico presidente del Partito Nazionale Sociale Siriano, formazione sostenitrice del progetto nazionalista della “Grande Siria”.
Sul versante filo-sciita segnaliamo l’articolo di Rima Farah comparso su Al-Mayadīn. I toni e le espressioni utilizzati sono molto partigiani e indicano chiaramente il blocco politico a cui la giornalista aderisce. Farah scrive che nonostante gli attacchi violenti sferrati sui media contro la «resistenza», cioè Hezbollah, e la compravendita di voti per mettere al tappeto il partito di Dio, quest’ultimo ha vinto ottenendo la maggioranza nei distretti meridionali e nella Beqaa settentrionale. «La resistenza è riuscita a conservare i suoi seggi e quelli del movimento sciita Amal senza subire alcuna penetrazione, nonostante la lotta disperata ingaggiata dai suoi oppositori, [che speravano] si registrasse quanto meno una falla». Secondo Farah non è andata poi così male neppure al Movimento patriottico libero, il partito fondato da Michel Aoun, «che ha conservato la maggioranza nel blocco cristiano e la maggioranza parlamentare [sic!, il primo partito cristiano in Parlamento sono le Forze libanesi di Samir Geagea]». Quanto alla società civile, scrive, è vero che ha conquistato diversi seggi, ma non è chiaro se questi parlamentari si organizzeranno in un unico blocco o si disperderanno, tanto più che alcuni di loro non sono disposti a schierarsi «con i nemici della resistenza».
La piattaforma indipendente Megaphone ha pubblicato una bella infografica delle formazioni parlamentari post-elettorali ed espresso il timore che l’assenza di una maggioranza in parlamento possa innescare una nuova crisi di governo. L’alleanza dell’8 marzo infatti ha conquistato non più di sessanta seggi e si trova ad affrontare diverse opposizioni, che potrebbero non essere in grado di formare una maggioranza alternativa e, anzi, opporsi a qualsiasi governo monocolore.
Decisamente più pessimista è la visione espressa su al-Quds al-‘Arabī dal politologo libanese Gilbert Achcar, secondo il quale le aspettative dei libanesi che confidavano in queste elezioni per ottenere un cambiamento sono state deluse. Poveri illusi coloro che – come i manifestanti del 17 ottobre 2019 – pensavano di poter «cambiare il regime attraverso [le elezioni], ricorrendo cioè a uno degli strumenti più importanti usato da quello stesso regime» al quale essi si opponevano. Il sistema elettorale libanese – spiega il politologo – è fatto in modo tale da riprodurre sempre la struttura confessionale. L’unico modo per cambiarlo è eleggere un’assemblea costituente sulla base della rappresentanza proporzionale delle liste politiche anziché su base confessionale, e incaricare successivamente tale consiglio di redigere una nuova costituzione. Quanto al risultato elettorale, scrive, «le forze del ‘14 marzo’ (in particolare le Forze libanesi) sono in risalita, a spese delle forze dell’‘8 marzo’. Ciò significa che cresce l’influenza della coalizione sostenuta dall’Arabia Saudita a danno della coalizione sostenuta dall’Iran e dal regime siriano». Quanto invece agli indipendenti che si sono aggiudicati dei seggi, secondo Achcar il regime si affretterà a cooptarli «per renderli partecipi del suo gioco e della sua corruzione». E comunque, conclude, «il fondamento dell’autorità in Libano non è il parlamento ma la forza delle armi» e in questo momento il più forte in questo senso è Hezbollah.
In breve
Per la prima volta dal 2016 ha riaperto l’aeroporto di Sana’a in Yemen (Washington Post).
In Iraq la desertificazione crescente provoca tempeste di sabbia sempre più frequenti (Le Monde)
Gli Stati Uniti hanno stabilito il ritorno di centinaia di soldati in Somalia (The New York Times).
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