Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:13:41
A poco più di due mesi dalla conquista di Kabul i Talebani cominciano a muoversi sullo scacchiere internazionale. Mercoledì una delegazione dell’Emirato islamico è stata in Russia, dove ha incontrato i rappresentanti di altri nove Paesi della regione: Cina, Pakistan, India, Iran, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Come riportato da al-Jazeera, questi Paesi si sono uniti ai Talebani nel chiedere all’Onu la convocazione di una conferenza internazionale per organizzare la ricostruzione dell’Afghanistan. Con un’avvertenza: i costi della ricostruzione, affermano i Paesi riuniti a Mosca, «devono essere sostenuti dalle forze i cui contingenti militari sono stati presenti in questo Paese [l’Afghanistan] nel corso degli ultimi 20 anni». Un riferimento diretto agli Stati Uniti, che hanno scelto di non partecipare alla conferenza. Questa ha perciò assunto carattere prettamente regionale. La Russia, scrive sempre al-Jazeera, guida l’appello agli aiuti internazionali, «consapevole che qualsiasi traboccamento del conflitto dall’Afghanistan può minacciare la stabilità regionale». Ma come hanno scritto Isabelle Khurshudyan e Susannah George sul Washington Post, il calcolo per Mosca è complicato: trovare il modo di «riaffermare la sua influenza regionale dopo l’uscita di scena degli Stati Uniti mantenendo contemporaneamente una certa distanza dai problemi interni afghani». O, detto con le parole di Andrei Serenko, capo del Centro di studi contemporanei afghani di Mosca, «l’Afghanistan in sé non interessa la Russia. La Russia vuole usare l’Afghanistan senza coinvolgervisi». Se da un lato il presidente Vladimir Putin ha affermato di non avere fretta di riconoscere il governo talebano, dall’altro la conferenza organizzata dal Cremlino offre ai Talebani un modo per aprire nuovi canali internazionali.
Oltre al riconoscimento internazionale, i Talebani sembrano avere almeno due grossi problemi: l’economia e la sicurezza. Cominciamo dall’economia. Sulla questione si è soffermata l’Associated Press, diffondendo la notizia – confermata da diverse fonti, incluse fonti dirette talebane – secondo cui i Talebani si sarebbero rivolti ai tecnocrati impiegati dal precedente governo presso il Ministero dell’Economia e la Banca Centrale per cercare di risolvere i problemi finanziari del Paese: «fate quello che dovete, Allah vi guarda e risponderete di quanto farete nel giorno del giudizio» avrebbero detto loro i Talebani. Il problema, sottolinea l’Associated Press, è che questi funzionari fanno i conti con un problema che difficilmente potranno risolvere: il sistema afghano nato dall’occupazione americana è una sofisticata e costosissima struttura (diversi miliardi di dollari) alimentata da donatori e commercio internazionali. Ma ora «con miliardi di fondi internazionali congelati, il gettito massimo che [i Talebani] possono raccogliere è tra i 500 e i 700 milioni di dollari, non abbastanza per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e fornire beni e servizi essenziali».
Veniamo alla sicurezza. Gli attentati degli ultimi venerdì, compiuti dalla branca locale di ISIS in due moschee sciite di Kunduz e Kandahar, hanno dimostrato quanto i Talebani fatichino a contenere la minaccia jihadista dello Stato Islamico. Ma più in generale i Talebani non riescono ancora – come ha spiegato Sudarsan Raghavan in un reportage da Kabul – a organizzare il sistema giudiziario e a far rispettare la legge. Ciò è dovuto in parte all’indisciplina di molti miliziani talebani, altrettanto inclini al crimine di coloro che dovrebbero perseguire. Anche il controllo delle diverse province non è semplice e così accade che in una zona come Herat siano già state ripristinate le pene brutali che avevano caratterizzato la prima esperienza di governo dei Talebani.
Erdogan alla conquista dell’Africa
Da diverso tempo si parla – l’abbiamo fatto anche noi in diverse puntate del Focus attualità – dei colloqui in corso per il riavvicinamento tra Turchia ed Egitto. E probabilmente avrete anche sentito di come gli alleati della Turchia in Libia e Azerbaijan abbiano utilizzato i droni militari prodotti da Ankara per avere la meglio sui rispettivi nemici. I due sviluppi, apparentemente slegati, sono in realtà strettamente interconnessi. I droni turchi sono stati infatti così efficaci che Ankara ha pensato bene di venderli anche all’Etiopia, impegnata in una sanguinosa guerra nella provincia settentrionale del Tigrè contro i ribelli del TPLF. Come ha spiegato Fehim Tastekin su al-Monitor questo rischia però di compromettere il riavvicinamento tra Il Cairo e Ankara, perché l’Egitto oggi considera proprio l’Etiopia di Abiy Ahmed la principale (ed esistenziale) minaccia. Contestualmente, nota ancora Tastekin, forse per facilitare l’accordo con la Turchia Addis Abeba avrebbe iniziato a dare ascolto alle richieste turche di trasferire la gestione delle scuole del movimento di Fethullah Gulen presenti in Etiopia a una Fondazione affiliata al governo turco.
Dal punto di vista di Ankara invece l’accordo con l’Etiopia è funzionale all’aumento della sua influenza in Africa. A dimostrazione di quanto Erdogan punti su questa “politica africana” giunge proprio in questi giorni l’approvazione da parte del Parlamento turco di una mozione presidenziale che lascia a Erdogan totale discrezionalità su tempi e modi dell’invio di truppe in Mali e Repubblica Centrafricana nell’ambito delle missioni di peace-keeping dell’ONU.
Erdogan ha inoltre svolto in questi giorni un tour in Nigeria, Togo e Angola. Da quest’ultimo Paese, come ha fatto notare su Twitter il ricercatore Abdullah Bozkurt, il presidente turco ha pronunciato un discorso fortemente anti-occidentale, invitando i Paesi africani a unire le forze e ribellarsi all’Occidente, e accusando Francia, Portogallo e Stati Uniti di utilizzare le stesse pratiche del periodo coloniale. Ma secondo William Rasoanaivo (Jeune Afrique) Erdogan in fin dei conti sta solo cercando di prendere il posto che proprio la Francia ha abbandonato decidendo di terminare l’operazione Barkhane in Mali.
Nel frattempo, la lira turca è nuovamente sprofondata in seguito alla decisione della Banca Centrale di abbassare ulteriormente i tassi di interesse.
Libano: “se volete la pace scordatevi la giustizia”. È davvero così?
Mentre il Libano è ancora scosso dalle violenze della settimana scorsa, il Parlamento libanese ha votato per fissare al prossimo 27 marzo la data delle elezioni parlamentari, leggermente in anticipo sulla data prevista per evitare di sovrapporsi al mese di Ramadan. Contestualmente, i parlamentari libanesi hanno espresso la loro contrarietà all’aumento dei seggi destinati alla diaspora libanese nel mondo e all’introduzione di quote rosa. La decisione del Parlamento sulle elezioni ha stimolato la riflessione di Christiana Parreira, ricercatrice a Princeton, che in un thread su Twitter si è interrogata sulla natura del sistema politico libanese: il Paese dei Cedri è una democrazia? O un’autocrazia? O un sistema misto? Dal punto di vista dell’organizzazione delle istituzioni dello Stato (la polity) il Libano può essere definito una democrazia, ma dal punto di vista sostanziale Parreira classifica il Libano come uno Stato “predatorio”, ovvero un Paese nel quale le élite saccheggiano i beni dello Stato e sottofinanziano la spesa pubblica. Gli Stati predatori si sviluppano generalmente in contesti dittatoriali, nei quali la popolazione non può – con il voto – estromettere le élite dal governo. Come è potuto emergere uno Stato predatorio in un contesto formalmente democratico? La risposta di Parreira è che questo è avvenuto a causa delle particolari condizioni di condivisione del potere su base settaria verificatesi in Libano alla fine della guerra civile.
Anche secondo un articolo del Washington Post a firma di Mohammad Bazzi (NYU) il modo in cui è finita la guerra civile nel 1990 è decisivo per comprendere ciò che sta accadendo in Libano: l’impunità di cui beneficiano i politici e in generale le élite del Paese trae infatti origine secondo Bazzi dall’amnistia che ha permesso la conclusione della guerra civile. Amnistia a cui si affianca l’amnesia: quella relativa ai misfatti delle diverse forze politiche libanesi. È per questo che il giudice Tarek Bitar, che nelle sue indagini sull’esplosione al porto sta mettendo in discussione l’impunità dei poteri libanesi, è percepito dalle forze politiche come una «minaccia senza precedenti». Perciò, conclude Bazzi, ai libanesi si impone una scelta: rinunciare alla giustizia per quanto avvenuto al porto in cambio della stabilità o precipitare di nuovo in uno scontro frontale tra le forze settarie del Paese. Su Foreign Policy, Naji Bakhti, program manager della Samir Kassir Foundation, è sulla stessa lunghezza d’onda: il messaggio chiarissimo dietro le violenze della settimana scorsa è: «non può esserci pace, per quanto fragile, a meno che non si abbandoni la ricerca della giustizia, e con essa ogni speranza di responsabilità». Ecco perché il giudice Tarek Bitar, finito nel mirino di Hezbollah e Amal, è diventato «l’uomo da abbattere».
Si tratta tuttavia di una falsa alternativa: già alla fine della guerra civile la stabilità era stata preferita all’accountability, ma i fatti di questi giorni dimostrano che far finta che i problemi non esistano (o non siano esistiti) non impedisce che questi si ripresentino in tutta la loro virulenza.
Se Sarah Dadouch e Liz Sly scrivono sul Washington Post di non aspettarsi una guerra civile vera e propria come quella che scoppiò nel 1975, anche a causa della superiorità militare acclarata di Hezbollah, la triste realtà è che questi nuovi conflitti rischiano di posticipare senza fine la soluzione delle tante crisi che affliggono il Libano.
La classe politica non è però l’unico problema del Libano. Lo mostra un reportage della CNN. L’emittente americana si sofferma in particolare sulle conseguenze dell’esplosione di una cisterna di combustibile avvenuta a metà agosto nell’Akkar, nel nord del Libano, che ha provocato diversi morti e feriti. L’evento aveva contribuito ad evidenziare la mancanza di medicine nel Paese, se non fosse che vaste scorte di farmaci sono poi state trovate grazie alle indagini del ministero della Salute in alcuni magazzini nei quartieri ricchi della città. Un fatto che ha portato la CNN ad affermare che è l’avidità ad aver innescato questa crisi.
Quanto sangue scorre ancora in Siria
Mercoledì un bus militare sui cui erano stati piazzati tre ordigni è esploso a Damasco, provocando 14 morti e diversi feriti. Come ha scritto al-Monitor il governo siriano non ha accusato nessun gruppo in particolare, e ha parlato semplicemente di “terroristi”. Poco dopo l’esplosione l’esercito siriano ha bombardato la città di Ariha, nella provincia di Idlib, uccidendo almeno 11 persone, riporta al-Jazeera. Il circolo vizioso dello spargimento di sangue non si arresta qui perché questa settimana Damasco ha anche giustiziato 24 persone giudicate colpevoli di aver appiccato incendi dolosi l’anno scorso. Sul fronte politico si è invece registrata una novità importante: come ha fatto sapere il quotidiano Asharq al-Awsat, il presidente Bashar Assad ha avuto un colloquio telefonico diretto con il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed. Durante il colloquio i due avrebbero parlato della situazione in Siria e in Medio Oriente e della potenziale cooperazione su diversi fronti.
Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
Hezbollah alza la voce e strizza l’occhio ai cristiani
Lunedì scorso il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, ha commentato pubblicamente gli scontri avvenuti quattro giorni prima a Tayoune, a sud di Beirut, tra i militanti sciiti che stavano manifestando davanti al palazzo di Giustizia e quelli del partito cristiano delle Forze Libanesi. Nel suo discorso, Nasrallah ha agitato lo spauracchio di una nuova guerra civile, mettendo in guardia le Forze Libanesi sulla capacità di fuoco di Hezbollah (ha parlato di 100.000 miliziani pronti a combattere), e ha rivendicato il suo ruolo di difensore dei cristiani mediorientali.
Queste dichiarazioni hanno superato i confini nazionali, infiammando gli animi di tutta la piazza mediatica araba. Il quotidiano Al-Quds al-Arabī ha pubblicato un editoriale che apre con una domanda retorica: «I cristiani orientali hanno bisogno della protezione di Hezbollah?» La risposta è no, anche perché la tanto declamata protezione offerta da Hezbollah e dalla Russia ai cristiani siriani è sempre stata finalizzata a proteggere il regime di Bashar al-Asad e comunque si è rivelata disastrosa per la società. Per il giornale londinese il discorso di Nasrallah è paradossale: da un lato Hezbollah si dice movimento della resistenza contro Israele, dall’altro agisce come macchina da guerra per procura in difesa dell’Iran e del regime siriano, e si pone come l’elemento dominante in una gerarchia confessionale. «Questi due aspetti – scrive al-Quds al-Arabī – portano in sé il seme della guerra civile permanente e si fondano sull’attivazione dell’elemento confessionale, impedendo la nascita di un tessuto nazionale condiviso e della pace civile».
Interessante anche la riflessione di Rosana Boumonsef pubblicata sul quotidiano libanese al-Nahār. La giornalista non si stupisce delle dichiarazioni di Nasrallah in merito ai cristiani. Dopo tutto lo stesso Gebran Bassil, cristiano maronita, leader della Corrente patriottica libera e genero del presidente Aoun, lo scorso giugno ha dichiarato pubblicamente che «la custodia dei diritti dei cristiani è affidata a Nasrallah». Le Chiese cristiane, ha scritto Boumonsef, non hanno fatto nulla per correggere quest’idea distorta, mettendo così i cristiani nella condizione di “dhimmi”, cioè di protetti che devono la loro esistenza a Bashar al-Asad o a Hezbollah. E comunque questa tendenza è in atto da anni; anche l’intesa di Mar Mikhael, firmata nel 2006 da Aoun (all’epoca Capo di stato maggiore dell’esercito libanese) e Nasrallah, che sanciva l’alleanza tra le due parti andava in quella direzione.
Da parte sua, il patriarca maronita Beshara Raï non ha replicato al discorso di Nasrallah, e domenica scorsa durante la messa ha detto di non voler alimentare ulteriormente le divisioni confessionali.
Per il giornalista saudita Fahd Sulayman Shoqiran in Libano non è ancora tempo di guerra civile. Certo «le anime sono cariche di rancore, i cuori non sono puliti, i cavalli sono sellati, ma la guerra per il momento è rinviata», ha scritto su al-Sharq al-Awsat. Oggi il pericolo più grande per il Paese è la disintegrazione delle istituzioni civili. Coerentemente con la linea anti-iraniana del quotidiano (di proprietà saudita), Shoqiran ha accusato Hezbollah di appellarsi alla giustizia soltanto quando gli conviene: il Partito di Dio non vuole che si indaghi sull’esplosione del porto di Beirut su cui potrebbe avere delle responsabilità, ma allo stesso tempo vorrebbe che la giustizia libanese aprisse un’indagine sui fatti di Tayoune.
Ancora su al-Sharq al-Awsat, l’ex ministro giordano Saleh al-Gholab ha accusato Nasrallah di considerare il Sud del Libano una base militare iraniana e di aver orchestrato la manifestazione davanti al ministero della Giustizia per insabbiare il caso del porto di Beirut, far cadere uno dopo l’altro i governi e consegnare definitivamente il Paese a Teheran.
In Sudan torna lo spettro della dittatura militare
Dal Libano ci spostiamo in Sudan, un Paese che da un mese a questa parte vive una fase politica molto turbolenta. A fine settembre c’è stato infatti un tentativo di colpo di Stato a opera di un gruppo di militari vicini all’ex presidente Omar al-Bashir, destituito nel 2019 dopo una dittatura trentennale. Il golpe è fallito, ma lo spettro di una dittatura militare continua a spaventare i sudanesi. Come ha spiegato il quotidiano londinese al-‘Arabī al-Jadīd, nelle ultime settimane il presidente sudanese, il generale al-Burhan, ha emesso una serie di decreti che fanno della componente militare la vera forza governativa del Paese, e ha posto la TV sudanese sotto il controllo delle forze armate. Così, migliaia di sudanesi di sono radunati a Khartoum per protestare contro l’eventualità di un governo militare e chiedere il passaggio dei poteri a un governo civile. Una protesta annunciata, organizzata in una data simbolica: il 21 settembre infatti è l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre del 1964 che mise fine alla dittatura militare e aprì la strada a una breve parentesi democratica.
La giornata di proteste si è conclusa con 36 feriti e molte incognite lasciate in sospeso. Una cosa però è certa: i militari non cederanno facilmente il potere alla parte civile se non altro per non perdere i privilegi acquisiti. Peraltro, spiega al-Quds al-‘Arabī, il ritorno di una dittatura militare significherebbe anche il ritorno delle sanzioni politiche ed economiche, ciò che il Paese non può permettersi.
In breve
Secondo Business Insider l’Arabia Saudita starebbe pensando alla normalizzazione dei rapporti con Israele.
In Egitto 98 donne sono state nominate giudici del Consiglio di Stato (BBC News).
Secondo Farnaz Fassihi (New York Times) l’Iran sta abbandonando la produzione del vaccino Fakhravac prediligendo l’importazione di vaccini stranieri.