Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:49
La conferenza di Marrakech del 10 e 11 dicembre ha rappresentato l’ultimo tassello di un ambizioso progetto iniziato nel settembre 2016 con la “Dichiarazione di New York”, quando i 193 Paesi membri delle Nazioni Unite hanno sottoscritto un accordo in merito alla gestione del fenomeno migratorio. Nella città marocchina si è infatti ratificato il “Global compact per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Il testo, qui disponibile in tutte le lingue ufficiali dell’ONU, sottolinea la responsabilità comune nella gestione di un fenomeno transnazionale quale è la migrazione. La piattaforma non è vincolante, ma offre solo un indirizzo condiviso per affrontare la questione. Nell’articolo 16 del testo si incontrano infatti 23 linee guida da seguire per coordinare il fenomeno, dalla creazione di misure basate sui dati al riconoscimento nel luogo di ingresso fino alle iniziative per contrastare comportamenti criminali. A suscitare le perplessità di alcuni Stati sono in particolare i punti che incoraggiano una maggiore inclusione nel tessuto sociale e partecipazione alla vita pubblica nel Paese di destinazione. Dopo gli Stati Uniti e l’Australia, anche l’Austria e i Paesi di Visegràd (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) si sono così ritirati. E se in Belgio il governo è caduto sulla discussione in merito al Global Compact, Italia, Svizzera, Israele, Estonia, Slovenia e Bulgaria hanno per intanto solo sospeso la firma, pur non lasciando molto spazio a un futuro ripensamento.
Il punto di partenza della misura è che la migrazione faccia parte dell’esperienza umana da sempre. Se il movimento dell’essere umano è infatti una sua caratteristica naturale che lo ha contraddistinto fin dalle origini, le migrazioni a cui assistiamo oggi si realizzano invece all’interno di un tavoliere che è frazionato, stratificato e diviso. Dunque, la problematica migratoria diventa critica e meritevole di attenzioni solo nel momento in cui «la linea che si attraversa geograficamente e amministrativamente diventa essenzialmente una costruzione sociale e politica»[1]. La dichiarazione di Marrakech si trova così a dover conciliare la cooperazione internazionale e la responsabilità alla protezione con i limiti giurisdizionali e la sovranità territoriale dei singoli Stati. Non è però la prima volta che il dibattito fra sovranità interna e intervento esterno è oggetto di discussione. Fino a quando uno Stato può esercitare il controllo entro i propri confini? E quando la comunità internazionale ha il diritto, o addirittura il dovere di intervenire? Le Nazioni Unite si sono dovute confrontare spesso con questo interrogativo, come i casi Bosnia e Ruanda dimostrano, al punto che nel nuovo numero di Foreign Affairs si esplora la crisi vissuta dalle missioni di peace-keeping e peace-building a livello internazionale.
La situazione in Siria e Afghanistan
Se ci concentriamo sulle persone costrette a emigrare, nel 2017 i dati parlano di oltre 65 milioni di persone, di cui il 30% dall’Africa e il 40% dal Medio Oriente.
In Afghanistan si registrano circa 2.6 milioni di persone costrette a lasciare il Paese, dove sicurezza e garanzie politiche latitano. È notizia di questa settimana che i voti espressi nella sezione di Kabul durante le recenti elezioni non sono validi, a causa della cattiva gestione della Commissione incaricata a supervisionare le votazioni e delle frodi che avrebbero minato la credibilità del voto. Inoltre il Paese, già vessato da una siccità che ha costretto 250.000 persone ad allontanarsi dalle proprie abitazioni, ha vissuto nella giornata di martedì l’ennesimo attacco suicida rivendicato dai talebani, in cui avrebbero perso la vita 12 persone fra civili e militari.
È però la Siria il Paese più colpito in termini di rifugiati. La Primavera Araba, il conflitto che si è progressivamente internazionalizzato, la presenza del sedicente Stato Islamico, la frammentazione etnica e religiosa, la moltiplicazione di attori non- e para-statali, il tutto all’interno del grande rimescolamento mediorientale, hanno spinto la Repubblica alawita sull’orlo del baratro, costringendo circa 6.3 milioni di persone a lasciare il Paese. Di queste, un milione e mezzo ha trovato rifugio in Libano e in Giordania, ma la maggioranza, circa 5 milioni, è stata ricollocata in Turchia, in particolare dopo l’accordo con l’Unione Europea firmato nel 2015[2]. Secondo l’UNCHR, si presume che nel 2019, nonostante alcuni ostacoli, 250.000 siriani potranno ritornare a casa: un numero più che doppio rispetto ai 117.000 che secondo l’agenzia ONU avrebbero già fatto ritorno nell’ultimo anno. Nonostante questi primi flebili segnali di distensione, il conflitto che avrebbe fatto registrare circa 560.000 morti è lontano da una risoluzione, come si apprende dalle recenti dichiarazioni del Presidente Erdogan. Il leader turco avrebbe infatti intenzione di colpire i guerriglieri dello YPG, le milizie curde in prima fila contro l’ISIS e vicine al partito dell’Unione Democratica (PYD). Oltre a ragioni geografiche, ideologiche e strategiche, le ostilità da parte turca dipendono anche dalla vicinanza del PYD al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), uno storico nemico di Ankara, come analizzato in questo articolo di Joost Jongerden per Oasis.
Yemen: fra immigrazione ed emigrazione
Uno dei casi però più interessanti rispetto ai fenomeni migratori è rappresentato dallo Yemen, dove un conflitto estenuante farebbe ipotizzare una massiccia emigrazione forzata. Al contrario, è proprio la destabilizzante guerra ad allentare ogni qualsivoglia controllo sui confini, favorendo così un’immigrazione incontrollata. I 23.500 yemeniti forzati a fuggire dal Paese e i 24.600 richiedenti asilo provenienti dallo Yemen in quest’anno sono ampiamente superati da chi in Yemen ci è arrivato. Ovviamente i flussi di immigrati non hanno come meta ultima il Paese, che sarebbe solo una tappa all’interno di una rotta migratoria verso altri stati nella regione. Secondo l’OIM, sarebbero 170.000 le persone transitate in Yemen dall’Africa Sub-Sahariana per raggiungere le zone nord della Penisola Arabica, molti di più per esempio rispetto ai 23.122 conteggiati dal Viminale che sarebbero arrivati in Italia via nave dal primo gennaio al 12 dicembre.
La rotta afro-araba costituisce una delle principali vie migratorie contemporanee, proprio a causa del conflitto che non consente la messa in sicurezza dei confini. E anche i negoziati svedesi per provare a porre fine allo scontro hanno fino ad ora raccolto risultati esigui. Se da un lato, il governo centrale appoggiato dall’Arabia Saudita e i ribelli houthi hanno intavolato uno scambio di circa 15.000 prigionieri e si sono accordati per la riapertura dell’aeroporto di Sana’a, dall’altro l’area della città costiera di Hodeidah è ancora dibattuta. Le Nazioni Unite hanno chiesto il ritiro sia delle truppe saudo-emiratine sia delle forze ribelli, anche perché la città portuale è la porta principale per oltre il 70% degli aiuti umanitari nel Paese. La risoluzione del conflitto, benché difficile, è assolutamente necessaria. Negli ultimi 3 mesi sono infatti deceduti 1500 civili, la maggior parte colpita da attacchi della coalizione filo-saudita. Nonostante ONU e Unione Europea abbiano posto sullo Yemen un embargo unilaterale sulla vendita di armi, i flussi di armamenti verso il Paese continuano. Anche l’Italia è coinvolta nelle transazioni. E lo è da anni, come dimostra questo reportage del New York Times del dicembre 2017, dove viene evidenziato come alcune bombe della coalizione a guida saudita sarebbero prodotte in Sardegna dalla Rwm a Domusnovas.
Allo stesso tempo sarebbe fuorviante non considerare le atrocità commesse anche dall’altra parte, ovvero gli houthi. In un lungo reportage di Maggie Michael per Associated Press, vengono scandagliate infatti le angherie e le violenze perpetrate dai ribelli del nord contro la popolazione civile, semplicemente sospettata di vicinanza al governo di Sana’a.
Ad ogni modo, per quanto le negoziazioni e i discorsi di pace sotto l’egida ONU siano rilevanti, il ruolo degli Stati Uniti nel Golfo è ancora centrale. Di conseguenza, la decisione di mercoledì del Senato americano di proporre una risoluzione per togliere il supporto alla coalizione saudita in Yemen può essere un primo passo nella normalizzazione. Molto dipenderà però dalla postura assunta dal Presidente Trump e dal suo genero Jared Kushner, principale sponsor del Principe saudita Muhammad Bin Salman, in quella che Michael Singh ha chiamato “post-Khashoggi era”.
[1] Douglas Massey, La ricerca sulle migrazioni nel XXI secolo, in Asher Colombo e Giovanni Sciortino (a cura di), Stranieri in Italia. Assimilati ed esclusi, Il Mulino, Bologna 2002.
[2] Thomas Krumm, The EU-Turkey Refugee Agreement of Autumn 2015 as a Two-Level Game, «Turkish Journal of International Relations» , vol. 14, no. 4 (2015), pp. 20–36.