Principio fondamentale dell’esegesi sciita è che l’imam è l’unico interprete legittimo del Testo sacro ed è eletto e ispirato da Dio per questo scopo.
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:35:20
Principio fondamentale dell’esegesi sciita è che l’imam è l’unico interprete legittimo del Testo sacro ed è eletto e ispirato da Dio per questo scopo. Secondo un detto attribuito ad ‘Alī infatti, il Corano «non parla in una lingua, ma ha bisogno di un interprete». Quest’ultimo non può che essere un imam infallibile, così come lo era il Profeta. Senza l’ermeneutica dell’imam il Libro non significa letteralmente nulla, è un “Corano muto”. È l’imam a dargli un’intelligibilità ed è per questo che è definito “il Corano parlante”
Ultima arrivata delle grandi religioni del Libro, l’Islam attribuisce alla propria Scrittura la massima sacralità. Nel sunnismo la sacralizzazione del Corano ha portato spesso alla chiusura delle porte tanto della critica storica quanto dell’ermeneutica spirituale. Ma non è questo il caso dell’Islam sciita, che non si definisce solamente una religione del Libro ma anche, e questo sin dalle sue origini, una religione dell’interpretazione del Libro. La definizione vale per le sue due principali forme storiche, l’imamismo duodecimano (dei dodici imam) e l’ismailismo.
Aspetto esteriore e contenute esoterico
Nella visione sciita del mondo ogni cosa possiede un aspetto esteriore, manifesto o essoterico (zāhir), e un contenuto interiore, nascosto o esoterico (bātin). Quest’affermazione è vera innanzitutto per Dio stesso che, secondo il Corano, «è il Dispiegato, è l’Intimo» (57,3). E di conseguenza è vera per le rivelazioni divine dispensate nel corso della storia. Poiché la lettera di una Scrittura santa racchiude sempre un senso nascosto che ne è lo spirito, la venuta di un profeta con una rivelazione letterale (tanzīl) non può fare a meno di una serie di imam che hanno il compito di produrne l’esegesi spirituale (ta’wīl). Secondo la concezione sciita della storia santa, così come Mosè ebbe come primo imam Aronne e Gesù l’apostolo Simone, il profeta Muhammad ebbe come primo imam il giovane cugino ‘Alī Ibn Abī Tālib, marito di sua figlia Fatima e padre della sua unica discendenza maschile. Se la profezia si chiude con Muhammad, con ‘Alī si apre l’ultimo ciclo dell’alleanza divina (walāya) degli imam. La profetologia sciita è indissociabile da un’imamologia, e quest’ultima è indissociabile da un’ermeneutica del Libro.
Il termine ta’wīl deriva dalla radice AWL, che denota l’idea del ritorno. Nome d’azione del verbo causativo awwala, esso indica l’atto di riportare qualcosa alla sua origine e, per estensione, l’interpretazione di un segno. Il Corano la impiega per l’interpretazione dei sogni (12,6.21 a proposito di Giuseppe), di azioni che urtano il senso morale comune (18,78.82 a proposito di Mosè), ma anche dei propri segni o versetti (āyāt): «Egli è colui che ti ha rivelato il Libro: ed esso contiene sia versetti solidi, che sono la Madre del Libro, sia versetti allegorici. Ma quelli ch’hanno il cuore traviato seguono ciò che v’è d’allegorico, bramosi di portare scisma e di interpretare fantasiosamente, mentre la vera interpretazione di quei passi non la conoscono che Dio e gli uomini di solida scienza. Essi diranno: “Crediamo in questo Libro; esso viene tutto dal Signore nostro!” Ma su questo non meditano che gli uomini di sano intelletto» (3,7). A differenza dei commentatori sunniti, gli sciiti leggono questo versetto facendo una pausa dopo “gli uomini di solida scienza” e non dopo “Dio”, ciò che abilita alcuni uomini a interpretare o “decifrare” il Libro. Secondo diversi hadīth degli imam “gli uomini di solida scienza” non sono altri che Muhammad, ‘Alī e gli imam della sua discendenza, che conoscono tutto il ta’wīl del Libro. Quanto al termine tafsīr, che nei primi secoli dell’Islam era sinonimo di ta’wīl, è passato a designare più tardi un commento esteriore del Corano, linguistico o storico, che può essere effettuato da qualsiasi dotto, mentre il ta’wīl designa propriamente un commento esoterico che può essere l’opera solamente di un uomo “di solida scienza”. La distinzione resterà tuttavia nominale in ambito sciita, in cui molti tafsīr del Corano sono in realtà commenti esoterici.
Questa posizione ermeneutica dello sciismo ha ovviamente la sua storia, la quale a sua volta ha un aspetto esteriore e una dimensione interiore. Quando Muhammad era ancora in vita, un gruppo di musulmani considerava ‘Alī l’unico successore legittimo a capo della comunità, il primo depositario della rivelazione, se non addirittura il messia annunciato da quest’ultima. Secondo un hadīth riportato anche dalle fonti sunnite, il Profeta, poco prima della morte, avrebbe dichiarato: «Vi lascio in eredità due oggetti preziosi, e se ve ne prenderete cura non vi smarrirete dopo di me: il Libro di Dio e la gente della mia famiglia»[1]. Per gli sciiti, ‘Alī si trovava al punto d’intersezione di questi due oggetti preziosi: il Corano, che egli era il solo a conoscere integralmente dopo Muhammad, e la famiglia del Profeta, di cui era il secondo padre. Ma questi due oggetti preziosi sarebbero stati maltrattati e profanati dai nemici del Vero.
Secondo le fonti sciite più antiche e contrariamente a quanto affermano le fonti sunnite, la compilazione di un testo unico della rivelazione dopo la morte del Profeta fu tutto fuorché consensuale: ‘Alī non fu soltanto allontanato dal potere con un complotto, ma gli fu anche impedito di produrre il Corano che aveva raccolto. Alcuni racconti parlano di un testo ben più voluminoso della Vulgata detta di ‘Uthmān che noi conosciamo; altri menzionano censure e aggiunte nel Corano ufficiale, mentre alcune tradizioni duodecimane suggeriscono che il Corano di ‘Alī sia stato trasmesso di imam in imam fino al dodicesimo, l’imam nascosto, che lo conserva e lo renderà manifesto quando tornerà alla fine dei tempi.
Sotto le persecuzioni, queste tesi furono progressivamente abbandonate a favore di una posizione esoterica: ciò che ‘Alī e gli imam possiedono non è il Corano autentico, di cui la Vulgata sarebbe una versione censurata e alterata, ma l’esegesi spirituale del Corano ufficiale, cioè della rivelazione letterale. Ciò non toglie che questa esegesi sia consustanziale alla lettera del Libro, al punto che il Corano autentico consiste nella somma del suo tanzīl e del suo ta’wīl. È così riferito che ‘Alī, una volta diventato califfo, si rassegnò a combattere altri musulmani riferendosi a ciò che il Profeta gli avrebbe detto: «Tu combatterai per l’interpretazione del Corano così come io ho combattuto per la sua rivelazione»[2]. Secondo un’altra tradizione, Ibn ‘Abbās, cugino del Profeta e compagno di ‘Alī, avrebbe avuto un’accesa discussione sul Corano con Mu‘āwiya, nemico giurato di ‘Alī e fondatore della dinastia omayyade, che aveva proibito di menzionare pubblicamente le virtù di ‘Alī e della gente della famiglia del Profeta. Ibn ‘Abbās gli domandò se voleva proibire loro di leggere il Corano e Mu‘āwiya rispose di no. Ibn ‘Abbās gli domandò se voleva proibire loro di interpretare il Corano e Mu‘āwiya rispose loro di sì. Ibn ‘Abbās allora domandò come fosse possibile leggere il Corano senza cercare di conoscere l’intenzione di Dio e metterla in pratica[3]. Secondo questo e molti altri hadīth, il senso nascosto della rivelazione riguarda ‘Alī e i discendenti del Profeta, e questo senso è così necessario alla lettera che una lettura letteralista che rifiuti di cercarlo equivale a una censura del Corano[4].
Le divisioni dopo la battaglia di Kerbala
Al pari del Libro di Dio, anche la famiglia del Profeta conobbe una sorte tragica, che raggiunse il parossismo quando Husayn, nipote prediletto di Muhammad e terzo imam degli sciiti dopo il padre ‘Alī e il fratello maggiore Hasan, fu ucciso dall’esercito degli omayyadi a Kerbala nel 65/680. Dopo di lui lo sciismo si divise in numerosi rami, la maggior parte dei quali non riuscì a sopravvivere alla repressione statale. Nella discendenza degli imam da cui ebbe origine lo sciismo duodecimano, la rinuncia all’attività politica andò di pari passo con l’intensificazione dell’insegnamento spirituale e dell’ermeneutica. Occorre tuttavia evitare un’interpretazione funzionalista, comoda ma riduttiva, che nell’ermeneutica sciita vede solamente un surrogato di rivendicazioni storiche o una consolazione per la disfatta politica. Cerchiamo piuttosto di vedere nella storia tragica degli imam l’aspetto essoterico il cui senso nascosto è la loro missione ermeneutica.
I due principi fondamentali dell’esegesi sciita sono che il Corano ha bisogno di un’interpretazione e che l’imam è il suo unico interprete legittimo, eletto e ispirato da Dio per questo scopo. Secondo un detto attribuito all’imam ‘Alī, «questo Corano non è altro che una scrittura vergata tra due piatti [di copertina], non parla [di se stesso] in una lingua, ha bisogno di un interprete»[5]. Quest’ultimo non può che essere un imam infallibile (ma‘sūm), così come lo era il Profeta. Senza l’ermeneutica dell’imam il Libro non significa letteralmente nulla, è un “Corano muto”. È l’imam a dargli intelligibilità ed è per questo che è definito “il Corano parlante”. I diversi imam dello sciismo duodecimano hanno fatto propria questa missione ermeneutica. Il sesto imam, Ja‘far al-Sādiq, sarebbe l’autore del primo commento mistico del Corano, e l’undicesimo imam si vide attribuire un tafsīr. Lo Hadīth degli imam, un corpus monumentale raccolto mentre essi ancora erano in vita e sotto la loro supervisione, contiene tutta un’esegesi della sacra Scrittura. I primi tafsīr, prodotti da dotti imamiti come al-Qummī (m. 307/919) o al-‘Ayyāshī (m. 320/932), sono composti unicamente da hadīth degli imam e non contengono alcuna opinione personale.
Secondo l’esegesi sciita antica, l’imam non è solamente ermeneuta o “Corano parlante”: la sua alleanza divina, la sua walāya, è essa stessa il senso nascosto a cui il ta’wīl riconduce, ciò di cui parla il Corano, l’alfa e l’omega del Libro. È quanto mette in luce l’interpretazione sciita della prima sura, la Fātiha, recitata da ogni musulmano durante la preghiera. Un hadīth attribuito ad ‘Alī afferma: «Io sono il punto sotto la bā di bi-smi-llāh» (nel nome di Dio), formula che apre la sura. La «retta via» del versetto 6, «guidaci per la retta via», s’identifica con l’imam, la cui conoscenza conduce a quella di Dio e alla salvezza nell’altra vita. Quanto ai due gruppi dai quali l’orante si dissocia nel versetto 7, «i reietti» e gli «smarriti», che l’esegesi sunnita identifica generalmente con gli ebrei e i cristiani, nelle tradizioni sciite designano piuttosto coloro che, tra i musulmani, agiscono come gli ebrei e i cristiani, i primi rifiutando la santità di ‘Alī come gli ebrei rifiutarono quella di Cristo, e sono i sunniti, i secondi enfatizzando in maniera eccessiva la santità di ‘Alī come fecero i cristiani con Cristo, e sono gli “esageratori” sciiti (ghulāt)[6]. Allo stesso modo, i versetti relativi al jihad sono interpretati in senso trans-storico per annunciare la battaglia escatologica dell’ultimo imam, il Mahdī. Il fine della battaglia sarà «riempire la terra di giustizia ed equità come prima era piena d’ingiustizia e iniquità» e ripristinare le Scritture di Dio, ovvero la Torah, il Vangelo e il Corano[7]. Similmente a quella combattuta da ‘Ali durante il suo califfato, sarà una battaglia per l’ermeneutica, ma questa volta il trionfo sarà garantito, realizzando così la fine della Storia.
Molti commenti sciiti sembrano limitarsi a identificare le persone storiche che i versetti ambigui del Corano considerano positivamente – gli imam – o negativamente – i loro nemici, ciò che può sembrare un modo per sfruttare gli spazi lasciati dalla censura. La persona sacrosanta dell’imam ‘Alī è quella più spesso al centro di questa esegesi “personalizzata”. Questa interpretazione può sembrare troppo esclusiva per essere spirituale, ma non bisogna lasciarsi trarre in inganno. Il senso nascosto che gli sciiti trovano per il Corano nel nome dell’imam, punto centrale dove comincia, dove finisce e attorno al quale ruota tutta la rivelazione, ha esso stesso un senso interiore propriamente religioso, metafisico e trans-storico: la necessità dell’Uomo divino, l’idea che Dio, in quanto il Manifesto e non solamente il Nascosto, non può prescindere da una manifestazione umana, e che l’uomo non potrebbe amare un Dio che non si manifesti nel mondo, né raggiungere la salvezza senza una guida divina.
Il senso simbolico delle scritture
La tradizione sciita ismailita, staccatasi dal tronco comune dell’imamismo dopo il sesto imam Ja‘far al-Sādiq, mantiene un rapporto più distaccato con il Corano rispetto alla tradizione duodecimana. Gli ismailiti non hanno sostenuto la tesi della falsificazione del Corano e si sono disinteressati delle condizioni storiche della rivelazione. Mentre tra i duodecimani è prevalsa per molto tempo l’autorità esclusiva dell’imam in materia di ta’wīl, tra gli ismailiti, che conoscono fino a oggi una successione quasi ininterrotta di imam, i filosofi-predicatori (du’āt) hanno iniziato abbastanza precocemente a praticare un’ermeneutica del Corano esercitando la loro riflessione personale sotto l’autorità dell’imam. Tuttavia a differenza dei duodecimani, i pensatori ismailiti hanno prodotto pochi commenti completi del testo coranico, preferendo concentrare i propri sforzi su versetti particolari, la cui interpretazione è inclusa in opere teologiche e filosofiche.
Il pensiero ismailita si è ben presto impregnato di dottrina neoplatonica, identificando l’Uno al di là dell’Essere, così come definito da Plotino, con il Dio Creatore del Corano. Seguendo uno schema ereditato dall’allegoria della caverna di Platone (La Repubblica, libro VII), tale pensiero sostiene che le rivelazioni divine dispensate nel tempo non riguardano persone fisiche e avvenimenti temporali, ma realtà spirituali e atemporali che i profeti hanno la missione di tradurre in segni sensibili per farli conoscere agli uomini. Pertanto per gli ismailiti tutti i libri rivelati (la Torah, il Vangelo, il Corano) possiedono un senso essenzialmente simbolico e la loro lettera non è altro che un semplice involucro, esteriore e sensibile, che dissimula il loro significato intelligibile. È innanzitutto il caso dei versetti coranici che trattano le due estremità dell’arco cronologico della storia santa. La storia di Adamo ed Eva, l’albero del Bene e del Male così come le delizie promesse in Paradiso e i tormenti dell’Inferno sono allegorie che richiedono uno svelamento filosofico. I Fratelli della Purità (Ikhwān al-safā) nel IV/X secolo, interpretavano le figure di Adamo e del serpente come metafore dell’anima intellettiva e dell’anima carnale[8]. Nasīr al-Dīn Tūsī (m. 672/1274) vedeva nel primo paradiso, quello di Adamo (Cor. 2,35), «la prima inesistenza», e nel Paradiso finale dei veri monoteisti (89,28-30) «la seconda inesistenza ovvero l’estinzione (fanā’) nell’unicità di Dio»[9]. I versetti di carattere legislativo e cultuale, che compongono la sharī‘a, possiedono anche un senso esoterico, senza il quale gli obblighi e i divieti sarebbero solamente un’assurdità[10]. Ciò non significa che si possano ignorare le prescrizioni della Legge una volta raggiunto il suo senso nascosto – che può essere svelato solamente da filosofi affermati – ma che un’azione cultuale non è veramente gradita a Dio se non è accompagnata dalla conoscenza chiara dell’intenzione divina che la ordina. Così il Corano, tanto nei versetti giuridici quanto nel suo discorso teologico ed escatologico, invita a un’esegesi spirituale o ta’wīl.
Come abbiamo visto, nello sciismo duodecimano l’interpretazione del Corano è la prima prerogativa dell’imam che, a differenza dell’autorità politica, non fu mai abbandonata dai successori di ‘Alī. Così l’occultamento del dodicesimo imam nel 260/874 lasciò un vuoto teologico incolmabile, quello dell’imamato come presenza della rivelazione. Fintantoché l’imam era presente, il Corano parlava, il Corano viveva. Ma come impedire al Corano di degenerare in lettera morta dopo la scomparsa dell’imam? Dopo l’occultamento, mentre i giuristi razionalisti agivano per accaparrarsi le prerogative sociali dell’imam, filosofi e mistici sciiti si fecero carico della sua missione ermeneutica. L’esegesi filosofica del Corano passò dall’ismailismo all’imamismo duodecimano con Nasīr al-Dīn Tūsī al momento della conquista mongola. Questa esegesi sbocciò con Haydar Āmolī (VIII/XIV secolo), che alla teologia e all’imamologia sciita incorporò la teosofia e la dottrina della santità del pensatore mistico Ibn ‘Arabī (m. 638/1240), mettendo in corrispondenza il libro del Corano con il grande libro del mondo. Dopo di lui i filosofi interpretarono il Corano o lo Hadīth degli imam coniugando le facoltà della ragione e dell’intuizione mistica. Secondo un hadīth dell’ottavo imam, l’insegnamento dei padri presenta, come il Corano, delle parole chiare (muhkamāt) e altre ambigue (mutashābihāt)[11]. Da quel momento il filosofo diventa l’ermeneuta dell’ermeneuta e il vero rappresentante dell’imam. Mentre i giuristi-teologi si adoperano per abrogare l’insegnamento esoterico degli imam così da secolarizzare la religione a proprio vantaggio, i filosofi diventano a loro volta “combattenti del ta’wīl”, in lotta per conservare la dimensione interiore e spirituale, non solamente del Corano, ma dello sciismo stesso come religione ermeneutica[12].
Nell’ermeneutica filosofica sciita, più che mai viva in epoca moderna, si ritrova una tensione feconda tra l’imamocentrismo delle origini e il monismo dell’“unicità dell’esistenza” ispirata a Ibn ‘Arabī. Per Mīr Dāmād e Mollā Sadrā (XI/XVII secolo) l’ideale dell’Uomo perfetto o del Saggio tende a sostituirsi alla figura concreta dell’imam ‘Alī o dei suoi discendenti, le cui parole sono citate con la stessa autorità dei versetti del Corano. Del versetto che recita «Noi abbiamo proposto il Pegno ai Cieli e alla Terra e ai Monti, ed essi rifiutarono di portarlo, e n’ebbero paura. Ma se ne caricò l’Uomo, e l’Uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro!» (33,72) Mīr Dāmād scrive che questo Pegno è la conoscenza dell’inconoscibilità dell’Essenza divina, una docta ignorantia che spetta al vero filosofo[13]. Del versetto che recita «E io non ho creato i jinn e gli uomini altro che perché M’adorassero» (51,56) Mollā Sadrā scrive: «ovvero perché conoscano» e aggiunge che «il saggio è l’obbiettivo finale dell’esistenziazione delle sfere, degli elementi e della realtà composte»[14]. È così che la religione degli imam, nell’assenza fisica di questi ultimi, conserva la propria vocazione ermeneutica attribuendo alla sua esegesi una portata universale.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Muhammad Bāqir al-Majlisī, Bihār al-anwār, Mu’assasat al-wafā, Bayrūt, 1403/1983, XXIII, p. 108. Questi hadīth si trovano nei Sahīh di Muslim e Ibn Hanbal.
[2] Haydar Āmolī, al-Muhīt al-a‘zam, cit. in Silsilat al-mukhtārāt min nusūs al-tafsīr al-mustanbit, Hekmat, Teheran 1388 h.s./2009-10, II, p. 195.
[3] Kitāb Sulaym b. Qays, Mu’assasat al-A‘lamī li-l-matbū‘āt, Bayrūt, s.d., pp. 202-203.
[4] Su queste tesi si veda Mohammad Ali Amir-Moezzi, Le Coran silencieux et le Coran parlant, CNRS éditions, Paris 2011.
[5] Nahj al-Balāgha, edizione a cura di H. al-A‘lamī, Mu’assasat al-A‘lamī li-l-matbū‘āt, Bayrūt 1413/1993, p. 270.
[6] Rajab al-Bursī, al-Durr al-thamīn, edizione a cura di ‘A. ‘Āshūr, Mu’assasat al-A‘lamī li-l-matbū‘āt, Bayrūt 1424/2003, pp. 22-30.
[7] Ibn Abī Zaynab al-Nu‘mānī, Kitāb al-Ghayba, a cura di M. J. Ghaffārī, Dār al-kutub al-islāmiyya, Teheran 1390 h.s./2011-12, bāb 13, h. 26, pp. 334-335.
[8] Si veda la nostra traduzione in Martino Diez, Il jihad spiegato dai musulmani, «Oasis» 20 (2014), p. 83.
[9] Jalal Badakhchani, Shi’i Interpretations of Islam, I.B. Tauris, London 2010, p. 41 del testo persiano.
[10] Daniel De Smet, La philosophie ismaélienne, Le Cerf, Paris 2012, p. 24.
[11] Muhsin Fayd Kāshānī, Tafsīr al-Sāfī, edizione a cura di M. Emāmiyān, Dhawī l-qurbā, Qumm 1388 h.s./2009-10, vol. I, p. 230.
[12] Mohammad Ali Amir-Moezzi, La religion discrète, Vrin, Paris 2006, pp. 231-251.
[13] Tafsīr āyat al-amāna, Mosannafāt-e Mīr Dāmād, edizione a cura di ‘A. Nūrānī, Anjoman-e āthār va mafākher-e farhangī, Teheran 1381 h.s./2003, I, p. 543.
[14] Mullā Sadrā Shīrāzī, Le Verset de la Lumière. Commentaire, trad. Christian Jambet, Les Belles Lettres, Paris 2009, pp. 67-68.