I limiti della guerra al terrore in Nord Africa e nel Sahel
Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:50:06
Alexander Thurston, Jihadists of North Africa and the Sahel, Cambridge University Press, Cambridge
Professore all’Università di Cincinnati e uno dei più autorevoli esperti di jihadismo africano, Alexander Thurston, analizza nel suo ultimo libro l’evoluzione e le peculiarità dei movimenti jihadisti che operano nel vasto spazio sahariano compreso tra l’Algeria, il Mali settentrionale e centrale, la zona di confine tra il Niger e il Burkina Faso, la Libia e la Mauritania.
Nei sette capitoli in cui sono divise le oltre 300 pagine del volume, l’autore ricostruisce meticolosamente la storia delle formazioni jihadiste locali, i rapporti di forza interni e le divergenze nate tra le personalità più carismatiche su questioni spesso dottrinali, che negli anni hanno portato alla frammentazione dei movimenti combattenti, e i legami di questi ultimi con i governi locali.
Il primo capitolo ripercorre le vicende del Gruppo islamico armato (GIA), nato durante la guerra civile in Algeria (1991-2002) e formato essenzialmente da tre componenti: i foreign fighters di ritorno dall’Afghanistan, i fuoriusciti del Movimento islamico armato (MIA) e alcuni giovani attivisti algerini che non avevano alcuna esperienza di guerriglia ma erano stati esposti alla predicazione nelle moschee. Nel corso degli anni, queste e altre componenti minoritarie del GIA sarebbero arrivate allo scontro fino a provocare la scissione del movimento. Da qui si sarebbe poi formato il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), ribattezzato nel 2017 al-Qaida nel Maghreb (AQIM), a cui è dedicato il secondo capitolo del libro.
Il caso del Mali settentrionale, analizzato nel capitolo successivo, fa luce sulle alleanze nate nelle regioni di Timbuctu, Kidal e Gao tra AQIM, i gruppi estremisti locali e alcuni politici maliani. L’esistenza di questa rete spinge Thurston a considerare i jihadisti attori politici a tutti gli effetti, nella misura in cui partecipano attivamente alle dinamiche politiche locali. Lo dimostrerebbe in modo esemplare la figura di Iyad al-Ghali, militante tuareg originario del Kidal, membro attivo della Jamā‘at al-Tablīgh maliana dal 1998 al 2011 e fondatore del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (MNLA) che negli anni ’90 ha guidato un’ondata di ribellioni tuareg. Durante la successiva mobilitazione rivoluzionaria del 2012 al-Ghali, che nel frattempo aveva abbandonato il MNLA e fondato il gruppo jihadista Ansar al-Din, legato ad al-Qaida nel Maghreb, si è ritagliato il ruolo di mediatore tra AQIM, il governo maliano e i governi europei nei negoziati per il rilascio degli occidentali presi in ostaggio dalle milizie.
Diversa è la situazione nel Mali centrale, dove il jihadismo ha contribuito all’etnicizzazione del conflitto (p. 191). Thurston spiega infatti come in questa parte del Paese siano sempre più diffuse la violenza jihadista ai danni dei rappresentanti dello Stato e delle forze straniere, gli scontri tra le comunità Peul per il controllo delle risorse naturali (acqua, pascoli e terre fertili) e i conflitti tra questa e altre comunità etniche, Bambara e Dogon in testa (p. 162). In questo contesto, il principale attore jihadista è Amadou Kouffa, un predicatore salafita appartenente al gruppo etnico Peul, che ha fatto leva sulla conflittualità tra le élite Peul e le “caste” più povere, scontente per l’esclusione dalle strutture locali di potere, per reclutare militanti e farli combattere contro i leader dei loro villaggi e le milizie jihadiste degli altri gruppi etnici.
Un altro caso presentato nel volume, trasversale ai singoli Paesi, è quello delle zone di confine, che i governi centrali preferiscono appaltare ad autorità locali, milizie e trafficanti. Queste terre, caratterizzate da una forte conflittualità endemica, costituiscono infatti un ecosistema perfetto per i jihadisti, che spesso si presentano alla popolazione autoctona nella veste di unici fornitori di servizi e garanti della sicurezza.
Thurston termina la sua disamina con il caso della Mauritania, entrata da qualche anno in una fase «post-jihadista» dopo essere stata oggetto di numerosi attacchi tra il 2005 e il 2011. Una tregua che è il risultato di un tacito accordo tra il governo mauritano e i jihadisti del Sahara: lo Stato si impegna a non intervenire nel Mali settentrionale e a tollerare i predicatori salafiti locali, in cambio i jihadisti si astengono dalla violenza o scelgono di emigrare nei Paesi limitrofi. La Mauritania costituisce un’eccezione, e il suo modello, spiega l’autore, non è esportabile essendo strettamente dipendente da due variabili locali: una popolazione poco numerosa (circa 4 milioni di abitanti secondo le stime del 2019) e la presenza di élite molto compatte e solidali tra loro.
Al di là della varietà dei contesti presi in esame, la tesi di fondo del libro è che la guerra al terrore è fallita. Nonostante l’Iniziativa Pan-Sahel lanciata nel 2012 dal Dipartimento di Stato americano e le operazioni Serval e Barkhane guidate dai francesi, l’Africa saheliana continua infatti a vivere momenti di forte instabilità legata alla presenza jihadista.
Thurston ritiene che i governi nazionali e occidentali debbano ri-orientare le loro scelte sicuritarie guardando ai jihadisti come attori politici e conoscitori delle micro-politiche locali e non semplicemente come «predatori ideologici che si fiondano su civili ignari negli Stati fragili e in preda a guerre civili» (p. 313). L’autore ritiene inoltre che i governi debbano imparare a convivere con una presenza jihadista residuale in loco, che la presenza massiccia di contingenti militari stranieri rischi di causare l’effetto opposto a quello desiderato e che a volte sia opportuno adottare la politica del male minore: meglio una tregua frutto del compromesso tra autorità e forze jihadiste, come nel caso mauritano (per quanto questo, in assoluto, non sia un esempio virtuoso), piuttosto che il caos in cui è precipitato il Mali.
Con Jihadists of North Africa and the Sahel Alexander Thurston si conferma un grande esperto del jihadismo africano. Il libro, dal taglio spiccatamente accademico, è una miniera di informazioni molto dettagliate – l’esito di dieci anni di studio sul campo, spiega l’autore nella sua introduzione – e costituisce una risorsa fondamentale per chi si occupa di una regione del mondo spesso trascurata ma molto rilevante per le dinamiche geopolitiche future.
Chiara Pellegrino
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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