Investire per Dio. Quando fondò i Fratelli Musulmani, Hasan al-Banna aveva chiaro che dovevano essere “un’impresa economica” tanto quanto un’organizzazione religiosa, politica e culturale. L’analisi di un grande esperto di Islam politico, pur formulata prima della rivoluzione, illumina l’attualità.
Ultimo aggiornamento: 19/12/2024 09:37:53
L’associazione dei Fratelli musulmani si è interessata all’ambito economico sin dalla sua fondazione. Anche dal punto di vista teorico, il fondatore della Fratellanza, l’imam Hasan al-Banna, riteneva che la sua associazione dovesse essere «un’impresa economica» allo stesso modo in cui era «una predicazione salafita, una confraternita sunnita, una realtà sufi, un’organizzazione politica, un gruppo sportivo, una lega scientifica e culturale, un pensiero sociale». Sul piano pratico, al-Banna si orientò molto presto verso la creazione di numerose società e imprese economiche. La loro caratteristica fondamentale era quella di essere o direttamente collegate alla missione dei Fratelli e al loro sforzo di trasmetterla (era il caso della casa editrice dei Fratelli musulmani) oppure di riconnettersi alla loro visione islamica complessiva; in questo senso erano quanto mai prossime a un progetto di liberazione nazionale a fondamento islamico. Di questa scelta si può trovare riscontro nella tipologia degli investimenti per i quali optarono le società dei Fratelli, come la società mineraria o la società dei filati e dei tessuti, fondata all’epoca in cui l’Egitto era un fornitore di cotone grezzo fondamentale per le industrie britanniche.
Non si sa con precisione se la proprietà di tali società e imprese economiche fosse della Fratellanza, come dichiararono le autorità che le requisirono dopo lo scioglimento dell’associazione del 1948, o se, come affermava lo stesso al-Banna negli scritti composti poco prima della sua uccisione (nel libro La nostra questione), fossero proprietà personali di alcuni membri della Fratellanza, o ancora se si trattasse di un regime misto. In ogni caso non va dimenticato che all’epoca il regime giuridico dell’associazione le permetteva di detenere la proprietà di queste imprese e di partecipare all’attività economica senza timori o impedimenti legali.
Tra Nasser e Sadat
La rivoluzione scoppiò nel luglio 1952 e l’intesa tra i capi rivoluzionari e la Fratellanza non ebbe vita lunga. Lo scontro violento e la rottura finale ebbero luogo nel 1954, quando il Consiglio Direttivo della Rivoluzione emise un decreto di scioglimento dell’associazione e di confisca delle sue sedi e proprietà. Al decreto seguì il primo dei due grandi colpi (1954 e 1966) inferti ai danni della Fratellanza e che provocarono una scomparsa quasi totale dalla vita pubblica. Nel periodo nasseriano non possiamo parlare di attività o di imprese economiche dell’associazione o dei singoli Fratelli. L’attività economica si limitava alla raccolta di fondi e donazioni all’interno e all’esterno del Paese per provvedere ai bisogni delle famiglie dei carcerati e dei detenuti. Molti imprenditori e uomini d’affari preferirono prendere le distanze dall’associazione, mentre si riduceva il numero dei Fratelli attivi negli investimenti nelle maggiori imprese e società economiche, in particolare nella società Al-muqâwilîn al-‘arab, The Arab Contractors. Quest’ultima era stata fondata dal defunto ingegnere ‘Othmân Ahmad ‘Othmân, che aveva ottimi rapporti con la Fratellanza per via delle sue relazioni di vecchia data con l’associazione, risalenti a prima della Rivoluzione: a molti dei suoi membri aveva offerto sostegno finanziario e si era servito di alcuni di loro nei suoi progetti fuori Egitto, in particolare in Libia e in Arabia Saudita. Da ultimo aveva ricevuto un grosso sostegno da parte dell’élite dei Fratelli che si era stabilita nel Golfo.
Possiamo notare che, in questo periodo, tra le centinaia di Fratelli che emigrarono o fuggirono dal Paese, alcuni erano noti per le loro attività economiche e nell’ambito degli investimenti.
Per questi membri della Fratellanza lasciare l’Egitto rappresentò l’occasione per costruire società e imprese economiche di successo. La morte del presidente Gamal ‘Abd al-Nasser e l’ascesa al potere di Anwar Sadat segnarono la fine di un’epoca che era stata caratterizzata in particolare dal ruolo centrale dello Stato nell’economia. Sadat avviò quella che sarebbe diventata nota come politica dell’apertura (infitâh): come effetto di questa politica, lo Stato si ritirò da numerosi e importanti settori dell’economia. A colmare il vuoto ci pensò una classe di imprenditori e uomini d’affari tra i più importanti degli anni ’70, tra i quali ebbero una parte rilevante i Fratelli musulmani emigrati. Le politiche di apertura attrassero infatti i capitali dei Fratelli espatriati, che vennero reinvestiti in numerosi ambiti: innanzitutto in quelli rimasti scoperti dall’arretramento dello Stato e in secondo luogo per rispondere alla grande domanda di beni di consumo propria dell’Egitto di quegli anni. Gli investimenti dei Fratelli e più in generale degli islamisti si concentrarono in molti settori in cui lo Stato risultava carente e necessitava dell’intervento privato. A titolo d’esempio si può elencare il settore delle abitazioni, in crisi profonda per l’incapacità statale di rispondere alla domanda derivante dalla crescita demografica esponenziale, il settore della sanità, privo di un’infrastruttura forte fatta di ospedali e strutture mediche statali, quello dell’istruzione ufficiale, che viveva una decadenza tale da non offrire più o quasi un livello accettabile, il settore dei trasporti e delle comunicazioni, anch’esso sul punto di collassare, e quello dei beni alimentari, colpiti da una forte penuria, e insomma tutti i settori dei servizi e dei beni di consumo toccati dall’esplosione demografica e dalla rapida ritirata dello Stato.
Uno sviluppo benedetto
Dalla fine degli anni ’70 – inizio degli anni ’80 i capitali espatriati dei Fratelli o da loro creati all’estero presero a tornare in patria; cominciò a costituirsi una classe di imprenditori e investitori membri della Fratellanza e apparve una rete di strutture e società economiche strettamente legata ad essa. Emersero inoltre, e conobbero uno sviluppo prodigioso, società edili e di investimento immobiliare, enti assistenziali e di servizi sanitari (soprattutto nell’ambito farmaceutico e degli strumenti e delle apparecchiature mediche), strutture educative private (scuole e agenzie educative), società di import e società specializzate nel mercato automobilistico e dei beni alimentari.
Successivamente gli investimenti dei Fratelli avrebbero investito il settore turistico (soprattutto quello religioso, legato all’aumento della pratica devozionale e all’incremento del pellegrinaggio alla Mecca, hajj e ‘umra), del management, dello sviluppo e della formazione, l’ambito dell’elettronica e della tecnologia dell’informazione e altri compartimenti legati alle necessità di una società egiziana che andava aprendosi al mondo. Ad assumere l’iniziativa in questi nuovi settori fu l’ingegner Khayrat al-Shâtir[1], tra i primi imprenditori dei Fratelli musulmani a entrare nel ramo del management (fondò il Centro Al-Umma alla fine degli anni ’80) e poi dell’informatica (Società Salsabîl). A differenza degli investimenti economici dei Fratelli musulmani al tempo del fondatore Hasan al-Banna, che erano parte di un progetto di indipendenza nazionale (la creazione di una società di filati e tessuti ai tempi dell’occupazione britannica può essere assimilata alla decisione di nazionalizzare il canale di Suez!), all’epoca dell’infitâh le attività dei Fratelli assunsero un carattere consumistico, ciò che emergerà con più chiarezza con lo sviluppo del grande settore delle società immobiliari dei Fratelli a partire dagli anni ’70 e con gli investimenti nell’edilizia di lusso e nei villaggi turistici che andavano moltiplicandosi lungo la costa settentrionale.
Nonostante gli ultimi due decenni abbiano visto la formazione di una classe di imprenditori e uomini d’affari dei Fratelli musulmani o islamisti di altra tendenza e benché tale classe influenzi l’economia egiziana, com’è il caso ad esempio per le società di investimento finanziario, essa non è riuscita a conferire un carattere istituzionale alla propria presenza o a dar vita a entità economiche visibili, sull’esempio di quanto avvenuto un Paese come la Turchia, dove Najm al-Dîn Arbakân e gli imprenditori islamisti per lo più di origine anatolica (Unione degli imprenditori e degli artigiani indipendenti o Müsiad), sono diventati il braccio economico dell’AKP ora al governo e controllano il 12% dell’economia del Paese. Che ciò dipenda da cause legate alla struttura della comunità imprenditoriale e finanziaria islamista o piuttosto dal clima politico egiziano che non consente l’emergere di tali raggruppamenti, il risultato è stato comunque uno solo: una scarsa incidenza del gruppo degli imprenditori e uomini d’affari nel processo di decisione politica dei Fratelli musulmani, per non parlare di quello politico più generale. In questo senso l’ingegner Khayrat al-Shâtir rappresenta l’eccezione più evidente. Conosciuto per i suoi successi negli affari e nell’impresa, è dotato di capacità organizzative superiori, che lo hanno condotto al vertice della piramide organizzativa dell’associazione (è uno dei due vicari della guida suprema) e hanno fatto di lui il primo esponente della dirigenza a unire forza economica e potere decisionale.
Khayrat al-Shâtir è più di un imprenditore e anche più di un semplice dirigente dotato di una capacità di visione per quanto riguarda lo sviluppo dell’associazione e la sua riforma interna. È un insolita miscela dei due elementi, ed è vero quanto si dice sulla sua eccezionalità in termini di posizione e influenza nella Fratellanza.
Vile denaro
Per molteplici ragioni molti faticano a valutare esattamente il potere economico dei Fratelli musulmani. La messa al bando della Fratellanza nel 1954 impedisce di conoscere con esattezza il numero dei membri e il dettaglio di chi vi aderisce o ne esce, soprattutto se si considerano le tante voci che circolano negli ambienti imprenditoriali e la ritrosia che gli imprenditori naturalmente hanno a rivelare alleanze, reti e relazioni, e a maggior ragione legami politici. E se il capitale è vigliacco, come afferma un detto molto diffuso, i suoi detentori, chi più chi meno, condividono questa caratteristica.
Pare che l’assenza di precisione nella valutazione del potere economico della Fratellanza dipenda dalla confusione tra l’associazione e i suoi membri e di conseguenza tra le risorse e gli investimenti della prima e quelli dei secondi. È questa l’origine del diffuso errore nel valutare il peso economico della Fratellanza.
Il fatto è che, in particolare dopo la messa al bando seguita alla Rivoluzione [degli ufficiali liberi nel 1952, N.d.R.], i Fratelli non hanno più avuto, in quanto organizzazione, investimenti propri, se non per una tipologia specifica di attività caratterizzate da capitali limitati e connesse alla natura missionaria dell’associazione in quanto realtà votata alla predicazione. Questo dà alle attività economiche della Fratellanza un valore simbolico molto superiore al loro peso economico, come per esempio accade con la rete della scuole private islamiche o con le case editrici islamiche la cui proprietà effettiva è riconducibile all’associazione pur essendo registrate a nome di questo o quell’esponente di spicco o dirigente. Anche in questo ambito comunque la situazione ha conosciuto un’evoluzione, e sono comparsi, soprattutto nell’ambito dell’editoria e dell’educazione, realtà di proprietà di singoli membri e non dell’associazione.
La quota per il bene comune
Se abbiamo detto che questi beni e attività non sono riconducibili all’associazione in quanto organizzazione poiché la proprietà dei singoli imprenditori è effettiva e non solo un paravento legale, non si può negare che essi rappresentino comunque una riserva di forza e di possibilità finanziarie per la Fratellanza. Ciò avviene in particolare attraverso la percentuale mensile che gli imprenditori versano come membri attivi nell’associazione (può raggiungere l’8% delle entrate totali mensili) o attraverso contributi particolari degli imprenditori e uomini d’affari, noti come “quota della predicazione”. Essa costituisce un impegno volontario del membro attivo in ambito economico, prossima all’offerta personale sotto forma di donazione all’associazione o di finanziamento di una delle sue attività o sovvenzione di qualche sua opera o comitato interno.
Può capitare che l’associazione sponsorizzi alcuni dei suoi membri o più precisamente incoraggi le iniziative di alcuni dei suoi membri tra quelli che operano in ambito finanziario o imprenditoriale spingendoli a investire in settori utili per l’associazione, in quanto organizzazione o in relazione alla sua missione. Ma questo non fa di tali attività proprietà dell’associazione né rende la proprietà di quei membri un paravento. È il caso per esempio della Bank al-Taqwà e dei suoi investimenti. La banca è stato un progetto specifico in gran parte condotto da membri della Fratellanza, alcuni dei quali anche di alto grado. Quest’ultima non aveva partecipazione diretta nella banca, pur avendo incoraggiato quei membri/investitori a dedicarsi ad attività di questo tipo. Esse infatti davano concretezza al desiderio di creare e diffondere istituti di credito islamici capaci d’incarnare quella che la Fratellanza considera la forma islamica ideale dell’attività bancaria.
Paradossalmente, la confusione tra le proprietà dell’associazione in quanto tale e le proprietà dei suoi membri che operano nella finanza e nell’impresa non deriva solo dalle campagne condotte contro la Fratellanza da parte di nemici politici e ideologici interessati a colpire l’associazione e i suoi poteri economici, ma molto spesso proviene anche da imprenditori e uomini d’affari interni alla stessa associazione che vogliono promuovere alcuni progetti dando loro legittimità e popolarità attraverso tutto ciò che la Fratellanza rappresenta in termini di presenza e diffusione in molti strati e classi sociali target di ogni investitore o imprenditore. Capita a volte che il legame tra il denaro dei membri della Fratellanza e la loro associazione intervenga quando si tratta di liberarsi da impegni finanziari non più sostenibili, nel momento in cui un’attività fallisce. La perdita è allora motivata con il fatto che l’attività è “destinata alla predicazione”! Talvolta invece tale legame serve ad alleggerire la pressione, soprattutto quando la Fratellanza cade vittima di persecuzione politica o di polizia.
* Articolo pubblicato sul quotidiano «al-Akhbâr» del 23 luglio 2009 con il titolo Qirâ’ fî sîra ra’s al-mâl al-Ikhwân al-Muslimîn (Lettura sul percorso del capitale dei Fratelli Musulmani)