Se sul piano sanitario le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo sono riuscite a limitare i danni causati dal Coronavirus, le loro economie sono state colpite in profondità dalla crisi pandemica.
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 10:39:15
Se sul piano strettamente sanitario le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo sono riuscite a limitare i danni causati dal Coronavirus, le loro economie sono state colpite in profondità dalla crisi pandemica. Oltre a innescare il crollo dei prezzi degli idrocarburi, la recessione globale causata dal COVID-19 rischia infatti di compromettere i progetti di emancipazione dalla rendita petrolifera lanciati negli ultimi anni dalle famiglie regnanti della regione.
La pandemia di COVID-19 ha avuto un impatto profondo e articolato sulle monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Per quanto riguarda nello specifico la crisi sanitaria, la combinazione tra misure preventive e solidità dei sistemi sanitari ha aiutato i Paesi del GCC a contenere il numero delle vittime, con meno di 19.000 morti su 2.440.000 casi (dati aggiornati al 15 agosto 2021)[1]. Le monarchie si sono mosse rapidamente anche sui vaccini, garantendosi consistenti forniture di dosi. Questo ha fatto sì che le popolazioni dei Paesi più piccoli, come gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e il Bahrain, siano tra le più vaccinate al mondo.
Se gli Stati del GCC sono riusciti a limitare i danni del Coronavirus, l’impatto economico della pandemia ha messo alcune monarchie sotto forte pressione. Per un’ironia della sorte, la recessione globale ha colpito proprio mentre esse stavano perseguendo ambiziosi programmi politico-economici, le cosiddette Vision, volti a diversificare le loro economie e ridurre l’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili. Nel Golfo, il COVID-19 ha innescato un “doppio shock”. Da un lato, le restrizioni di salute pubblica, il divieto di viaggiare e le chiusure hanno limitato profondamente la circolazione delle persone, portando settori chiave delle Vision come i trasporti, l’intrattenimento e il turismo ai minimi storici. Dall’altro, la recessione economica globale ha innescato il crollo dei listini del petrolio: a marzo 2020 i prezzi del Brent e del WTI sono precipitati per poi stabilizzarsi intorno ai 40 dollari al barile da giugno 2020 in avanti. Ciò è stato particolarmente problematico per il Golfo, dal momento che gli idrocarburi contribuiscono a quote di PIL che vanno dal 30% degli Emirati Arabi Uniti (EAU) a circa il 60% di Arabia Saudita e Qatar, mentre la rendita petrolifera copre dal 60% del bilancio dello Stato degli Emirati al 90% di Kuwait e Qatar[2]. Nel complesso, la contrazione, nel 2020, del 30% del prezzo del greggio ha devastato le finanze pubbliche dei Paesi del GCC dipendenti dal petrolio e reso impossibili gli investimenti necessari ad attuare le loro Vision, proprio quando il senso di queste ultime – generare entrate non petrolifere – era chiarissimo[3].
Ideate a partire dagli anni 2000, le varie Vision hanno l’obiettivo di creare un’economia privata dinamica, capace di sostituire un sovradimensionato settore pubblico quale principale fonte di occupazione per i cittadini, in particolare per i giovani adulti, che costituiscono più del 60% della popolazione totale della regione. La precedente battuta d’arresto del mercato energetico globale (2014-2016) aveva convinto i monarchi del Golfo ad accelerare questi piani di transizione economica attraverso una revisione delle spese fiscali, in particolare dei sussidi, e attraendo maggiori investimenti nel settore privato. Poi è arrivato il COVID.
Oltre al doppio shock, la pandemia ha posto le Vision di fronte a una più ampia serie di sfide. Insieme agli investimenti nazionali, gli investimenti diretti esteri (IDE) svolgono infatti un ruolo fondamentale nel finanziamento di questi progetti. La recessione globale ha però portato a una contrazione del 42% degli IDE nel 2020[4]. Con la pandemia sono venuti meno i presupposti di un clima imprenditoriale internazionale dinamico e ricettivo, indispensabile per permettere alle Vision di globalizzare ulteriormente le economie del Golfo. L’elemento forse più significativo, tuttavia, è che questo “doppio shock” ha inciso in modo diverso in ciascuno dei Paesi del GCC.
Arabia Saudita
Lanciata nell’aprile 2016 dal principe ereditario Muhammad bin Salman Al Sa‘ud (MbS), la Vision 2030 è un ambizioso programma di sviluppo del settore privato, parziale privatizzazione delle aziende statali, aumento del numero di cittadini sauditi impiegati nel settore privato e modernizzazione della società. A tal fine, il governo sta spingendo per diversificare l’economia privata scommettendo su settori come l’energia, il turismo, i trasporti, l’intrattenimento, l’immobiliare, la finanza e l’high-tech. Tra le sue riforme economiche, l’Arabia Saudita ha anche iniziato a introdurre delle imposte e a razionalizzare la spesa pubblica tagliando i sussidi al carburante, al gas, all’elettricità e all’acqua desalinizzata[5]. Si è invece fatta marcia indietro sui tagli agli stipendi pubblici attuati nel 2016 a causa del diffuso malcontento che questi avevano suscitato. Inoltre, il principe ereditario ha dedicato un’attenzione particolare ai megaprogetti, tra cui la futuristica città di Neom, i siti turistici di al-Ula, Dir‘iyya, Amaala e gli altri progetti sul Mar Rosso, e la città del divertimento Qiddiya[6].
Finora, la Vision 2030 ha deluso le aspettative. L’afflusso di 500 miliardi di dollari di IDE previsto per il decennio 2020-2030 sembra fuori portata visto che il Paese ha raccolto appena 25,8 miliardi di dollari tra il 2015 e il 2019[7]. Com’era prevedibile, il doppio shock del COVID ha posto un altro ostacolo sulla via della diversificazione. Nel maggio 2020, il governo ha annunciato un taglio di 8 miliardi di dollari ai progetti della Vision 2030 all’interno di un più ampio pacchetto di austerità che prevedeva la riduzione delle indennità dei dipendenti pubblici e l’aumento dell’IVA, introdotta recentemente, dal 5% al 15%[8]. La combinazione tra calo degli investimenti e chiusure ha così bloccato i megaprogetti di MbS, trasformandoli in potenziali cattedrali nel deserto[9]. Le restrizioni sanitarie hanno imposto un pesante tributo anche al turismo. Il blocco dei viaggi internazionali ha fermato i turisti stranieri per tutto il 2020 e il 2021. Inoltre, il turismo religioso alla Mecca e Medina, che fa la parte del leone del settore con circa 2,5 milioni di pellegrini l’anno, è stato quasi azzerato: soltanto 1.000 pellegrini sono stati autorizzati a effettuare l’Hajj nel 2020 e 60.000 nel 2021[10].
Oltre alle misure di austerità, il principe ereditario ha attinto alle risorse dello Stato per risollevare l’economia saudita e la Vision 2030. A marzo 2021, MbS ha annunciato la creazione di “Shareek”, un fondo societario in cui ventiquattro società pubbliche verseranno 1.300 miliardi di dollari per sostenere l’economia saudita nei prossimi dieci anni. Tra di esse, la compagnia petrolifera nazionale ARAMCO ha già raccolto decine di miliardi dalla vendita di obbligazioni internazionali e diritti di leasing. Soprattutto, però, il Fondo d’Investimento Pubblico (PIF), il fondo sovrano più grande del Regno, si è impegnato a investire 40 miliardi di dollari all’anno nella Vision 2030, anche se la strategia 2021-2025 del PIF rimane piuttosto vaga sui principali megaprogetti[11]. Il rimbalzo dei prezzi del petrolio nel 2021 è una buona notizia per le malconce casse saudite e serve a ricordare quanto siano ancora importanti per il Paese prezzi del greggio stabili e un ruolo di leadership nell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) e nella sua importante versione estesa alla Russia, l’OPEC+.
In questo contesto, la leadership di Mohammad bin Salman è legata al successo della Vision 2030. Sebbene i giovani sauditi sostengano ampiamente le riforme economiche, i risultati del programma in termini di creazione di posti di lavoro sono al di sotto delle aspettative. Tassi di occupazione marginalmente più elevati derivano generalmente dalla “saudizzazione” forzata di un numero crescente di professioni, il processo con il quale le autorità statali impongono ai datori di lavoro l’assunzione di quote di cittadini sauditi. Se il principe ereditario non manterrà la promessa di creare abbastanza posti di lavoro per una popolazione prevalentemente giovane, il malcontento popolare potrebbe diffondersi rapidamente, soprattutto se si considera l’aumento del costo della vita alimentato dall’IVA al 15% e dalla riduzione dei sussidi e delle indennità. Anche i lavoratori del settore privato hanno dovuto sopportare il peso delle misure di austerità resesi necessarie per resistere al doppio shock, dopo che il regno aveva consentito alle aziende di tagliare fino al 40% degli stipendi dei dipendenti e aveva allentato le regole per il licenziamento. Se considerati dalla prospettiva degli obiettivi della Vision 2030, questi due fattori sono stati particolarmente controproducenti in quanto hanno reso ancora meno attraente agli occhi dei sauditi l’impiego nel settore privato. Alla luce di questi elementi macroeconomici di base e di una ripresa economica lenta dopo il COVID, la Vision 2030 difficilmente darà frutti nonostante i grandi investimenti statali.
Emirati Arabi Uniti
La Vision 2021 degli Emirati Arabi Uniti punta a creare un’economia della conoscenza incentrata su scienza e tecnologia. Manifattura, energie rinnovabili, logistica e turismo sono le grandi priorità ma, rispetto agli altri programmi, la Vision 2021 pone un’attenzione specifica alle piccole e medie imprese e all’imprenditoria locale[12]. Inoltre, a differenza dei progetti degli altri Paesi, la Vision 2021 funge più da ombrello federale visto che i centri economici della federazione, Abu Dhabi e Dubai, perseguono a loro volta le proprie Vision parallele. Il COVID ha inciso inevitabilmente su tutte.
Dal punto di vista della salute pubblica, i cittadini emiratini sono complessivamente soddisfatti della risposta dello Stato al COVID-19: le autorità pubbliche sono riuscite a mantenere relativamente basso il tasso di mortalità e a garantire rapidamente le forniture di vaccini (principalmente Sinovax e Pfizer), facendo degli Emirati il Paese con il più alto tasso di vaccinazioni al mondo[13]. Sul versante economico, invece, il PIL ha toccato un record negativo del –6,1% nel 2020, trascinato al ribasso sia dal settore petrolifero che da quello non-petrolifero. Mentre il calo della rendita petrolifera ha comportato il ridimensionamento di settori come quello immobiliare e delle costruzioni, che dipendono ancora dai finanziamenti pubblici, le restrizioni sanitarie hanno colpito pesantemente i trasporti, la logistica e il turismo[14]. La risposta delle autorità federali e di quelle dei vari emirati è consistita in linee di credito e pacchetti fiscali per 8,7 miliardi di dollari[15]. Grazie alle sue risorse finanziarie e alle riserve preesistenti degli Emirati, il doppio shock generato dal COVID non ha mai veramente minato la loro posizione economica complessiva e, secondo le previsioni, il rimbalzo del prezzo del petrolio avvenuto nel 2021 farà crescere il PIL del 2,5%[16].
Nonostante il relativo successo degli Emirati Arabi Uniti, la pandemia ha portato alla luce alcune fragilità. Come nel caso dell’Arabia Saudita, anche la Vision 2021 ha puntato su diversi megaprogetti, ma alcuni di questi, come l’aeroporto al-Maktoum e l’isola artificiale Palm Jebel Ali, sono rimasti incompiuti o sono stati abbandonati a causa del rallentamento degli investimenti esteri degli ultimi anni[17]. La pandemia ha inoltre costretto le autorità di Dubai a posticipare l’EXPO alla fine del 2021, mentre tutti i sedici megaprogetti locali che avrebbero dovuto essere lanciati nel 2020 toccano settori profondamente colpiti, come il turismo e l’intrattenimento[18]. Si sta rivelando inefficace anche la politica di “emiratizzazione” tesa a spingere più cittadini verso il settore privato, perché le aziende trovano spesso modi per aggirare le regole[19].
Un’altra minaccia alle Vision degli Emirati è costituita dalla concorrenza interna ed esterna. A livello nazionale, Abu Dhabi, che dipende dal petrolio, sta cercando di espandere la propria economia negli stessi settori in cui investe Dubai, creando dei doppioni: due compagnie aeree internazionali (Emirates ed Etihad), due compagnie di logistica marittima (Dubai Ports World e Abu Dhabi Ports) e due centri finanziari[20]. Inoltre, in tutto il Paese sono state istituite oltre quaranta zone di libero scambio, a dimostrazione di come i sette emirati facciano a gara per attirare le imprese straniere[21]. Per giunta, cresce anche la concorrenza tra i Paesi del Golfo. L’Arabia Saudita sta cercando di soppiantare gli Emirati come centro economico regionale e il Qatar si sta espandendo nel settore finanziario. Non a caso Abu Dhabi e Dubai stanno riducendo le tasse e allentando le leggi sulla proprietà straniera per salvaguardare la loro capacità di attrarre le imprese[22].
Qatar
Lanciata nel 2008, la Vision 2030 del Qatar si fonda su quattro pilastri, sviluppo umano, economico, sociale e ambientale, che rispecchiano di fatto le agende globali. La Vision punta anche sulla “qatarizzazione” dell’occupazione, così da agevolare la transizione della giovane generazione di qatarioti dagli impieghi pubblici a quelli privati[23].
Il Qatar è stata la monarchia del Golfo in cui gli effetti del COVID-19 sono stati meno profondi. Come nel caso degli Emirati, anche il Qatar ha avuto un numero elevato di casi (81.884 per milione di abitanti), ma grazie ai tamponi, al tracciamento e alle restrizioni alla libertà di movimento il tasso di mortalità è rimasto basso[24]. Inoltre, anche lo shock macroeconomico è stato più contenuto rispetto alle altre monarchie del Golfo, con un calo del PIL del 3,7% e un deficit che non ha superato il 2% del PIL. Ciò è stato possibile perché l’industria qatarina degli idrocarburi non si fonda sul petrolio ma sul gas naturale liquefatto (GNL), il cui prezzo è rimasto stabile per tutto il 2020. Tuttavia, i divieti di spostamento e i lockdown hanno danneggiato i settori del turismo, dell’intrattenimento e del commercio, causando circa due terzi del calo complessivo del PIL. Per far fronte a questa situazione, Doha ha attuato una serie di misure di stimolo macroeconomico pari circa al 14% del PIL[25]. All’inizio del 2021 il settore non petrolifero aveva già mostrato segnali di ripresa, con tendenze positive nella creazione di posti di lavoro e nelle acquisizioni di imprese.
Venendo alla Vision 2030 del Qatar, la crisi del COVID non ne ha ostacolato la realizzazione: al contrario, i governanti del Qatar hanno deciso di accelerare la transizione come parte della loro strategia di contrasto dello shock economico. Il governo ha raddoppiato i progetti infrastrutturali, in particolare quelli legati ai Mondiali di calcio del 2022, che sono un fattore chiave della diversificazione economica. I dati indicano che l’incidenza del settore degli idrocarburi sul PIL è diminuita, passando dal 35,9% nel 2019 al 28,7% nel 2020[26]. Per i dirigenti del Qatar, riuscire a realizzare la Vision 2030 è anche una questione politica. La capacità del Paese di sopravvivere al boicottaggio economico imposto nel 2017 dagli Emirati, dall’Arabia Saudita e dal Bahrain ha infatti rafforzato il senso di lealtà dei cittadini verso la loro leadership e l’orgoglio nazionale. Per continuare a promuovere la narrazione utilizzata in quell’occasione, fatta di resilienza, capacità di adattamento alle circostanze difficili e autonomia, occorre saper realizzare la diversificazione e preservare le forze che sostengono la stabilità politica del Paese.
Il doppio shock innescato dal COVID-19 ha inciso maggiormente sulla politica estera del Qatar. Già nel 2017 Doha aveva rivisto il suo approccio regionale assertivo e da allora privilegia gli strumenti del soft power, tra cui adesso la diplomazia sanitaria, per coltivare relazioni bilaterali fondamentali. Lo ha dimostrato l’invio di vaccini e di forniture mediche anti-COVID in Iran, Libano e Tunisia, tutti teatri interessanti per il Qatar dal punto di vista geopolitico[27].
Kuwait
Dopo una grave battuta d’arresto nel 2011, il Kuwait ha lanciato nel 2017 la Vision 2035 per trasformare la monarchia in un polo commerciale e finanziario regionale. La Vision kuwaitiana privilegia i settori dell’informatica, della finanza islamica, dell’elettricità e dell’acqua, della sanità e dell’istruzione, con l’obiettivo di portare il contributo del settore privato ai progetti di sviluppo dal 10% al 60-70%[28]. Ufficialmente la strategia mira a migliorare un ambiente imprenditoriale poco favorevole, allineare le competenze dei giovani al mercato del lavoro e aumentare gli investimenti diretti esteri del 300%.
Quando è scoppiato il COVID-19, il Kuwait ha applicato pesanti restrizioni alla libertà di movimento e decretato lunghi lockdown per frenare il contagio. Il Paese, tuttavia, continua a essere in ritardo con la campagna di vaccinazione rispetto agli Emirati, al Bahrain e al Qatar. Solo il 56,5% della popolazione ha ricevuto una dose mentre non sono stati comunicati i dati sulle seconde dosi[29]. Essendo la monarchia del Golfo più dipendente dal petrolio, il Kuwait ha risentito fortemente dello shock dei prezzi del petrolio, che ha provocato un calo del PIL del 9,9% nel 2020[30]. Lo scorso anno il deficit pubblico si è impennato del 175% e secondo le previsioni rimarrà elevato anche nel 2021-2024, mentre il pacchetto di sostegno fiscale è stato tutto sommato abbastanza esiguo[31]. Il governo ha problemi ad attingere alle sue riserve o a emettere obbligazioni a causa delle intricate controversie politiche e delle limitazioni legate a entrambe le questioni. In questo contesto le agenzie internazionali di rating hanno declassato di un punto il Kuwait (da AA- ad A+). L’impatto dei lockdown sull’economia privata ha colpito ampiamente i lavoratori immigrati, molti dei quali sono stati costretti a lasciare il Paese. Per giunta, i lavoratori immigrati sono diventati il bersaglio di sentimenti xenofobi diffusi, con ampi segmenti della popolazione kuwaitiana che consideravano i lavoratori stranieri vettori del COVID-19 e un onere per le casse dello Stato[32].
A differenza delle altre monarchie del Golfo, inoltre, in Kuwait il doppio shock è andato di pari passo con una profonda crisi politica. Nella sua storia recente il Paese si è spesso trovato in un’impasse. Il parlamento (l’Assemblea nazionale) si è più volte scontrato con i governi nominati dall’emiro e questo ha provocato il frequente scioglimento di entrambi, soprattutto dal 2006 in avanti. Le riforme economiche in particolare hanno sempre incontrato l’opposizione radicale dell’Assemblea nazionale, fortemente contraria al ridimensionamento del welfare e alla diminuzione dei posti di lavoro nel settore pubblico. In effetti, il Kuwait continua a spendere circa 13.000 dollari pro capite per il welfare, l’importo più alto nel Golfo[33].
L’anno scorso l’opposizione parlamentare ha impedito al governo di indebitarsi sul mercato internazionale e di accedere ai fondi del Future Generations Fund, accusandolo di corruzione. Ora lo stallo politico blocca la nomina del Consiglio di Amministrazione del Kuwait Investment Authority, il fondo sovrano che nel 2020 ha tenuto a galla il bilancio dello Stato, e questo mette ulteriormente in pericolo la stabilità fiscale del Paese[34]. La strada da percorrere non sembra facile: alle elezioni parlamentari del dicembre 2020 i candidati populisti e islamisti dell’opposizione hanno ottenuto 24 dei 50 seggi in palio e il nuovo emiro, Nawaf al-Ahmad Al Sabah, che non ha la stessa capacità di leadership del predecessore, non è stato in grado di tenere a freno lo scontro tra i parlamentari dell’opposizione e il suo governo. In un contesto così instabile, la Vision 2035 non può essere una priorità politica per la leadership del Kuwait, nonostante le preoccupanti tendenze macroeconomiche.
Come altre Vision del Golfo, anche quella del Kuwait fa leva sugli investimenti in grandi progetti infrastrutturali, come il Northern Gulf Gateway[35]. Tuttavia, nell’ultimo decennio l’opposizione parlamentare descritta poc’anzi e il clientelismo ne hanno rallentato la realizzazione, e la transizione del Paese non sta realmente avanzando. Silk City, per esempio – uno dei progetti principali della Vision 2035 – non attrae investimenti e rischia di diventare un’altra costosa cattedrale nel deserto[36]. Oggi il Kuwait è la monarchia del Golfo che attrae il minor numero di investimenti esteri e si è classificato alle spalle di tutte le altre monarchie nel rapporto Doing Business della Banca Mondiale. La quantità di posti di lavoro non è cresciuta negli ultimi vent’anni[37]. Ora il doppio shock generato dal COVID e lo stallo politico potrebbero portare il Paese e la sua popolazione alla stagnazione finale.
Bahrein
Benché gli sforzi di diversificazione risalgano agli anni ’90, il Bahrein ha avviato la sua Vision 2030 nel 2009 con l’obiettivo di incrementare il reddito delle famiglie e dare lavoro alla sua giovane popolazione in crescita. Il settore finanziario e quello edile sono prioritari insieme all’informatica, al turismo e al tempo libero. Più specificamente, la Vision 2030 del Bahrein promuove un uso più sostenibile delle risorse scarse, in particolare della terra, da parte del settore privato[38].
Come gli altri Stati del GCC, il Bahrein ha gestito bene gli aspetti di salute pubblica relativi al COVID-19, distinguendosi come uno dei Paesi più efficaci nell’affrontare la pandemia in Medio Oriente. Ha registrato uno dei più bassi tassi di mortalità nella regione e si è classificato tra i Paesi con il più alto tasso di vaccinazione del mondo[39].
Le ricadute economiche della pandemia, tuttavia, sono state drammatiche per la più piccola delle monarchie del Golfo. L’economia ha subito una contrazione del 5,8% nel 2020 e di un ulteriore 2,1% nei primi mesi del 2021[40]. A differenza dell’Arabia Saudita e del Kuwait, l’economia del Bahrain non dipende eccessivamente dal petrolio, ma si fonda su un settore non petrolifero piuttosto sviluppato, che lo scorso anno ha registrato un calo del 7%[41]. Sin dagli anni ’90 Manama ha ampliato il settore del turismo e del commercio al dettaglio, attirando ogni anno migliaia di visitatori dai Paesi limitrofi, grazie alle sue regole sociali permissive. Anche la logistica è importante visto che la monarchia rappresenta una porta di ingresso nel Nord del Golfo[42]. Le restrizioni sanitarie hanno messo a dura prova tutti e tre questi settori.
Ma l’economia era già fragile. Scarsa crescita e disoccupazione giovanile elevata sono problemi che precedono la pandemia e che dal 2014 sono complicati dai bassi prezzi del petrolio. Nonostante la diversificazione del PIL, circa il 70% del bilancio dello Stato continua a provenire dalla rendita petrolifera e il Paese ha il prezzo di pareggio più alto del Golfo, 88 dollari al barile[43]. Di conseguenza, il Bahrain ha dovuto cercare il sostegno finanziario dei suoi vicini più ricchi, che nel 2018 hanno concesso un prestito pluriennale di 10 miliardi di dollari a Manama, la quale si è impegnata ad adottare misure di consolidamento fiscale, come l’IVA al 5% introdotta recentemente[44]. L’anno scorso, però, il principe ereditario e primo ministro Salman bin Ahmad Al Khalifa ha deciso di sostenere l’economia privata con un efficace pacchetto di stimolo del valore del 7% del PIL, ricorrendo a ulteriore indebitamento[45]. Insieme al pacchetto fiscale, la perdita delle entrate petrolifere ha fatto salire il debito dal 101% al 129% del PIL, ciò che desta grande preoccupazione per la sostenibilità del debito del Bahrein, mentre gli IDE sono diminuiti di un terzo nel 2020[46]. Questo stato di cose ha bloccato i progetti contenuti nella Vision 2030 e scoraggiato gli investitori pubblici e privati dal dedicare tempo e risorse ai settori particolarmente vulnerabili agli eventi globali. In questo quadro fosco fa parzialmente eccezione il settore finanziario, soprattutto quello finanziario-tecnologico (“fintech”), che, come altri servizi completamente digitali, ha registrato una crescita esponenziale negli ultimi due anni. Il Bahrein sta lavorando seriamente per attrarre parte di quella crescita, ma potrebbe dover affrontare la crescente concorrenza degli Emirati nel settore. Dal punto di vista politico, le difficoltà economiche avevano già alimentato le proteste popolari nel 2011. Durante la Primavera araba, gli sciiti del Bahrein sono scesi in piazza per protestare non solo per i loro diritti politici e civili, ma anche contro la discriminazione economica, la disoccupazione e il sottosviluppo dei settori privati in cui la maggior parte di essi è impiegata. I precedenti governanti del Bahrein avevano fatto ricorso a strategie confessionali divisive per separare i sunniti dalla numerosa opposizione sciita. La volontà del principe ereditario di sostenere l’economia privata s’inserisce nel suo modello non confessionale. Si tratta di un segnale importante perché l’incertezza economica che va profilandosi potrebbe riaccendere le tensioni confessionali che covano nel Paese a partire dalla violenta repressione dell’opposizione sciita nel 2011[47].
Oman
La Vision 2040 dell’Oman rispecchia la precedente Vision 2020 e mira a ridurre la dipendenza dal petrolio e a espandere il settore privato in un contesto di crescente incertezza economica e volatilità del mercato energetico. Lanciato nel 2019 dal defunto Sultan Qaboos, il programma di transizione fissa obiettivi macroeconomici ambiziosi, tra cui una crescita media annua del PIL del 5% e l’ampliamento del settore non petrolifero fino al 93% del PIL[48]. Il programma si concentra principalmente su cinque settori strategici: turismo, trasporti, industria manifatturiera, estrazione mineraria e pesca. Facendo leva sulla storica posizione della monarchia come crocevia commerciale nell’Oceano Indiano, la Vision 2040 riserva un’attenzione speciale ai porti di Salalah, Sohar e soprattutto Duqm, che ha già attratto oltre 10 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri grazie alla sua Zona Economica Speciale[49]. In sostanza, i governanti dell’Oman sperano di risolvere attraverso la Vision 2040 il pressante problema della disoccupazione, incrementando le opportunità di lavoro del 40% e perseguendo una decisa politica di nazionalizzazione del mercato del lavoro (“Omanizzazione”).
Il doppio shock generato dal COVID ha reso ancora meno raggiungibili gli obiettivi troppo ambiziosi della Vision. Come per il Bahrein, il petrolio non è una componente centrale dell’economia omanita, ma contribuisce al 65-85% delle entrate dello Stato e cinque anni di prezzi bassi avevano già indebolito il Paese[50]. Parallelamente, le restrizioni di salute pubblica hanno colpito gravemente il turismo e la logistica, due settori chiave dell’economia omanita. Poiché il deficit è salito al 20% del PIL nel 2020, lo Stato ha dovuto tagliare la spesa del 10% lo scorso anno e del 14% nel 2021, ridimensionando alcuni investimenti importanti ai fini della Vision, per esempio nelle infrastrutture[51]. Oltre ai tagli di bilancio, il nuovo sultano Haitham bin Tariq Al Said, salito al trono all’inizio del 2020, ha introdotto un’imposta sul reddito per i cittadini benestanti e l’IVA al 5%, impegnandosi anche a snellire il settore pubblico per ridurre i costi[52]. Infine, le pessime condizioni economiche hanno costretto l’Oman a indebitarsi sul mercato internazionale per compensare le minori entrate previste nel 2021. Secondo gli esperti, con il debito classificato come “spazzatura” e 10,8 miliardi di dollari di obbligazioni in scadenza entro il 2022, il servizio del debito peserà sull’economia omanita per decenni[53].
Il doppio shock generato dal COVID ha avuto anche ripercussioni politiche. Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), nel 2019 la disoccupazione giovanile era al 49%. Il COVID-19 ha peggiorato ulteriormente la situazione con almeno 6.700 licenziamenti confermati nel settore privato[54]. Questa situazione ha innescato il 23 maggio 2021 una protesta di cinque giorni, durante i quali giovani omaniti sono scesi in piazza per chiedere lavoro, riforme economiche e un’ulteriore omanizzazione[55]. Per tenere a freno le proteste, Sultan Haitham ha annunciato subito 32.000 nuovi posti di lavoro nel settore pubblico, una promessa che il governo faticherà a mantenere visti i crescenti vincoli di bilancio.
Trovandosi stretto tra l’incudine e il martello, l’Oman è alla ricerca di investitori stranieri per soddisfare il proprio fabbisogno finanziario e far avanzare la Vision 2040. Fino a qualche tempo fa, la Cina faceva la parte del leone nell’afflusso di investimenti diretti esteri in Oman perché Pechino voleva trasformare il porto di Duqm in un avamposto strategico della sua Belt and Road Initiative. I progetti di investimento però sono stati deludenti, soprattutto sul fronte della creazione di posti di lavoro, perché le aziende cinesi impiegavano principalmente forza lavoro cinese[56]. Inoltre è piuttosto improbabile che in Oman possano affluire investimenti dall’Europa e dagli Stati Uniti, visto che in questo momento l’Occidente è concentrato sulla propria lenta ripresa dopo il COVID-19. Di conseguenza l’Oman guarda al Golfo, superando la sua tradizionale riluttanza a legarsi ad altre monarchie del GCC. A luglio, la visita del sultano Haitham in Arabia Saudita ha aperto la strada a una serie di promesse di cooperazione e investimenti in Oman da parte di Riyad. L’anno scorso è intervenuto anche il Qatar, che ha erogato un miliardo di dollari a sostegno della Banca centrale dell’Oman[57].
Dalla cooperazione alla concorrenza
In conclusione, il COVID-19 ha avuto un impatto profondo sui Paesi del GCC in generale, ma con alcune notevoli differenze all’interno del blocco. Nel lungo periodo, la stabilità delle famiglie regnanti dipenderà dalla loro capacità di garantire una transizione morbida verso un’economia non petrolifera.
L’urgenza di raggiungere i risultati della Vision 2030 aumenta la pressione sull’Arabia Saudita, che sta adottando un approccio più nazionalistico per tenere alto il morale del Paese e rilanciarne l’immagine agli occhi degli investitori locali e stranieri. La decisione di costringere le aziende straniere che vogliono fare affari con lo Stato a trasferire la propria sede in Arabia Saudita va esattamente in questa direzione[58]. Il reindirizzamento delle risorse verso gli investimenti interni è un altro segnale che gli imperativi nazionali superano anche le ambizioni di politica estera, visto che sono necessari per perseguire gli obiettivi della Vision 2030.
Sfidati dalle Vision dei vicini, gli Emirati Arabi Uniti stanno allentando le regole per attirare nuove imprese, ma la concorrenza tra Abu Dhabi e Dubai potrebbe complicare i piani. Una serie di considerazioni finanziarie e internazionali hanno portato gli Emirati a ricalibrare la propria politica estera, passando da un convinto impegno militare, diretto o per procura, a misure di soft power e investimenti mirati per consolidare i rapporti con Paesi strategici, come Israele, India, Russia e i Paesi in via di sviluppo nel Corno d’Africa. In linea con questa tendenza, gli Emirati hanno fornito attrezzature mediche e vaccini a 129 Stati in tutto il mondo e promesso di farsi carico dei due terzi della domanda di vaccini nel Terzo Mondo tramite il Consorzio HOPE[59].
Anche l’altra monarchia su cui il COVID-19 ha inciso più limitatamente, il Qatar, seguirà probabilmente un percorso simile nella sua politica estera. Nel futuro prossimo è probabile che Doha investa ulteriormente sulla cooperazione economica, sulla mediazione (come nel processo di pace afghano) e sui legami con le potenze regionali, soprattutto con la Turchia e l’Iran[60]. Inoltre il Qatar sta riaffermando, attraverso aiuti e mediazioni, la sua influenza in contesti fragili come Gaza, il Libano, la Libia e lo Yemen, mentre la riconciliazione in seno al GCC ha ridato slancio alla sua partnership con l’Arabia Saudita e l’Egitto. Il rischio di questa proiezione esterna è che la Vision 2030 passi in secondo piano, con tutte le conseguenze che potrebbero derivarne.
La situazione resta invece problematica in Kuwait. Nonostante le vaste riserve finanziarie del Paese, lo stallo politico ostacola qualsiasi tentativo serio di promuovere la Vision 2035. Di conseguenza, il Kuwait naviga in acque inesplorate e al momento non c’è alcuna soluzione in vista per uscire dall’impasse. Solo un intervento dell’Emiro che aggiri il parlamento potrebbe sbloccare la crisi, come peraltro è accaduto già in passato, ma questo farebbe scoppiare grandi disordini politici tra i cittadini kuwaitiani.
Tra le due monarchie più in crisi, il Bahrain ha fatto ampio ricorso al debito per attutire il doppio shock. A livello regionale, il Paese gravita sempre più nella sfera d’influenza saudita e in particolare emiratina, visto che i due vicini hanno speso grandi risorse per mantenere al potere la famiglia regnante degli Al Khalifa. A causa del COVID-19, la dipendenza finanziaria di Manama da Riyad e Abu Dhabi è destinata ad aumentare, ciò che limiterà ulteriormente la sua autonomia decisionale. Per un’ironia della sorte, le Vision di Arabia Saudita ed Emirati fanno di questi Paesi i principali concorrenti del Bahrain in alcuni settori chiave della sua economia, come il tempo libero e la finanza.
Anche l’Oman si trova in condizioni economiche disastrose dal momento che il doppio shock ha inciso pesantemente sia sul settore petrolifero che su quello non-petrolifero. La monarchia sta cercando investitori stranieri in una fase di contrazione degli investimenti diretti esteri. Con gli attori internazionali scarsamente interessati, Mascate sta puntando tutto sull’Arabia Saudita, rilanciando con il suo vicino una cooperazione a tutto campo. L’Arabia Saudita, tuttavia, potrebbe non essere nella posizione di soccorrere l’Oman visto che ha bisogno dei suoi fondi sovrani per finanziare la propria Vision 2030.
Quarant’anni dopo la nascita del GCC, la cooperazione sta cedendo il passo alla concorrenza nella sfera economica, visto che tutte le Vision scommettono praticamente sugli stessi settori. Tale scenario non può che danneggiare le prospettive di realizzazione dei progetti di tutte le monarchie. Inoltre, la concorrenza economica potrebbe un giorno ripercuotersi sul lato politico e potenzialmente su quello della sicurezza, con conseguenze drammatiche per il Golfo e non solo.
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