La Lettera dei 138 apre una nuova stagione? La sua novità consiste in una ridefinizione del monoteismo affermato in forme diverse da musulmani, ebrei e cristiani

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:27

Una parola comune tra noi e voi: è con questo titolo che 138 rappresentanti dell’Islam contemporaneo, riuniti nel quadro dell’Accademia giordana di Amman per le ricerche relative alla civiltà islamica, hanno indirizzato, il 13 ottobre 2007, una Lettera aperta ai capi religiosi della diverse comunità cristiane del mondo intero, in occasione della festa della Rottura del Digiuno di Ramadan e del primo anniversario della Lettera aperta dei 38 “sapienti musulmani” a Sua Santità Benedetto XVI*.

Questo titolo è specificamente coranico, in quanto i musulmani sono invitati dal loro libro sacro a dire: «O Gente del Libro, venite a una parola comune tra noi e voi» (3,64). È noto che in seguito alla conferenza teologica di Ratisbona del 12 settembre 2006 e a un’infelice citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, parecchi musulmani avevano protestato, pacatamente o rabbiosamente, per essere infine rassicurati sulle intenzioni di Benedetto XVI; prova ne fu la riuscita visita in Turchia alla fine del novembre 2006. Il dialogo interreligioso rimane una delle priorità del Papa ed egli ne ha ancora dimostrato l’importanza e l’urgenza partecipando a Napoli all’Incontro delle Religioni per la pace organizzato, dopo Assisi 1986, dalla Comunità di Sant’Egidio.

La Lettera aperta dei 138 “sapienti musulmani” del 15 ottobre 2006, che sviluppavano una riflessione in otto importanti paragrafi, ha suscitato molti apprezzamenti che si possono trovare in La conférence de Ratisbonne. Enjeux et controverses di Jean Bollack, Christian Jambet e Abdelwahab Meddeb (Bayard, Paris 2007) e in Dio salvi la ragione con i testi di Benedetto XVI e le riflessioni di Glucksmann, Farouq, Nusseibeh, Spaemann e Weiler (Cantagalli, Siena 2007). La presente Lettera dei 138 si presenta dunque come l’espressione di un consenso allargato quanto ai firmatari e di una ripresa dell’uno o dell’altro dei passi essenziali della Lettera dei 38.

La sua novità risiede in una ridefinizione del monoteismo affermato, in forme diverse, da musulmani, ebrei e cristiani, avendo come tema essenziale la medesima confessione del Dio vivente, unito e unico, nel quadro del duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, caro alla tradizione giudeo-cristiana. Non s’insisterà quindi abbastanza sullo spirito di apertura che questa Lettera manifesta per il dialogo islamo-cristiano ed è per questo che vale la pena comprenderne con intelligenza il tenore e apprezzarne in positivo le affermazioni, non senza interrogarsi anche su certi silenzi quanto a versetti coranici che fanno ancora problema per i cristiani.

I firmatari della Lettera, in numero di 138, rappresentano 43 nazioni di tradizione islamica o di contesto occidentale: ‘ulamâ’, mufti, teologi, giuristi, intellettuali, essi appartengono per la maggioranza al mondo sunnita, ma vi si contano rappresentanti dello sciismo, come pure di altri gruppi minoritari. È nota l’importanza che per i musulmani ha l’espressione del consenso (ijmâ‘), terza fonte dell’ortodossia dopo lo stesso Corano e la Tradizione (Sunna) del Profeta.

Tre sezioni

Prendendo come base la traduzione italiana proposta dal sito internet dell’Accademia, due pagine d’introduzione rimandano musulmani, cristiani ed ebrei al loro comune monoteismo. Ai primi il Corano ricorda: «Dì: Egli è Dio, l’Uno/Dio, sufficiente a Sé stesso» (112,1-2) e «Così invoca il Nome del tuo Signore e sii devoto a Lui con una devozione totale» (73,8). Ai secondi Gesù insegna: «“Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno, e tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze.” Questo è il primo comandamento. E il secondo è questo: “Tu amerai il tuo prossimo come te stesso.” Non c’è altro comandamento più grande di questi”». (Mc 12,29-31).

Nella Lettera questo duplice comandamento è dedotto dal versetto già citato ma così sviluppato: «Dì: “O Genti del Libro! Venite a una parola comune tra noi e voi: che non adoriamo altri che Dio, e non associamo a Lui cosa alcuna, e che nessuno di noi scelga altri signori accanto a Dio”. E se essi non accettano dite loro: “Testimoniate che siamo coloro che si sono dati completamente a Lui”» (3,64). Ricordando allora che il Corano invita Muhammad e i musulmani al dialogo come segue: «Chiama gli uomini alla Via del Signore con la saggezza e i buoni ammonimenti e discuti con loro nel modo migliore, perché il tuo Signore meglio di chiunque conosce chi si allontana dalla Sua via, meglio di chiunque conosce chi è ben guidato» (16,125).

La Lettera sviluppa le sue argomentazioni in tre sezioni. La prima sezione considera «l’amore di Dio» (hubb Allâh), dapprima nell’Islam (5 pagine), poi nella Bibbia (2 pagine). Partendo dalla shahâda (testimonianza di fede) e trattenendone solo la prima parte, la grande shahâda, «non c’è dio se non Iddio», il testo sviluppa il monoteismo (tawhîd) a partire da un “detto” (hadîth) di Muhammad che afferma che «La cosa migliore che ho detto – io stesso, e i Profeti che mi precedettero – è “non c’è dio se non Iddio, l’Unico, senza associati, Suo è il Regno (mulk), Sua è la lode (hamd) ed Egli è Potente su tutte le cose”», illustrando ciascuna delle affermazioni di questo hadîth con numerose citazioni del Corano (33,4; 2,165; 39,23; 67,1; 29,61-63; 14,32-34; 1,1-7; 19,96; 2,94-196; 9,38-39; 64,1; 64,4; 64,16; 6,162-164; 3,31; 73,8), spesso corroborate da altri hadîth. Bisogna qui segnalare che il solo versetto coranico dove si tratta dell’amore di Dio non si presenta sotto la forma di un comandamento, ma piuttosto in un contesto di polemica: «Ma vi sono uomini che danno a Dio degli eguali, che essi amano come Dio; però quelli che credono più forte di loro amano Dio» (2,165).

La Lettera non menziona affatto, e per una buona ragione, il versetto in cui si dice che Dio «susciterà uomini che Egli amerà come essi ameranno Lui» (5,54), perché in quel versetto si parla prima dell’apostasia di certi, poi di una comunità «umile coi credenti e fiera coi miscredenti». Le due pagine che trattano dell’amore di Dio nella Bibbia riprendono l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (6,4-5) come Gesù Cristo lo ripete nel suo insegnamento dei due comandamenti che sono in realtà uno soltanto (Mt 22,34-40; Mc 12,28-31), eco evangelico di Dt 4,29; 10,122; 11,13; 13,3; 26,26; 30,2; 30,6; 30,10; e di Gs 22,5, ripreso da Mc 12,32-33 e Lc 10,27-28. La Lettera precisa, in Mt 22,37 e in Mc 12,30-34, come pure in Lc 10,27-28, i rispettivi sensi delle parole greche “cuore”, “anima”, “intelligenza” e “forza”. Tutte citazioni o riferimenti che, in definitiva, confermerebbero l’insegnamento dello hadîth profetico citato sopra.

La seconda sezione tratta dell’«amore del prossimo (o del vicino)» (hubb al-jâr) in meno di due pagine. Nell’Islam, secondo lo hadîth profetico «nessuno di voi ha fede finché non ama per il proprio prossimo ciò che ama per se stesso», da cui l’insistenza sulla «pietà (birr) [che consiste] […] nel dare dei propri beni, per amore Suo, ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti diseredati, ai mendicanti e per liberare gli schiavi, compiere l’orazione e pagare la decima, mantenere fede agli impegni presi, essere pazienti nelle avversità, nelle ristrettezze e di fronte al pericolo. Queste sono le virtù che caratterizzano i credenti pii e sinceri» (2,177), pietà di cui Dio è sempre il primo e l’ultimo testimone (3,92). Circa la Bibbia, il testo rinvia a Mt 22,38-40 e a Mc 12,31, il cui dettaglio è già fornito dal Levitico (19,17-18). In conclusione si dice che «da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge (Nâmûs) e i Profeti» (Mt 22,40).

La terza sezione commenta infine in quattro pagine il «Veniamo a una parola comune tra noi e voi» (3,64). La “parola comune” consiste nel duplice comandamento dell’amore dell’unico Dio e del prossimo, con ripresa delle citazioni precedenti (Dt 6,4; Mc 12,29; Mt 22,40; Corano 112,1-2), prova che Maometto non ha apportato niente di nuovo (Corano 41,43; 46,9), da cui il rifiuto degli idoli e il compimento di ogni giustizia (Corano 16,36; 57,25). E il “veniamo” che invita a «non associare a Lui cosa alcuna, e a non scegliere altri signori accanto a Dio» (3,64) intende significare, secondo il grande commentatore Tabarî, che «musulmani, cristiani ed ebrei dovrebbero essere liberi di seguire ognuno quello che Dio comandò loro», senza avere «da “prostrarsi di fronte a re e simili”», il che si collega allora col «non c’è coercizione nella religione» (2,256), che garantisce una libertà religiosa “sotto condizione” (60,8): «Come musulmani, noi diciamo ai Cristiani che non siamo contro di loro e che l’Islam non è contro di loro – a meno che loro non intraprendano la guerra contro i Musulmani a causa della loro religione, li opprimano e li privino delle loro case».

La Lettera rinvia i cristiani alla loro Bibbia (Mc 12,29-31; Mt 12,30; Mc 9,40; Lc 9,50) dove Gesù dichiara: «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40). Ora, afferma la Lettera, i musulmani credono in Gesù «messaggero di Dio e la Sua Parola che Egli pose in Maria e uno Spirito proveniente da Lui» (4,171): vi sarebbe dunque in questo una “credenza comune”? Peraltro la fede dei cristiani riguardo Gesù è molto diversa: non è forse Yasû‘ (Dio salva) per questi ultimi mentre è ‘Îsâ per i musulmani? La stessa Lettera riconosce che, tra la Gente del Libro, c’è una «comunità giusta […]» che recita «i versetti di Dio» (3,113-115), pur affermando che i musulmani credono ugualmente in tutti profeti della storia (2,136-137). Il “tra noi e voi” è infine un appello a unire le testimonianze dei credenti («Insieme formano oltre il 55% della popolazione mondiale») di fronte ai pericoli dell’ora, perché le tre religioni monoteiste dovrebbero garantire la pace agli uomini d’oggi. Riferimenti sono fatti al Corano (16,90) e al Vangelo (Mt 5,9; 16,26). E la Lettera va a citare in conclusione il versetto del “pluralismo religioso”: «se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità, ma ha voluto provarvi con l’uso che farete di quel che vi ha donato. Gareggiate dunque nelle opere buone (fa-stabiqû l-khayrât): voi tutti ritornerete a Dio» (5,48).

Innovazione e traduzione

I firmatari della Lettera hanno voluto così rileggere i migliori testi del Corano e della Sunna alla luce del duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo che è al cuore del credo ebraico e della fede cristiana. Insistendo solo sulla prima parte della shahâda, essi intendono definire appunto il monoteismo attraverso questo duplice amore di Dio e del prossimo, conferendo così alla loro lettura del Corano la preoccupazione di interiorizzazione spirituale che già rivelava la Lettera dei 38: essa insisteva infatti sulla “vicinanza di Dio” rispetto a ogni credente. Un hadîth riferito da Ghazâlî non dice forse che «Chiunque dice “Non c’è altro dio che Dio” ha diritto di entrare in paradiso»? Agli atteggiamenti classici di obbedienza, di sottomissione e di adorazione si sostituisce un lessico che può sembrare comune a musulmani, ebrei e cristiani: si tratta di“amare”, ed è ben vero che il Corano afferma che Dio ama «quelli che lo temono» (3,76; 9,4; 9,7), «chi fa il bene» (3,134; 3,148; 5,13; 5,93), «i pazienti» (3,146), «i giusti» (5,42; 49,9; 60,8), «i puri» (9,108) e «quelli che confidano in lui» (3,159), anche se tra i suoi 99 “Bei Nomi” non si trova che egli è «amante» (muhibb).

Ed ecco che l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono così strettamente legati nella Lettera da sembrare inseparabili l’uno dall’altro: nessuno potrebbe pretendere di amare Dio se non ama il prossimo! Affermazione che sembra del tutto naturale ai cristiani, in quanto fa parte dei principî stessi della loro fede e della loro pratica, ma stranamente nuova per molti musulmani, i quali coniugano volentieri Islam con adorazione rispettosa e sottomissione fiduciosa. Per di più, i testi della Bibbia sono spesso citati dalla Lettera senza il minimo sospetto di “falsificazione” (tahrîf) e una delle 23 note che la commentano fa addirittura riferimento a un testo di San Paolo (nota 4). Queste note costituiscono d’altra parte, già di per sé, altri sforzi leali per trovare valori comuni ai tre monoteismi.

Che cosa pensare esattamente di questa Lettera dagli accenti inattesi e quale ne è in realtà il testo di riferimento? È quello pubblicato in arabo o piuttosto quello trasmesso in inglese? Parrebbe che sia quest’ultimo. Effettivamente, se questo parla dell’«amore di Dio nella Bibbia» («in the Bible»), il testo arabo dice «nel Vangelo» (ciò che fa attribuire a questo un Antico Testamento!), e se cita Gesù Cristo, la versione araba parla di «‘Îsâ l-Masîh», espressione che non è né coranica (semplicemente al-Masîh o ‘Îsâ ibn Maryam) né cristiana (Yasû‘ al-Masîh), ma che traduce esattamente il Jesus Christ dell’inglese. Ma altri dettagli sembrano far propendere a conferire una certa priorità al testo arabo. E il lettore rimane con tutti i suoi dubbi! Questi si stupisce anche che un bellissimo hadîth citato nel testo arabo non sia stato tradotto nelle versioni inglese, francese e italiana: «Gli esseri umani – recita il detto – sono la famiglia di Dio (‘Iyâl Allâh): il più amato da Dio è colui che è più utile alla sua famiglia».

Comunque sia, la Lettera non si allontana da una presentazione tradizionale, accumulando citazioni coraniche e hadîth profetici, pur isolandoli dal loro contesto, il che permette di dare loro un’interpretazione allargata e dialogica. Uno sforzo lessicale è ugualmente mantenuto perché, se si fa ancora menzione delle “Genti del Libro” (ebrei e cristiani), vi si parla anche di ebrei e di cristiani come tali, chiamando questi ultimi Masîhiyyûn e non Nasârâ. Ancor più, i testi inglese, francese e italiano non traducono mai il termine coranico muslim con “musulmano” (cosa che fanno, di contro, numerose traduzioni islamiche) ma piuttosto con «soumis à Dieu», «surrendering unto God», “sottomesso a Dio”, il che vale per ogni monoteista, che egli sia musulmano, ebreo o cristiano. Tutti elementi che indicano uno sforzo per adattarsi agli interlocutori, anche se la Lettera comincia con la formula classica «Nel Nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso» e si conclude con l’augurio della pace (wa-l-salâmu ‘alay-kum).

La Famiglia di Dio

Non si possono certo comprendere le intenzioni e il contenuto di questa Lettera se non situandole nella prospettiva della Lettera dei 38 dell’ottobre 2006, la quale non era malauguratamente priva di accento polemico: redatta in fretta, a quanto pare, essa intendeva pronunciarsi in rapporto al discorso della conferenza di Ratisbona. Essa situava il contesto storico di «Non vi sia costrizione nella fede», attenuava la sola trascendenza di Dio affermando che Egli è anche prossimo alla sua creatura, affermava l’uso armonioso della fede e della ragione nell’Islam, precisava le diverse forme di jihâd, ricordava che le conquiste islamiche hanno rispettato la religione delle popolazioni sottomesse, concedendo loro uno statuto di “protetti” (statuto di dhimma), diceva che Muhammad non ha mai preteso di apportare alcunché di nuovo, contestava la scelta fatta da Benedetto XVI dei suoi esperti, si appellava infine al dialogo e alla collaborazione citando ampiamente i testi del Vaticano II e le dichiarazioni di Giovanni Paolo II.

Essa era indirizzata al solo Benedetto XVI, mentre la presente Lettera è inviata a tutti i responsabili delle comunità cristiane, nell’esatto rispetto di una certa gerarchia di precedenza o di titolatura, sollecitando da parte loro, in qualche modo, una risposta ecumenica al contenuto della Lettera. Il tono è dei più irenici, anche se certe citazioni coraniche sarebbero da precisare, mentre altre, non richiamate, solleciterebbero parecchi chiarimenti, come suggeriva già Abdelwahab Meddeb nel suo commento alla Lettera dei 38 (cfr. La conférence de Ratisbonne: enjeux et controverses, Bayard, Paris 2007, 63-100).

Ecco dunque un testo che raccoglie un gran numero di responsabili musulmani di tutte le scuole e sensibilità, e che si indirizza all’insieme dei capi delle comunità cristiane del mondo intero, rammentando agli uni e agli altri la loro comune responsabilità di fronte a un’umanità che non finisce di conoscere malintesi, conflitti e divisioni d’ogni sorta. Paradossalmente, l’invito qui rivolto a tutti si iscrive esattamente nella linea di ciò che auspicava la Dichiarazione conciliare sulle Relazioni della Chiesa con le altre religioni: «promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà». Si tratta di forme moderne dell’amore del prossimo che la presente Lettera intende collegare strettamente all’amore di Dio, espressione allora perfetta di un monoteismo “amoroso”, persino “gustoso” come auspicava Ibn Khaldûn ai suoi tempi (tawhîd dhawqî). L’invito a «gareggiare nelle opere buone» sembra proprio corrispondere alle urgenze dell’ora, in un mondo minacciato dallo “scontro di civiltà” e dai rischi della globalizzazione.

Pur non aderendo necessariamente alle proposte concrete, di sfumatura politica o strategica, enunciate nella conclusione della terza sezione, e rammaricandosi che la Lettera non denunci in alcuna delle sue pagine gli atti di violenza o di terrorismo che certi gruppi di musulmani commettono oggi “in nome di Dio”, per qualsiasi ragione, bisogna tuttavia accogliere con interesse i suggerimenti che essa enuncia per il dialogo di domani, perché, «se Musulmani e Cristiani non sono in pace, il mondo non può essere in pace». Converrebbe dunque accogliere questa Lettera come l’alba di una tappa nuova nel dialogo islamo-cristiano, che permetterebbe agli attori di discutere finalmente dei problemi fondamentali che li differenziano, li dividono, li oppongono, allo scopo di lavorare insieme per l’applicazione concreta di quei Diritti dell’Uomo, definiti nel 1948, che corrispondono tanto alle esigenze del diritto naturale, caro ai cristiani, quanto ai principi della Sharî‘a che i musulmani privilegiano, anche se le loro antropologie e teologie ne danno una diversa giustificazione.

L’esperienza acquisita da quarant’anni a questa parte in occasione di molteplici incontri islamo-cristiani e l’accoglienza positiva che hanno riservato a questa Lettera numerose personalità e istituzioni cristiane dovrebbero permettere nuovi sforzi che, associando ebrei e uomini di buona volontà, conferirebbero tutta la sua ampiezza ed efficacia al duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo che questa Lettera dei 138 ha voluto presentare come “parola comune” a tutti i monoteisti che fanno riferimento ad Abramo, e ad Adamo prima di lui. E in effetti «tutti gli esseri umani costituiscono la famiglia di Dio: il più amato da Dio è colui che è più utile alla sua famiglia».

*Per questo articolo, quando si cita da A Common Word, si utilizzano le traduzioni in essa presenti del Corano e della Bibbia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Maurice Borrmans, Il “manifesto” dell’Islam sapiente, «Oasis», anno IV, n. 7, maggio 2008, pp. 88-92.

 

Riferimento al formato digitale:

Maurice Borrmans, Il “manifesto” dell’Islam sapiente, «Oasis» [online], pubblicato il 6 luglio 2008, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-manifesto-dell-islam-sapiente-struttura-lingua-sorprese-e-dubbi.

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