Bilancio di una rivoluzione /1 Dopo le iniziali turbolenze, il PIL della Tunisia ha ripreso a crescere. Un segnale positivo che, considerato l’aumento dell’inflazione e del deficit estero, non permette facili ottimismi, ma spinge chi governa a un ripensamento generale della politica economica, dal reperimento dei finanziamenti all’organizzazione della spesa sociale.
Ultimo aggiornamento: 19/12/2024 09:39:24
Il modello di sviluppo applicato all’epoca del Presidente deposto [Ben Ali, N.d.R.] si basava sull’esclusione di cinque componenti fondamentali: i partner commerciali potenzialmente in crescita, la società civile e in particolare i giovani, i settori tecnologici, le regioni occidentali e meridionali e le fonti di finanziamento che non generavano debito o per lo meno interessi sul debito. L’economia tunisina funzionava al di sotto delle sue capacità potenziali e il tasso di crescita medio del 4-5% annuo non è risultato sufficiente ad assorbire la domanda addizionale di lavoro, in particolare quella dei giovani quadri con un titolo di studio. Uno sviluppo inclusivo che faccia intervenire queste cinque componenti permetterebbe di migliorare la crescita e di rispondere ai bisogni di una popolazione sempre più povera a causa dell’esaurirsi delle opportunità di occupazione, soprattutto per i giovani laureati nelle regioni meridionali e occidentali. Tuttavia nel periodo di transizione democratica la riforma istituzionale è ancora incompleta, le condizioni di sicurezza sono fragili e le parti interessate stanno negoziando la tabella di marcia. Se il 2011 è stato particolarmente deludente, con un tasso di crescita negativo del -1,9% e la perdita di 138 mila posti di lavoro, il 2012 ha permesso al governo eletto di uscire dalla crisi economica, raggiungendo un tasso di crescita del 3,6% e creando 85 mila posti di lavoro, anche se al prezzo di un aumento dell’inflazione, del deficit di bilancio e del disavanzo commerciale.
Peraltro accontentarsi di un tasso di crescita economica di circa il 5% significa continuare sulla stessa linea del vecchio modello di sviluppo, quello dell’esclusione, incapace di raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, e in particolare la diminuzione della disoccupazione e degli squilibri regionali.
Non solo partner europei
Più di 3/4 degli scambi commerciali della Tunisia avvengono con tre Paesi europei, la Francia, l’Italia e la Germania. Le istituzioni internazionali prevedono una decrescita di questi Paesi, principalmente a causa dei problemi legati al debito sovrano e al settore bancario nella zona euro, mentre in altre regioni del mondo, Paesi emergenti, Stati Uniti e alcuni Paesi dell’Asia sud-orientale, la crescita economica continua a essere soddisfacente. L’affaticamento dei tre Paesi dell’UE ha ridotto in maniera significativa gli scambi commerciali con la Tunisia e ne ha condizionato l’economia, in particolare le attività orientate all’esportazione: l’industria meccanica ed elettrica, il tessile, l’abbigliamento, le calzature e il cuoio. Gli studi del Fondo Monetario Internazionale hanno mostrato un calo della crescita economica in Tunisia di 0,6 punti percentuali.
Mantenere le relazioni con i tre Paesi dell’UE non è sufficiente a sviluppare le esportazioni, e l’estensione delle relazioni della Tunisia agli altri Paesi dello spazio europeo è un’esigenza dettata dalla collocazione del Paese e dalla sua prossimità allo spazio europeo. Tuttavia, accontentarsi di questo spazio commerciale rischia di indebolire l’economia tunisina, vista la crisi che ha scosso l’economia europea soprattutto nella sua zona Sud. È dunque necessaria una diversificazione delle relazioni commerciali. Sono possibili più soluzioni: moltiplicare i partenariati con le economie emergenti dell’Asia e dell’America latina, con gli Stati Uniti d’America, il Canada, il Giappone, i Paesi arabi e africani, con l’obiettivo di allargare gli orizzonti dell’economia e trovare nuove opportunità d’investimento e nuovi mercati per i prodotti nazionali. Ma altrettanto necessaria, se si considera l’aumento della regionalizzazione e la costituzione ovunque nel mondo di spazi regionali, è l’instaurazione di un mercato magrebino comune attraverso il rafforzamento della cooperazione e della complementarità tra i Paesi dell’area.
Una fittizia economia di mercato
In Tunisia le associazioni sono state completamente emarginate e nel 2010 il loro contributo al PIL è stato solo dello 0,3%. Il settore informale occupa un posto importante nell’economia e costituisce una fonte di ricchezza importante per le famiglie vicine allo Zero Balance Account [Conto a saldo nullo, N.d.R.]. Il settore privato è formato essenzialmente da piccole e medie imprese la cui capacità di assorbimento della disoccupazione è limitata. Il modello applicato a partire dalla seconda metà degli anni ’80 è stato quello proposto dalle istituzioni internazionali, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. È il complesso di riforme economiche e sociali che rientra nell’ambito del Programma di Aggiustamento Strutturale (PAS), con la privatizzazione delle imprese pubbliche, l’apertura dell’economia all’estero, le riforme fiscali volte alla riduzione delle imposte e all’ampliamento della base imponibile, la ristrutturazione delle imprese private: insomma le basi di un’economia di mercato. In realtà il settore privato è stato vittima delle operazioni di corruzione soprattutto a partire dai primi anni del 2000, quando la pre-condizione per investire in Tunisia era la condivisione dei profitti con la famiglia al potere. Teoricamente la Tunisia dispone di un’economia di mercato perché lo Stato si è impegnato in un processo di privatizzazione e di apertura verso l’estero ma, in realtà, di questo programma di privatizzazione hanno beneficiato solo le famiglie vicine al governo e il modello che ne è derivato non ha nulla a che vedere con l’economia di mercato. Così, pur avendo generato una crescita media del 4% annuo, questo modello ha manifestato i suoi limiti fin dai primi anni ’90, dimostrandosi incapace di assorbire la crescente domanda di occupazione e, da quel momento, più del 10% della domanda di lavoro è andata a sommarsi alla disoccupazione già esistente. Per far riprendere gli investimenti in Tunisia occorrerebbe creare un clima più sano per gli affari. Il rapporto tra settore privato e settore pubblico deve essere caratterizzato dalla buona governance e da tutti i requisiti che la rendono possibile: la responsabilizzazione, la trasparenza, la partecipazione, lo Stato di diritto, l’equità, la legittimazione, le libertà politiche e la lotta alla corruzione. Oltre al pubblico e al privato, che rappresentano gli attori di un’economia di mercato, può svolgere un ruolo importante nell’ambito di un sviluppo inclusivo anche il settore dell’economia sociale e solidale, costituito principalmente dalle organizzazioni professionali e civili, dalle società di mutuo soccorso, dalle fondazioni e dalle cooperative. Questo terzo settore dovrebbe svolgere tre funzioni essenziali: ridurre il tasso di disoccupazione creando nuovi posti di lavoro, sradicare la povertà redistribuendo la ricchezza tra i poveri, sia attraverso meccanismi classici che con quelli dell’economia islamica, quali la zakât e i waqf [beni di manomorta, N.d.R.], ridurre il deficit di bilancio e quindi il ricorso all’indebitamento estero, con la possibilità di impegnarsi in investimenti di carattere sociale quali l’educazione e la sanità. In questo modello di economia di mercato sociale e solidale lo Stato è un agente regolatore, protegge l’equilibrio sociale, incoraggia l’iniziativa, la creatività, la concorrenza legittima, il guadagno legale e il rispetto e la protezione della proprietà privata.
Sempre più laureati disoccupati
Il tessuto economico della Tunisia è composto principalmente da piccole e medie imprese che utilizzano uno stock di capitale e un processo di produzione a basso livello tecnologico. Il tasso d’investimento privato è molto debole e non permette di realizzare una crescita economica compatibile con un’evoluzione più consistente nella domanda addizionale di occupazione. La politica dei vantaggi comparati è orientata verso l’investimento nei settori che necessitano di manodopera a basso costo, in particolare il tessile. Peraltro la presenza di quadri nelle imprese tunisine è molto esigua. D’altra parte i cambiamenti strutturali della popolazione attiva hanno fatto emergere una nuova categoria di disoccupati, quella dei laureati. Così il tasso di disoccupazione delle categorie con un’istruzione primaria e secondaria diminuisce, mentre quello relativo alle categorie con un’istruzione superiore aumenta.
Il nuovo modello dovrebbe includere i settori ad alto valore aggiunto e a contenuto tecnologico. Per accelerare il ritmo della crescita è necessaria una maggiore integrazione intersettoriale, che permetterebbe di aumentare la produttività e migliorare la competitività dell’economia tunisina sui mercati esteri. In Tunisia la distribuzione regionale della povertà e del tasso di disoccupazione rende evidente l’esclusione della regione meridionale e di quella occidentale dallo schema dello sviluppo. Quest’ultima riceve meno di un quinto degli investimenti pubblici nonostante ospiti più della metà della popolazione tunisina più povera, la maggior parte della quale disoccupata. Per favorire un ruolo più attivo di queste regioni nello sviluppo, il modello proposto dovrebbe riconsiderare l’attuale divisione amministrativa e studiare la possibilità di creare dei distretti che comprendano poli economici di sviluppo tenendo conto delle specificità di ciascuna regione. In questo nuovo schema di sviluppo inclusivo i consigli municipali e regionali svolgono un ruolo molto importante nell’elaborazione di piani di sviluppo nell’ambito di un approccio partecipativo.
Alla ricerca di nuove fonti di finanziamento
Da diversi anni l’economia tunisina è fondata sull’indebitamento: gli investimenti privati sono finanziati dai crediti bancari e le spese pubbliche dai prestiti esterni. Il settore bancario soffre di un’insufficiente concorrenza interbancaria e tutte le banche offrono praticamente gli stessi prodotti, alla stessa qualità e allo stesso costo.
La crisi finanziaria internazionale e quella del debito sovrano in Europa, unite al duplice abbassamento nel 2011 del rating della Tunisia, hanno reso difficili le condizioni del debito estero. Per questo è necessaria una diversificazione delle fonti di finanziamento. Il nuovo modello propone un orientamento verso fonti di finanziamento non generatrici di interessi di debito, in particolare gli investimenti diretti esteri e i nuovi prodotti bancari e finanziari islamici. Questi ultimi stimolano le banche classiche a migliorare la qualità dei loro prodotti finanziari o a creare degli “sportelli islamici” per contrastare un possibile trasferimento dei loro clienti verso le banche islamiche. Di conseguenza, l’introduzione della finanza islamica attiverebbe la concorrenza all’interno del sistema bancario tunisino e permetterebbe di migliorare la qualità dei prodotti bancari, con un effetto benefico per l’economia.
Dopo un tendenziale ribasso della crescita economica dal 2007 in avanti, principalmente a causa degli effetti della crisi finanziaria globale in un’economia molto sensibile alla congiuntura internazionale, la rivoluzione del 14 gennaio ha avuto degli effetti significativi sulla crescita del 2011, calata dell’1,9%. Tuttavia il primo bilancio del governo Jebali[1] ha mostrato dei risultati promettenti.
Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica tunisino, il PIL ha registrato una crescita reale del 3,6%. Questo risultato positivo è stato osservato nella maggior parte dei settori industriali, in particolare nelle industrie chimiche (+15,3%). Per quanto riguarda i servizi, sorprese positive sono arrivate dal turismo e dal trasporto (+11,7% e +8,7%) che hanno nettamente contribuito a migliorare la crescita del settore di circa il 5,3%. Tale miglioramento della crescita ha permesso di creare circa 85mila posti di lavoro, riducendo il tasso di disoccupazione di circa 2 punti percentuali.
Il peggioramento di alcuni indicatori, l’inflazione e il deficit estero, rappresentano il prezzo da pagare per la ripresa economica. Il tasso d’inflazione si situa attorno al 6%, un tasso piuttosto elevato rispetto al 3,5% registrato nel 2011. Il deficit commerciale della Tunisia si è notevolmente ampliato facendo crollare il tasso di copertura dal 74,5% nel 2011 al 69,5% nel 2012. Tale deficit è il risultato di una crescita più rapida delle importazioni (13,3%) rispetto alle esportazioni (5,8%).
La ripresa economica dovrebbe essere valutata con una certa prudenza e senza cadere in un eccesso d’ottimismo. Oggi tra i probabili rischi esterni figura, oltre all’aggravamento della crisi nella zona euro, anche un ulteriore aumento dei costi del petrolio e della materie prime. In una tale situazione che cosa deve fare il governo? Nessuno ignora la difficoltà della situazione. Occorre agire velocemente perché la ripresa dipende in maniera cruciale dai motori esogeni della crescita, in altri termini dal bilancio. Quest’ultimo dev’essere intelligentemente utilizzato per indirizzare l’economia sulla via della ripresa. Certo, gli investimenti pubblici sono attualmente le uniche componenti sulle quali si può agire per riportare gli investimenti nelle regioni più svantaggiate. Ma senza spese sociali che permettano di smorzare le tensioni sociali e senza un discorso politico chiaro in merito alla transizioni democratica, gli investimenti privati non possono rispondere.
D’altra parte questo richiede un notevole sforzo finanziario. Occorre perciò trovare nuove forme di mobilizzazione del risparmio al di fuori del debito pubblico. L’orientamento verso nuovi prodotti finanziari e gli investimenti diretti esteri costituiscono una nuova via d’uscita dalla trappola del debito pubblico, soprattutto dopo l’abbassamento del rating della Tunisia verificatosi 3 volte nell’arco di 18 mesi.
Un ritmo di crescita elevato è senza dubbio necessario per ridurre in modo sostanziale la povertà, ma una crescita duratura sul lungo periodo dovrebbe impegnare tutti i settori e tutte le regioni e coinvolgere il maggior numero possibile di tunisini. È quanto si è convenuto di chiamare “crescita inclusiva”, creatrice di posti di lavoro e generatrice d’entrate.
[1] Si tratta del governo guidato dal partito islamista al-Nahda, rimasto in carica dal 24 novembre 2011 al 13 marzo 2013 (N.d.R.).