Sin da piccola ha dovuto mediare tra contesti culturali, linguistici e religiosi diversi. Nel corso degli anni, Marwa Mahmoud ha fatto di questa risorsa la ragione del suo impegno politico

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:22

Marwa Mahmoud è consigliera comunale di Reggio Emilia e responsabile dei progetti di educazione interculturale presso il Centro Mondinsieme.

L’intervista fa parte della serie “Voci dell’Islam italiano”, realizzata nell’ambito del progetto “L’Islam in Italia. Un’identità in formazione

 

Intervista a cura di Sara Manisera

 

 

Qual è il tuo percorso di crescita e di formazione?

 

Sono nata ad Alessandria d’Egitto trentacinque anni fa, sono arrivata in Italia molto piccola, prima a Modena, poi a Reggio Emilia. Ho frequentato tutte le scuole a Reggio Emilia, mi sono laureata in Lingue e Letteratura Straniera a Bologna. Ho studiato l’arabo perché volevo recuperare le mie origini, l’inglese e il persiano moderno. Da sempre mi occupo di interculturalità, di educazione, di comunicazione interculturale. Negli anni ho seguito con molta attenzione la questione dell’identità delle nuove generazioni e il loro ruolo nella società italiana. Mi sono occupata anche di dialogo interreligioso, del ruolo della donna e dell’emancipazione femminile che passa attraverso una partecipazione attiva nella società. Questo mi ha portata a partecipare attivamente alla politica fino a quando ho scelto di candidarmi e sono diventata la prima consigliera comunale a Reggio Emilia con origini straniere.

 

 

Perché hai scelto di impegnarti in politica?

 

La mia esperienza come figlia di migranti con origini straniere e l’aver dovuto lottare nell’attesa della cittadinanza italiana hanno fatto nascere in me la voglia di combattere queste ingiustizie sociali. Negli ultimi dieci anni sono stata molto attiva all’interno di realtà e movimenti nazionali tra cui “Italiani senza cittadinanza”. Sono stata una delle fondatrici di questo movimento nato nel 2016, che ha cercato di far approvare il progetto di legge sulla riforma della cittadinanza. Con questo movimento di figli di migranti mi sono impegnata fuori dalle istituzioni, organizzando campagne e sit-in. Si trattava per me di una battaglia che andava oltre la destra e la sinistra, era proprio una questione di diritti. La grande rabbia e delusione per la mancata approvazione della legge sulla cittadinanza mi hanno spinta ancora di più a metterci la faccia. Mi sono detta che era giunta l’ora di smettere di parlare solo di immigrazione e che era il momento di essere protagonisti di un cambiamento sociale e culturale che esiste già. Basta andare nelle classi delle scuole di ogni ordine e grado per vedere questo cambiamento che le classi dirigenti non vogliono cogliere. Così mi sono candidata e grazie alla squadra che ha lavorato con me ho preso 827 preferenze. Sono stata la quarta candidata più votata. È stato un messaggio forte, il segnale che Reggio vuole un dialogo interculturale. E io devo continuare a mediare e costruire ponti tra un mondo e un altro.

 

 

In che senso?

 

Nel senso che persone come me possono e devono essere connettori e costruttori di ponti perché fin da piccoli siamo stati abituati a farlo. Fin da piccoli, abbiamo dovuto costruire un equilibrio tra fuori e dentro, tra due contesti. Da una parte devi cercare di non rinnegare e vergognarti delle tue origini, che per me è un concetto complessissimo perché vuol dire lingua, cultura, religione, fede, spiritualità, estetica, abbigliamento e modo di relazionarsi con gli altri. Dall’altra devi e vuoi far parte della società dove sei cresciuto. E quindi il rapportarsi con gli uomini, il baciare o non baciare, accavallare le gambe… diventa tutto molto complesso e sei costretto a mediare.

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Marwa Mahmoud [foto Arianna Pagani]

 

Quali sono le difficoltà per le donne italiane e musulmane?

 

Se parliamo di donne nate e cresciute qui, il problema è l’aura che si portano addosso, a causa della quale vengono rigettate da una parte e dall’altra. Siamo troppo haram [proibito, NdR] per gli halal [lecito, NdR] e troppo halal per gli haram: per le femministe italiane ancién regime siamo troppo chiuse; per gli imam e la comunità islamica siamo troppo emancipate. È qui che bisogna trovare un equilibrio, cercando di masticare l’uno e l’altro linguaggio. Io personalmente cerco di portare l’attenzione sui diritti. Se io pretendo di essere rispettata, di non essere aggredita perché porto l’hijab, tu devi riconoscere all’altro il diritto a sposarsi, a innamorarsi a prescindere dal proprio orientamento sessuale. Se tu vuoi dei diritti, allora lottiamo entrambi per i diritti reciproci, che è la cosa più difficile.

 

 

Che rapporto hai con la tua famiglia?

 

I miei genitori mi hanno sempre appoggiata. Io e mio fratello siamo privilegiati perché quando abbiamo finito le superiori la nostra famiglia non ci ha mai chiesto di lavorare, anzi ha investito su di noi e ci ha permesso di laurearci. Mio papà, soprattutto, ha sempre visto in me una grande forma di riscatto sociale. Durante la campagna elettorale mi ha accompagnata in moltissimi posti, dandomi una mano, traducendo tutto il materiale in lingue diverse perché per lui io rappresento il riscatto sociale non solo per sé stesso ma anche per le altre comunità. È stata una grande conquista vedere tantissimi reggiani andare nei luoghi di culto della comunità musulmana o al contrario vedere tanti cittadini di origine straniera andare in posti più borghesi nei quali non sarebbero mai andati…è bello, perché ti rendi conto che crei ponti tra due mondi.

 

 

Qual è il rapporto con la fede?

 

È stato un rapporto a fasi differenti. Durante l’adolescenza la fede è stata un punto di riferimento importante. Per questo motivo quando ho iniziato l’università mi sono messa il velo. Inizialmente lo portavo in maniera diversa, indossavo un hijab classico, ed ero molto più osservante… cioè in realtà è difficile dire osservante e praticante per la fede musulmana perché in realtà, se sei fedele, dovresti essere praticante nel senso che i cinque pilastri li dovresti vivere tutti. Io credo che un fedele musulmano in Europa dovrebbe vivere la fede in maniera che tenga conto del contesto europeo. Se nei Paesi dove l’islam è la religione maggioritaria, stare in una birreria o a tavola con persone che bevono alcool è haram, oppure fare una spesa condivisa con altri amici dove c’è anche l’alcool è haram, qui non puoi pensare a una cosa del genere. Negli anni, mi sono resa conto che quelle erano delle rigidità, dei blocchi mentali che mi portavo dietro. Io mi ero fissata che non bisognava bere alcool, che il velo non bisognava toglierlo davanti a un uomo, che andare a ballare o in birreria era sbagliato, magari ci andavo ma non ero serena. Crescendo mi sono resa conto che non era un torto che facevo alla cultura dei miei genitori o alla mia famiglia, ma era un torto che facevo a me stessa. Bisogna raggiungere dei compromessi perché vivi in una società diversa rispetto a quella in cui i tuoi genitori sono cresciuti. C’è una questione di valori legati alla fede che puoi continuare a condividere: la misericordia, la pace, la fratellanza, la tolleranza. Poi, ripeto, c’è tutto un assetto di protocollo comportamentale, di essere e vivere la realtà, che bisognerebbe mettere un po’ in discussione, non dico smantellare però mettere in discussione, perché finché la comunità italiana musulmana continuerà ad avere quella corazza e quella rigidità non riuscirà a vivere in sintonia con la società circostante.

 

 

Come vedi il futuro?

 

Io per indole sono un’inguaribile ottimista, c’è molta divisione ma se ci unissimo potremmo fare la differenza. Se vuoi vedere nel mondo un cambiamento, lo puoi vedere dalle piccole cose e dando rilievo alla bellezza. È questo l’insegnamento di mia mamma: «Un miglio si fa con tanti piccolissimi passi» e «Continua a trovare bellezza nelle piccole cose». Solo così possiamo cambiare il presente e il futuro.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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