Se per ottant'anni sono stati i sunniti a monopolizzare il potere in Iraq, le cose sono cambiate nel 2003, quando gli sciiti si sono presi una rivincita escludendo i sunniti. Oggi il sistema politico iracheno è bloccato dai suoi limiti strutturali e dalle rivalità geopolitiche regionali
Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 11:55:30
Fin dalla sua nascita nel 1920, lo Stato iracheno si è fondato sulla monopolizzazione del potere da parte di una delle sue componenti confessionali. Per 83 anni i sunniti hanno governato a scapito di curdi e sciiti. Questi ultimi si sono presi la loro rivincita dopo il 2003, escludendo dalla gestione politica i sunniti. Oggi il sistema politico creato dopo la caduta di Saddam Hussein è ostaggio, oltre che dei suoi limiti strutturali, dello scontro tra i due Paesi, l’Iran e gli Stati Uniti, che ne hanno patrocinato la creazione.
Con il suo nome e nelle sue frontiere attuali, l’Iraq non è mai esistito in quanto Stato prima della proclamazione da parte di sir Percy Cox, residente britannico a Baghdad, di un «governo provvisorio dal volto arabo», l’11 novembre 1920 (le sorti di Mosul e del Kurdistan sarebbero state decise solo nel 1925). La proclamazione aveva avuto luogo all’indomani di una grande insurrezione, la rivoluzione del 1920, che le forze britanniche avevano impiegato mesi a sedare. La parte sciita del Paese, guidata dai grandi Ayatollah, si era sollevata contro l’occupazione da parte dei britannici, effettiva dopo l’invasione del 1914, e contro l’assegnazione alla Gran Bretagna di un mandato sull’Iraq da parte della Società delle Nazioni, antenata delle Nazioni Unite.
Due grandi comunità del Paese, gli sciiti e i curdi, si erano infatti trovate escluse da un potere monopolizzato dalle élite provenienti dalla minoranza araba sunnita (il 20% della popolazione circa). Dopo una serie di sconfitte militari, queste due comunità maggioritarie (circa tre quarti della popolazione) entrarono in un periodo segnato da una guerra latente in Kurdistan e dalla comparsa di partiti politici che avrebbero aperto una fase di grandi speranze di cambiamento, rivelatesi illusorie. Dopo la sua sconfitta, nel 1925, il movimento religioso sciita iniziò una traversata nel deserto lunga mezzo secolo, lasciando spazio a partiti laici o laicizzanti (in particolare il partito comunista e il partito Baath). In realtà, nessuna comunità irachena è uscita indenne da un sistema comunitario perverso e inconfessato: ne fanno le spese, gli uni dopo gli altri, curdi, tribù arabe sciite, assiro-caldei (1932) e yazidi (nello stesso anno). I britannici avevano assegnato a reclute assiro-caldee la missione di “salvare” Baghdad dalla rivoluzione del 1920. A partire dal 1921, il nuovo esercito iracheno ne raccoglierà il testimone, rimanendo da allora in guerra permanente contro la società irachena e la sua diversità.
Guerre del Golfo e guerre confessionali
Il 1968 è l’anno del secondo colpo di Stato baathista in Iraq. Il Baath è oramai molto diverso da quello che nel 1963 aveva guidato un primo golpe. È diventato un partito sunnita dominato dai militari, in cui le strategie claniche e famigliari della piccola borghesia araba sunnita di provincia cercano di compensare la ristrettezza della sua base. Il generale Ahmad Hasan al-Bakr, parente di Saddam Hussein, diventa presidente della Repubblica. Il suo clan è originario della città di Tikrit, a 160 km a nord di Baghdad, sulle rive del Tigri. Presto, Saddam emerge come il numero due del regime.
Il tandem Ahmad Hasan al-Bakr/Saddam Hussein è costretto a cercare urgentemente degli alleati per poter governare. Il regime è infatti insidiato da un processo di “minoritizzazione” del potere, trovandosi in competizione con altri clan sunniti, originari in particolare di Mosul, ad-Dawr, Falluja, Anatha, Ramadi, Samarra. L’11 marzo 1970, Baghdad firma un accordo con il Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Mas‘ūd Barzānī al termine del quale al Kurdistan è concessa un’autonomia che non sarà mai applicata. Poco dopo, nel 1971, il governo adotta una Carta d’Unione Nazionale, sottoscritta dal PDK e dal partito comunista, che pare riesumare le alleanze dell’epoca di ‘Abd al-Karīm Qāsim, primo regime repubblicano (1958-1963) dopo la caduta della monarchia.
Nel luglio 1973, la creazione di un Fronte Nazionale Progressista che riunisce il Baath, il partito comunista e il PDK apre la strada all’ingresso dei comunisti e dei curdi nel governo. Il boom petrolifero degli anni ’70, coronato dalla nazionalizzazione del petrolio nel 1972, cambia radicalmente la situazione: il regime baathista non ha più bisogno di alleati, sospinto da una “manna petrolifera” che gli mette le ali. Ancora una volta, la guerra riprende in Kurdistan e i comunisti tornano in clandestinità.
Il regime dei Tikriti si rende allora conto che in agguato c’è un pericolo molto più minaccioso dei comunisti e dei curdi. Un nuovo movimento religioso sciita tende a riappropriarsi del posto che la leadership religiosa sciita occupava prima della sua sconfitta nel 1925. Intorno a Khomeini, in esilio a Najaf, la prima città santa sciita, un vivaio di giovani ulema prefigura i futuri leader dei movimenti islamisti sciiti non solo in Iraq, ma anche in Libano, Bahrein e nella regione saudita di al-Hasa. Questo movimento è però diverso da quello precedente: può essere qualificato come islamista, poiché ideologizza l’Islam sciita facendone un’arma politica di combattimento in chiave antioccidentale, in una concorrenza inconfessata con l’autorità dei grandi Ayatollah, che è fondata sulla conoscenza religiosa. Questa “secolarizzazione” si manifesta nella comparsa di partiti politici, come il partito Da‘wa, fondato nel 1957, che occuperanno progressivamente la scena politica sciita, sostituendosi al partito comunista. Molti dei membri di questi partiti islamisti hanno infatti un passato militante comunista o baathista. È il caso, in particolare, di ‘Ādil ‘Abd al-Mahdī, ex primo ministro iracheno.
Nel dicembre 1974, cinque ulema sciiti sono giustiziati dal regime. Sono i primi di una lista di martiri del movimento islamico che si allungherà brutalmente alla fine degli anni ’70. Nel corso delle commemorazioni sciite, messe al bando e severamente represse, prende piede in Iraq una vera guerra latente tra il regime baathista e il rinascente movimento religioso. Nel solco di Khomeini, che a Najaf aveva dato una forma teorica compiuta alla sua concezione del potere islamico, emerge tra le giovani generazioni una grande figura dell’islamismo sciita: Muhammad Bāqir al-Sadr, che redige una “nota preliminare” cui s’ispira la nuova Costituzione della Repubblica islamica dell’Iran, proclamata il 31 marzo 1979.
Il trionfante ritorno di Khomeini in Iran galvanizza nelle città sante dell’Iraq questo giovane clero sciita militante, che crede finalmente giunto il momento del riscatto. Allo stesso tempo, nel Kurdistan s’intensifica la guerra. Di fronte a una minaccia ritenuta mortale dal regime baathista, Saddam Hussein si sbarazza dei suoi rivali e s’impadronisce di tutte le leve del potere. Nel settembre 1980, l’Iraq di Saddam invade l’Iran con l’incoraggiamento tacito delle grandi potenze. L’esercito iracheno diventa il braccio armato di queste ultime per contenere la rivoluzione islamica predicata dall’imam Khomeini. Si forma implicitamente una coalizione: le petromonarchie del Golfo finanziano la guerra di Saddam contro la Repubblica islamica mentre le grandi potenze, Francia in primis, consegnano all’Iraq le più sofisticate attrezzature militari. Queste stesse grandi potenze chiuderanno gli occhi di fronte all’uso del gas negli attacchi contro le forze iraniane, iniziati nel 1982. Mentre i militanti sciiti si rifugiano in Iran, la repressione contro il movimento religioso in Iraq si intensifica: Muhammad Bāqir al-Sadr è giustiziato nel 1980.
Sarà la prima di una serie di guerre del Golfo, ognuna provocata dalla guerra precedente. Terribilmente mortale, la guerra Iran-Iraq durerà otto anni e costerà più di un milione di vittime a entrambe le parti. Quando nel 1988 entra in vigore il cessate il fuoco, non ci sono né vincitori né vinti. L’Iraq, però, è sull’orlo della bancarotta, essendosi indebitato per generazioni per acquistare i suoi equipaggiamenti militari. Saddam Hussein ritiene di non dover rimborsare i Paesi creditori, sostenendo che l’Iraq ha già pagato con il sangue dei suoi soldati, che ha salvato le monarchie petrolifere. Indebitato, ma forte della sua potenza militare, vuole essere riconosciuto come il gendarme della regione.
Le sue pretese sono però considerate minacciose dalle petromonarchie, le quali trovano l’appoggio delle stesse grandi potenze che avevano incoraggiato Baghdad a combattere contro la giovane Repubblica islamica. Il piccolo Kuwait esige così di esser rimborsato e si accaparra la quota irachena del mercato petrolifero. Le infrastrutture petrolifere di Baghdad, infatti, sono completamente distrutte e l’Iraq non è in grado di produrre altro petrolio. Washington inaugura allora un gioco perverso, da una parte rassicurando Saddam sul suo futuro e dall’altra spingendo il Kuwait ad agire per mandare in bancarotta lo Stato iracheno. La risposta di Baghdad è nota: invadendo l’emirato nel 1990, il regime di Saddam assume il controllo della “cassaforte” che sta appena al di là del suo confine.
Saddam cade così nella trappola che gli è stata tesa. Una coalizione militare internazionale capeggiata da Washington riunisce immediatamente i Paesi arabi e le grandi potenze. La sconfitta militare dell’esercito iracheno consente la rivolta contro il regime in 15 delle 18 province irachene. Nel febbraio-marzo 1991, tutti si aspettano la caduta del regime di fronte a un massiccio ritorno del movimento religioso sciita, anche se l’insurrezione è in gran parte spontanea. Gli americani permettono allora alla Guardia repubblicana di Saddam di usare gas tossici per sedare la rivolta sciita. Il Kurdistan aveva già assaggiato queste armi, in particolare ad Halabja nel 1988. La coalizione internazionale vieta alle forze aeree irachene di spingersi a nord del 36° parallelo. Ironia della sorte, l’operazione si chiama Provide Comfort (“dare conforto”)! L’esercito iracheno si ritira allora dal Kurdistan: è l’inizio dell’autonomia di questa regione.
Più a sud, la coalizione consente alla Guardia repubblicana di Saddam di soffocare nel sangue l’insurrezione sciita, provocando più di 100.000 vittime. Sconfitto dai bombardamenti statunitensi, Saddam è salvato dalla caduta da una serie di risoluzioni delle Nazioni Unite che pongono la parte araba dell’Iraq sotto tutela internazionale. La più famosa di queste risoluzioni è Oil-for-food, che priva il Paese di ogni indipendenza petrolifera. Saddam resta dunque al potere, a capo di uno Stato diviso e senza più sovranità. Dal 1991 il Kurdistan, al riparo dagli attacchi di Baghdad, naviga verso un’indipendenza inconfessata, anche se la rivalità tra Barzānī (PDK) e Talabānī (Unione Patriottica del Kurdistan, UPK) degenera in una guerra civile intra-curda.
La tutela internazionale dello Stato iracheno soddisfa tutti: i Paesi vicini e le grandi potenze. Impedisce infatti a Saddam di realizzare le sue ambizioni regionali, contenendo al contempo il movimento religioso sciita. Saranno gli attentati dell’11 settembre 2001 a cambiare la situazione. Contro il parere delle principali lobby americane coinvolte in Iraq (lobby militare, del grano, petrolifera, ebraica), l’amministrazione Bush cede alle tesi millenariste dell’elettorato evangelicale, per il quale è necessario individuare un colpevole a costo di mentire spudoratamente sulle armi di distruzione di massa e sui presunti legami di Baghdad con al-Qaida. La guerra è lanciata nel 2003 al di fuori di ogni legittimità internazionale. Questa volta la Francia si oppone alla terza guerra del Golfo. In pochi giorni, l’esercito iracheno è annientato e i governanti di Baghdad passano alla clandestinità.
Il nuovo Stato iracheno (2003)
La fine del regime di Saddam Hussein giunge nell’aprile 2003. Gli americani assistono allora a un collasso generale delle istituzioni che non avevano né previsto né immaginato. La caduta di Saddam porta con sé il crollo dello Stato iracheno creato nel 1920 dai britannici, che per 83 anni aveva assicurato il monopolio del potere alle élite della minoranza araba sunnita, escludendo sciiti e curdi. Washington si trova quindi di fronte a un minaccioso caos, con diverse insurrezioni: i baathisti in fase di riconversione verso l’Islam, ma anche gli sciiti con i sadriti, il movimento guidato da Muqtadā al-Sadr, uno dei figli di Muhammad Bāqir al-Sadr, che rappresenta gli sciiti più poveri del Paese. Di fronte all’urgenza di ricostruire le istituzioni, Washington non ha altra scelta che rivolgersi agli esclusi dal vecchio sistema: i curdi, ma anche gli sciiti. Con i curdi, che erano alleati diretti dei Paesi occidentali dal 1990, non c’erano problemi, ma rivolgersi agli sciiti considerati vicini alla Repubblica islamica dell’Iran mostra chiaramente l’impossibile quadratura del cerchio. Non è difficile immaginare con quanto poco piacere gli americani trionfanti a Baghdad abbiano visto dei turbanti tornare sul suolo iracheno dal loro esilio in Iran.
I britannici avevano conquistato la Mesopotamia ottomana grazie alla prima guerra mondiale, un’occupazione legittimata a posteriori dalla nascente comunità internazionale con l’attribuzione del mandato da parte della Società delle Nazioni. Allo stesso modo, il 22 maggio 2003, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite votò quasi all’unanimità (solo la Siria si astenne) la risoluzione 1483, che metteva fine a 13 anni di sanzioni contro l’Iraq e affidava agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, per un periodo di transizione di 12 mesi, il controllo dell’economia e il futuro politico dell’Iraq. Così come gli inglesi avevano fondato nel 1920 uno «governo provvisorio dal volto arabo» per camuffare il dominio degli arabi sunniti, gli americani trovarono tra gli islamisti sciiti e i curdi il personale per un «governo provvisorio iracheno».
Un nuovo sistema comunitario, etnico e confessionale stava di fatto emergendo sotto il paradossale patrocinio degli Stati Uniti e dell’Iran. Membri del partito islamista sciita Da‘wa, di ritorno da Teheran, divennero primi ministri e la Costituzione del 2005 legalizzò questo nuovo comunitarismo. Con il pretesto del federalismo, i curdi potevano gestire le loro tre province senza chiedere il permesso a Baghdad, mentre gli sciiti occupavano le principali posizioni di potere, in particolare attraverso la creazione di un nuovo esercito iracheno in seguito allo scioglimento dell’esercito fondato nel 1921. Gli americani dovettero però scontrarsi con una verità fondamentale: è molto più facile per una potenza occupante controllare un Paese facendo affidamento su una minoranza, come fecero gli inglesi, che su una maggioranza. Questa infatti, sapendosi tale, è molto meno docile. Gli sciiti si affrettarono perciò a esigere la partenza degli americani, in particolare attraverso il movimento sadrita.
La ricostruzione di uno Stato iracheno è stata realizzata “alla libanese”, in funzione della presunta consistenza demografica di ciascuna comunità. Si è chiamata in causa la “tradizione” per attribuire l’incarico di primo ministro, di gran lunga il più importante, a uno sciita, quello di presidente della Repubblica a un curdo del clan Talabānī (dal momento che Barzānī si è investito di quello di presidente del Kurdistan autonomo, un ruolo molto più efficace di quello di presidente della Repubblica) e la funzione meno importante di Presidente dell’Assemblea a un arabo sunnita.
Come in Libano, il problema è il venir meno dello spazio pubblico e di ogni cittadinanza comune: un fatto strutturale mascherato dal carattere “democratico” delle elezioni legislative, dove si è voluto fingere di confondere la maggioranza democratica con la maggioranza demografica. Questa trappola si è manifestata nella scomparsa virtuale dei partiti politici (il partito comunista è uno dei pochi sopravvissuti) a favore dei partiti comunitari, che si sono spartiti potere e corruzione, per non parlare del sistema di milizie, destinato a replicare il nuovo esercito. In una configurazione simile, c’è sempre un escluso: gli arabi sunniti occupano ora, nonostante le differenze di contesto, il posto che sciiti e curdi avevano conosciuto per 83 anni.
Di fronte al tandem curdo-sciita che si afferma al potere, tra le vecchie élite del regime deposto si manifesta rapidamente una radicalizzazione religiosa. Gli ex ufficiali baathisti, tornando con le loro armi nelle regioni d’origine, stringono dapprima un patto con al-Qaida. È in questo contesto che nel 2003 e nel 2004 una ribellione accende la provincia di al-Anbar (Falluja), prima di essere temporaneamente sedata dalle forze americane, aiutate per la prima volta nella storia da milizie sciite. I sadriti, da parte loro, pretenderanno di sostenere i loro “fratelli” sunniti. Ma non durerà.
Tra il 2004 e il 2008, un’impietosa guerra confessionale farà centinaia di migliaia di vittime, soprattutto tra gli sciiti, presi di mira da attacchi sempre più mortali e quotidiani. Importanti luoghi venerati dagli sciiti vengono danneggiati, come la cosiddetta Moschea d’Oro di Samarra, dove si ritiene che il dodicesimo Imam sia stato occultato agli occhi dei credenti nell’874. A Baghdad si erigono ora barricate che separano quartieri dai diversi colori confessionali. A caro prezzo, gli sciiti diventano la maggioranza nella capitale, che fino ad allora era multiconfessionale e ospitava in egual misura le due comunità musulmane.
Grazie a una politica tribale degna dell’era del mandato britannico, gli americani riescono nella prodezza di recuperare alcuni leader tribali sunniti. È il famoso Consiglio del risveglio (Sahwa), creato nel 2006. Una maggiore calma sul fronte del terrorismo permette a Washington di annunciare il ritiro dei suoi ultimi soldati dall’Iraq per la fine del 2011. A motivare il ricorso alle tribù sunnite e il desiderio non dissimulato di un disimpegno americano dal Paese c’è la consapevolezza di un pantano inestricabile da cui è necessario fuggire a tutti i costi.
Gli arabi sunniti, tuttavia, boicottano le varie tornate di elezioni legislative, prima di tentare una partecipazione attraverso una lista, al-‘Irāqiyya, che auspica un’uscita dal confessionalismo. È il 2010. Purtroppo, se è molto facile entrare in un sistema del genere, è praticamente impossibile uscirne pacificamente. Di fronte al “pericolo” sunnita, con un riflesso comunitario le varie liste sciite si uniscono, impedendo in nome della loro superiorità demografica ogni tentativo di smarcamento dal confessionalismo. Nel 2011 arrivano le Primavere arabe. La comunità araba sunnita compie un ultimo tentativo di integrarsi nel sistema in vigore. Le manifestazioni riprendono le parole d’ordine scandite dalle società civili da Damasco a Sana‘a, passando per il Cairo: libertà d’espressione, rifiuto di ogni autoritarismo, della corruzione… senza però riuscire a nascondere il carattere (anche) confessionale delle loro rivendicazioni. La risposta del governo a maggioranza sciita è senz’appello: i sit-in e le proteste pacifiche sono represse dai militari mentre barili imbottiti di tritolo, gettati dagli elicotteri, colpiscono i manifestanti. Non ci saranno altri tentativi di integrazione pacifica da parte degli arabi sunniti.
L’irruzione dello Stato Islamico
L’uso della forza più bruta contro i manifestanti del 2011 convince anche gli ultimi sunniti che ancora nutrivano speranze di una possibile integrazione nel sistema politico esistente. Un gruppo di salafiti jihadisti, tra cui al-Qaida, aveva preso il nome di Stato Islamico in Iraq fin dal 2006. Aggiungerà “e nel Levante” (Isil) nel 2013. Attrae ormai a sé molti ex baathisti, capi tribù e capi di quartieri delle città a maggioranza araba sunnita, che adottano la sua retorica. Non si tratta più di implorare l’integrazione nel sistema, ma di distruggerlo prendendo di mira gli Stati esistenti, in particolare Iraq, Siria e Libano. L’Isis strumentalizza la storia mandataria per affermare che Stati e confini non sono legittimi, perché creati dagli europei contro la volontà della maggioranza reale o presunta. Ciò che l’organizzazione jihadista dimentica di dire è che la sua stessa base appartiene a una comunità che ha dominato lo Stato iracheno grazie al mandato britannico.
Nel gennaio 2014, Falluja, situata 80 chilometri a ovest di Baghdad, cade nelle mani dell’Isis. Il 10 giugno 2014 Mosul, Tikrit e gran parte dell’Anbar sono conquistate senza colpo ferire: un fatto che si spiega con lo sbandamento dell’esercito iracheno e un’accoglienza piuttosto favorevole da parte della popolazione. I combattenti jihadisti occupano allora un terzo del territorio iracheno, che si ritrova di fatto diviso in tre zone: sciita, curda e araba sunnita. Il 13 giugno 2014, di fronte alla minaccia della presa di Baghdad da parte dell’Isis, l’Ayatollah ‘Alī al-Sīstānī, la massima autorità religiosa sciita, chiama al jihad contro Daesh (acronimo arabo di Isis, NdR). Si formano le Forze di Mobilitazione Popolare (al-Hashd al-Sha‘bī), composte da milizie sciite spesso armate dall’Iran con il rinforzo di centinaia di migliaia di volontari che accorrono nei centri di reclutamento. Intanto Abū Bakr al-Baghdādī si fa proclamare califfo e lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante si sceglie un nome abbreviato, Stato Islamico, per indicare che non ha più confini.
Se gli sciiti hanno pagato un prezzo molto alto in termini di vittime dello Stato Islamico, è un’altra comunità a rivendicare lo status di vittima di genocidio: gli yazidi, investiti dall’odio implacabile dei jihadisti. Espulsi dalle loro terre ancestrali nel Nord dell’Iraq, hanno conosciuto l’inferno: migliaia di esecuzioni sommarie, donne ridotte a schiave sessuali, reclutamento forzato di bambini, utilizzati anche in operazioni suicide. La comunità yazida si è trovata davanti alla possibilità di sparire completamente. Già nel 2014, le Nazioni Unite avevano definito la campagna dell’Isis contro di loro un «tentativo di genocidio». Riconosciuti per la prima volta con due membri nel parlamento iracheno, gli yazidi d’Iraq hanno sperimentato a proprie spese i tormenti del confessionalismo politico.
Nell’agosto 2014 si costituisce una vasta coalizione anti-Daesh composta da 22 Paesi guidati dagli Stati Uniti e dai Paesi occidentali. Sarà la tacita collaborazione tra le milizie sciite filo-iraniane e le campagne di bombardamenti, soprattutto americane, a permettere di recuperare una alla volta le città conquistate dall’Isis. Il 17 ottobre 2016 inizia la battaglia per Mosul, condotta congiuntamente dall’esercito iracheno, dalle milizie sciite e dai peshmerga curdi, aiutati da una campagna di bombardamenti della coalizione anti-Daesh. La città è riconquistata nel luglio 2017: ci sono voluti più di otto mesi per riprendere la capitale religiosa dello Stato islamico.
La sconfitta militare di quest’ultimo è anche quella di una comunità che gli si era consegnata per disperazione. Le centinaia di migliaia di profughi che ancora si accalcano nei campi ai margini dei deserti, sottoposti alle vessazioni delle milizie sciite, rimuginano silenziosamente il loro odio per gli sciiti e sono un terreno fertile per le cellule jihadiste dormienti. A più di quattro anni dalla “vittoria” irachena contro l’Isis, il centro storico di Mosul è ancora un campo di rovine in cui gli ex residenti non sanno nemmeno se potranno mai tornare.
La fine del dominio territoriale dell’Isis ha tolto al governo iracheno l’argomento utilizzato per giustificare il collasso dei servizi pubblici, in particolare le ricorrenti interruzioni di corrente causate da ondate record di calore, le interruzioni dell’acqua, l’assenza di fognature, lo sfacelo degli ospedali pubblici. Poiché nulla sembrava voler cambiare, una volta che la minaccia è apparentemente scomparsa le manifestazioni sono riprese con gli stessi slogan del 2015 e del 2016 per criticare la classe politica, il confessionalismo con il suo sistema di quote (muhāsasa) in quanto responsabile della corruzione e il completo fallimento dello Stato di “non-diritto” nelle sue funzioni sovrane. È singolare che in questa occasione il movimento di protesta sia prima di tutto opera degli sciiti. Le elezioni parlamentari del 2018 hanno portato alla carica di primo ministro ‘Ādil ‘Abd al-Mahdī, che rivendicava l’immagine di outsider per soddisfare la richiesta dei manifestanti di sostituire in toto di una classe politica corrotta e incapace. La disperazione di molti degli sciiti più poveri ha portato in Piazza Tahrir a Baghdad sempre più manifestanti, finché nel 2019 se ne sono contati più di un milione.
La risposta del nuovo primo ministro è stata quella di un discorso conciliante verso le richieste dei manifestanti, reprimendoli allo stesso tempo. Più di 500 persone sono cadute sotto i colpi della polizia o di cecchini non identificati: una prova del fatto che il problema non è chi detiene il potere, ma il sistema politico stesso, che si dimostra irriformabile. Quando è stato chiesto loro di dire chi fossero i destinatari delle loro richieste, i manifestanti hanno risposto «di certo non la classe politica al potere!», di cui aspettavano solo la partenza. Anche l’Ayatollah al-Sīstānī non è riuscito a incarnare un’alternativa credibile, tanto il suo nome è associato a un sistema che all’inizio ha benedetto egli stesso.
Il carattere insostenibile del sistema politico iracheno può essere considerato come direttamente legato alla natura dello Stato, ma anche ai suoi confini, come hanno mostrato i vari progetti di unione con altri Paesi arabi, che si tratti della Mezzaluna Fertile cara a Nūrī Sa‘īd, primo ministro onnipotente sotto la monarchia, o delle unioni arabe, baathiste o nasseriane che fossero.
Inoltre, si tende spesso a dimenticare che l’istituzione dell’attuale sistema politico basato sull’appartenenza comunitaria è potuta avvenire solo grazie al tacito patrocinio congiunto di Stati Uniti e Iran a partire dal 2003. Quell’anno vide la caduta del regime di Saddam Hussein, ma non solo. L’occupazione americana dell’Iraq concluse così 83 anni di monopolio del potere da parte delle élite provenienti dalla minoranza araba sunnita. Il nuovo Stato iracheno ha dato segni del suo fallimento molto più velocemente del suo predecessore. Diciassette anni dopo la proclamazione del Consiglio di governo di transizione da parte di Paul Bremer, l’amministratore statunitense dell’Iraq, il nuovo Stato ha trascinato “Il Paese dei due fiumi” in una serie di impasse.
Il fallimento di un sistema
Il 9 aprile 2020 il presidente iracheno, il curdo Barham Sālih, nomina un nuovo primo ministro, Mustafā al-Kāzimī: è il terzo candidato in quattro mesi. Il campo filo-iraniano ha infatti ottenuto il ritiro di ‘Adnān al-Zurfī. Ex governatore sciita della provincia di Najaf, quest’ultimo era stato nominato primo ministro dopo le dimissioni di Muhammad Tawfīq ‘Allāwī, incapace di formare un governo un mese dopo essere stato incaricato. Respinto tanto dalle milizie sciite e dal campo filo-iraniano quanto dalla piazza, il nuovo arrivato era stato tacciato da tutti di essere «un agente americano». Ex membro del partito islamista sciita Da‘wa, dal quale proviene la maggioranza dei primi ministri iracheni successivi al 2003, dopo la repressione della rivolta sciita del febbraio-marzo 1991 da parte del regime di Saddam Hussein, ‘Adnān al-Zurfī ha vissuto in esilio negli Stati Uniti, dove mantiene molti contatti. Quest’incapacità di formare un governo è l’illustrazione di una situazione deleteria in cui l’epidemia di coronavirus si è aggiunta alla crisi petrolifera (con il crollo dei prezzi del petrolio) e all’impasse politica che l’Iraq ha vissuto dalle dimissioni, alla fine di novembre 2019, del primo ministro ‘Ādil ‘Abd al-Mahdī.
Secondo i termini della Costituzione irachena del 2005, il presidente della Repubblica ha infatti un mese di tempo per nominare un primo ministro, scegliendolo dalle liste che hanno ottenuto la maggioranza alle elezioni legislative. A quella data, le ultime elezioni risalivano al 2018. Arrivata in testa con 54 seggi, la lista Sā’irūn (“In Marcia”) riunisce i sostenitori di Muqtadā al-Sadr e dovrebbe rappresentare i quartieri poveri e sciiti delle grandi città, in particolare l’immenso quartiere ribattezzato Madīnat al-Sadr (La città di al-Sadr) dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003. In passato, il movimento sadrita esprimeva uno sciismo arabo iracheno spesso opposto allo sciismo iraniano, rappresentando una sfida non solo per gli americani, designati come i nemici da espellere dal Paese e combattuti con le armi dal 2003 al 2008, ma anche per l’autorità religiosa sciita incarnata dal grande Ayatollah al-Sīstānī a Najaf.
La seconda lista (48 seggi), l’Alleanza della Conquista (al-Fath) rappresenta le milizie sciite dominate dalle Forze di Mobilitazione Popolare (al-Hashd al-Sha‘bī), guidate da Hādī al-‘Āmirī, che è anche a capo dell’organizzazione Badr, una delle milizie più impegnate sul campo. Al-‘Āmirī, considerato vicino a Teheran, ha raggiunto un accordo con Muqtadā al-Sadr, che è sembrato rinunciare alla sua posizione “nazionalista” irachena per un patto confessionale sciita. Queste milizie, a cui è stato giustamente riconosciuto il merito per la vittoria contro l’Isis nella campagna di riconquista condotta tra il 2014 e il 2017, sono state in seguito integrate nelle forze di sicurezza irachene, pur conservando una vasta autonomia. Non hanno forse permesso di limitare l’Isis in un momento in cui l’esercito iracheno aveva subito una disfatta totale, a cui era seguito uno sbandamento generale? Sempre a loro si deve la riconquista dei territori persi a causa dei jihadisti. In terza posizione, con 42 seggi, arriva l’Alleanza della Vittoria (Nasr) che intende promuovere l’ex primo ministro Haydar al-‘Abādī, membro del partito Da‘wa, come “Padre della Vittoria” per il ruolo svolto durante la campagna contro l’Isis. Infine, va menzionato lo “Stato di Diritto” (25 seggi), guidato da Nūrī al-Mālikī, ex primo ministro sciita diventato capolista al posto del confratello Iyād ‘Allāwī, il quale aveva cercato di porre fine al confessionalismo durante le elezioni del 2011, con una lista che attirò molti voti sunniti.
Il nuovo primo ministro, Mustafā al-Kāzimī, è stato il capo dei servizi iracheni, nominato in questo ruolo da Haydar al-‘Abādī. Benché ritenuto vicino agli americani, in suo favore sembra essersi formato un consenso, soprattutto tra i filo-iraniani e i filo-americani. Riuscirà dove i suoi predecessori hanno fallito? La scelta della persona sembra comunque mostrare una tardiva presa di coscienza, da parte della classe politica, dell’emergenza in cui si trova il Paese. Al-Kāzimī appare come l’uomo dell’ultima possibilità per un sistema politico alla deriva. Il nuovo primo ministro ha già annunciato elezioni parlamentari anticipate nel 2021, l’ultima spiaggia cui gli uomini di un sistema in fallimento ricorrono per guadagnare tempo, come in Libano. Un esempio della difficoltà del nuovo premier iracheno a imporsi è il rilascio, pochi giorni dopo il loro arresto, dei combattenti filo-iraniani responsabili di un lancio di razzi contro gli americani. Un affronto per al-Kāzimī, che tentava, con questo raid, di imporsi al fronte anti-Washington. Le brigate di Hezbollah, da cui provenivano i 14 arrestati, hanno poi minacciato di perseguire al-Kāzimī per “rapimento”.
‘Ādil ‘Abd al-Mahdī, vicino al Supremo Consiglio islamico sciita, aveva dovuto rinunciare alla sua funzione di fronte al crescente movimento di protesta nella parte sciita del Paese, con più di 500 morti ufficialmente registrati, vittime delle forze di sicurezza e dei cecchini incappucciati appollaiati sui tetti. Fatto di sciiti contro sciiti, questo movimento esprimeva la disperazione di una popolazione abbandonata alla miseria, il fallimento dei servizi pubblici, la corruzione a tutti i livelli dello Stato e dell’amministrazione e il nepotismo diffuso. La principale rivendicazione era il rovesciamento di un sistema legato al confessionalismo politico in vigore nel Paese dal 2003 e l’esigenza di sostituire un’intera classe politica disprezzata con tecnocrati senza partito né fedeltà confessionali.
Dal 1° ottobre 2019, infatti, un movimento di protesta inedito per ampiezza e radicalità ha dimostrato che il sistema in atto è arrivato a fine corsa. «Mā nurīd qā’id ja‘farī, tālīhā yetla‘ sarsarī!» (“Non vogliamo un leader sciita che alla fine diventa una canaglia!”) oppure: «Bism al-dīn, bāgūnā al-harāmiyya!» (“In nome della religione, i ladri ci depredano!”). Questi slogan gridati da centinaia di migliaia di manifestanti da Piazza Tahrir a Baghdad fino a Bassora, passando per Nassiriyya e le città sante sciite, testimoniano che si è varcata la soglia di non ritorno. Tentato per un attimo di svolgere il ruolo di padrino delle riforme, Muqtadā al-Sadr si è arreso, mostrando la sua consueta versatilità, per non alienarsi l’appoggio degli eletti nella sua lista. Anche l’Ayatollah al-Sīstānī, che sembrava dare ragione ai manifestanti, invitando il governo a soddisfare le loro «richieste legittime» entro 30 giorni, non è riuscito a incarnare agli occhi disillusi dei manifestanti la capacità di guidare il movimento. Si può misurare da questi segnali una secolarizzazione della società irachena che l’ascesa al potere di membri dei partiti islamisti sciiti ha avuto la tendenza a occultare. La lista sadrita Sā’irūn non ha forse concluso un accordo con i comunisti, i loro avversari di sempre e concorrenti nei quartieri più poveri delle grandi città?
È questa la forza e allo stesso tempo la debolezza del movimento: spinto dai social network, non ha visto emergere alcun leader. Da un lato, ciò lo ha preservato da qualsiasi accaparramento; dall’altro, lo ha privato di ogni traduzione politica. I manifestanti hanno sistematicamente barrato con una croce rossa i ritratti dei nuovi primi ministri o dei presunti candidati.
Il nuovo “Stato” iracheno si è potuto costituire nel 2003 solo grazie a un patrocinio paradossale: quello di Stati Uniti e Iran. L’assassinio a Baghdad, il 3 gennaio 2020, da parte di un drone americano, di Qassem Soleimani, capo della Nīrū-ye Qods dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, e del suo luogotenente iracheno, Abū Mahdī al-Muhandis, leader delle Forze di Mobilitazione Popolare che riunisce le milizie sciite, ha messo in moto un ingranaggio che ha fatto temere una guerra aperta tra i due sponsor del sistema esistente a Baghdad. Preso in una morsa, l’Iraq è diventato il terreno privilegiato dello scontro tra i due Paesi. Ciò è culminato nel voto del parlamento iracheno, il 5 gennaio, di una risoluzione che chiedeva la partenza delle truppe statunitensi dal Paese. Dei 6.000 militari stranieri impegnati nella lotta contro l’Isis, 5.200 sono infatti americani. Per rappresaglia, bombardamenti regolari attribuiti alle milizie sciite hanno preso di mira la zona verde di Baghdad e le basi americane nel Nord del Paese, uccidendo diversi americani.
Il divorzio tra i due sponsor del sistema esistente a Baghdad ha cominciato a manifestarsi pubblicamente con l’arrivo al potere di Donald Trump il 20 gennaio 2017. Il nuovo presidente americano si è rapidamente ritirato dall’accordo sul nucleare, sostituendolo con sanzioni economiche che hanno strangolato l’economia iraniana. La forte dipendenza dell’Iraq dal suo vicino iraniano per i beni di prima necessità ha permesso una “esenzione” dell’Iraq dalle sanzioni contro Teheran. Ma nel tempo queste “esenzioni” si sono fatte più rigide. Il vuoto lasciato dal ritiro americano dall’Iraq del 2011 è stato infatti colmato dalla crescente influenza iraniana sulla scena politica e religiosa irachena: Trump non ha fatto altro che reagire a un crescente squilibrio preservando la volontà americana di disimpegnarsi da un pantano. Una conseguenza di questo divorzio è rappresentata dal fatto che il fallimento del sistema eretto tra il 2003 e il 2005 si è manifestato in tutta la sua portata.
A fine febbraio 2020 l’Iraq ha annunciato la chiusura del confine con l’Iran mentre l’Ayatollah al-Sīstānī ha emesso una fatwa che dichiarava la lotta al coronavirus un «obbligo collettivo». L’Iran, il Paese più colpito nella regione, ha ufficialmente invitato il presidente degli Stati Uniti Trump a sospendere le sanzioni, con diversi Ayatollah iraniani di alto livello a dar voce a questa richiesta, così come alcuni artisti iraniani. Senza risultati.
Ma non sempre la pietà popolare obbedisce agli ordini delle autorità religiose. Così, il 21 marzo, una processione di decine di migliaia di pellegrini sciiti ha celebrato la nascita dell’Imam Mūsā al-Kāzim nella periferia di Baghdad. Alcuni di essi hanno affermato di essere «pronti a morire per il loro Imam». Il leader populista sciita Muqtadā al-Sadr, a differenza dell’Ayatollah al-Sīstānī, aveva invitato i fedeli a partecipare alla commemorazione. Tuttavia, rispetto agli scorsi anni, l’evento è stato caratterizzato da due cambiamenti importanti: il numero contenuto di pellegrini e la quasi totale assenza di quelli iraniani.
L’epidemia sta colpendo gravemente l’Iraq, benché le autorità ne minimizzino la portata. Il virus ha svuotato le strade delle città sciite dei loro manifestanti (ad eccezione di alcune decine di “irriducibili” accampati in piazza Tahrir a Baghdad). Inoltre, ha avuto l’effetto paradossale di ridurre le influenze straniere sul Paese (in particolare quelle degli sponsor iraniani e americani) e al contempo di rafforzare la solidarietà tra comunità di fronte a uno Stato incapace di gestire la crisi sanitaria.
La minaccia dell’Isis e l’impasse in Kurdistan
Il 26 ottobre 2019, al-Baghdādī, l’autoproclamato califfo dello Stato Islamico, è stato ucciso da un drone americano nella provincia siriana di Idlib ed è stato sostituito da un iracheno sconosciuto. Lo Stato Islamico aveva già perso i suoi ultimi territori nell’ottobre 2017 con la riconquista di Raqqa, la “capitale amministrativa” dell’Isis nella valle dell’Eufrate in Siria, da parte delle Forze Democratiche Siriane (per lo più curde) sotto copertura aerea americana. Da allora lo Stato Islamico è tornato in clandestinità, limitandosi ad attacchi contro le forze irachene e statunitensi, in particolare lungo il confine tra Siria e Iraq. I suoi numerosi sostenitori, soprattutto a Mosul, mantengono un basso profilo in attesa di giorni migliori, come tante cellule dormienti. D’altronde nessuna delle cause che hanno generato l’emergere dello Stato Islamico nel 2014 è scomparsa. Al contrario. Le decine di migliaia di profughi ammassati in campi improvvisati ai margini dei deserti, a cui è stato impedito di tornare nelle città in rovina, in particolare a Mosul, covano silenziosamente il loro odio per gli sciiti. Gli arabi sunniti iracheni sono privati di ogni reale rappresentanza in parlamento, dove a parlare in loro nome sono alcuni eletti, soprattutto quelli del Partito Islamico Iracheno, vicino ai Fratelli Musulmani, considerati “collaboratori” di coloro (le milizie sciite e gli americani) che hanno annientato gli alti ranghi della loro comunità. Non sorprende che i parlamentari arabi sunniti e arabi curdi si siano opposti al voto sciita che chiedeva la partenza dei soldati statunitensi dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani.
Secondo fonti non verificabili, l’Isis avrebbe ordinato ai suoi combattenti di evitare di recarsi in Europa per evitare il contagio. Altre fonti, invece, fanno rivendicare all’organizzazione jihadista la paternità del virus, descritto come «punizione divina». Una conseguenza importante dell’epidemia di coronavirus è stata il congelamento delle attività della coalizione contro l’Isis. Uno ad uno, i Paesi della coalizione hanno ridotto la loro partecipazione alle attività militari terrestri legate alla lotta contro l’organizzazione jihadista. Gli Stati Uniti hanno annunciato la sospensione dell’addestramento delle forze armate irachene, il ritiro di una parte significativa dei soldati americani impegnati nella lotta allo Stato Islamico e la loro sostituzione con droni. La Francia ha scelto, il 25 marzo 2020, di ritirare tutti i soldati presenti in Iraq per attività di addestramento contro l’Isis (200 soldati dell’operazione Chammal). La coalizione ha poi ripreso le sue attività di sorveglianza. Ma la domanda rimane: l’Isis non rischia di rinascere su una parte consistente del territorio iracheno grazie all’isolamento del Paese e all’indebolimento della coalizione? L’epidemia sarà forse l’ultima possibilità dell’organizzazione di tornare al centro del gioco politico? La domanda è tanto più logica se si considera che il potere iracheno non è mai stato così incapace di una riforma di qualsiasi tipo. Questo vale anche per gli oppositori del sistema (principalmente sciiti), ma che dire degli arabi sunniti? Non è il voto congiunto dei deputati curdi e di quelli arabi sunniti contro la partenza delle truppe americane richiesta dagli sciiti a poter cambiare la situazione. I partiti sunniti in parlamento hanno perso da tempo il loro elettorato e sono oramai dei burattini al soldo di Washington.
Il 25 settembre 2017, intanto, si è tenuto a Kirkuk e nei territori contesi il secondo referendum sull’indipendenza della provincia curda. La stessa sera Barzānī ha annunciato il trionfo del sì, con il 92,79% dei voti a favore dell’indipendenza. Il referendum è stato voluto dal leader del PDK, che domina la capitale Erbil e il Kurdistan iracheno settentrionale. Il partito curdo rivale, l’UPK, a cui appartiene il presidente della Repubblica, vicino a Baghdad, si era rifiutato di aderire.
Kirkuk e i territori contesi sono stati presi dai combattenti curdi (i peshmerga) il 14 giugno 2014 quando lo Stato Islamico sbaragliò l’esercito iracheno. Il 16 ottobre 2017, le forze di Baghdad sostenute dalle milizie sciite ripresero Kirkuk, riportandola sotto il potere centrale. Kirkuk è una città multietnica dove le maggioranze sono cambiate più volte a seconda delle politiche portate avanti da Baghdad e dai partiti curdi: arabizzazione sotto Saddam Hussein, curdizzazione sotto il regime del Kurdistan autonomo. Importanti comunità turkmene e arabe, sunniti e sciiti, si trovano spesso ostaggio di questo braccio di ferro.
Il referendum ha scatenato una levata di scudi: prima di tutto dei partiti sciiti al governo, ma anche della Turchia e dell’Iran. Baghdad ha subito reagito con un voto del parlamento nazionale, dichiarando illegale il referendum e varando sanzioni contro il Kurdistan, in particolare la chiusura dell’aeroporto di Kirkuk. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, con fare minaccioso, ha dichiarato illegale l’iniziativa, allorché il Kurdistan iracheno dipende fortemente dalla Turchia per esportare il proprio petrolio. Quanto alle grandi potenze, hanno tutte rifiutato qualsiasi iniziativa che metta in discussione l’unità dell’Iraq. Solo Israele ha accolto con favore il risultato del referendum.
Il referendum sull’indipendenza curda mostra ancora una volta la volontà del popolo curdo iracheno di avere un proprio Stato. Ma si è risolto in un fallimento, dal momento che l’unità dell’Iraq è stata ancora una volta preferita alle legittime aspirazioni dei suoi abitanti. L’iniziativa ha illustrato inoltre le divisioni curde: oltre al UPK, il partito Gorran (“Movimento per il Cambiamento”), che per lungo tempo ha rappresentato l’emergere di una società civile curda di fronte ai partiti al potere (PDK e UPK), ha boicottato il referendum. A ciò si aggiungono i secondi fini di Barzānī che, senza un vero mandato elettorale da oramai diversi anni, aveva bisogno di una rinnovata legittimazione.
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Pierre-Jean Luizard, Iraq: lo Stato contro la società, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 26-41.
Riferimento al formato digitale:
Pierre-Jean Luizard, Iraq: lo Stato contro la società, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/iraq-lo-stato-contro-la-societa
Bibliografia essenziale
Ali Babakhan, L’Irak, 1970-1990: déportation des chiites, Babakhan, Noisiel 1994.
Hanna Batatu, The Old Social Classes and the Revolutionary Movements in Iraq, Princeton University Press, Princeton 1978.
Martin van Bruinessen, Agha, Shaykh and State: the Social and Political Structures of Kurdistan, Zed Books, London 1992.
Pierre-Jean Luizard, La question irakienne, Fayard, Paris 2002-2004.
Pierre-Jean Luizard, Comment est né l’Irak moderne, CNRS Editions, Paris 2009.
Pierre-Jean Luizard, Le piège Daech, L’État islamique ou le retour de l’Histoire, La Découverte, Paris 2017.