Dopo l’impegno con i Giovani Musulmani d’Italia, di cui è stata presidentessa, e una specializzazione in ambito economico, Nadia Bouzekri si è dedicata all’attivismo nella società civile. In quest’intervista insiste sulla necessità di un’Intesa con lo Stato italiano.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:27
Nadia Bouzekri è vice presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) ed è stata la prima donna ad essere eletta presidentessa dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia (GMI). L’intervista fa parte della serie “Voci dell’Islam Italiano” realizzata nell’ambito del progetto L’Islam in Italia. Un’identità in formazione.
Intervista a Nadia Bouzekri a cura di Sara Manisera
Qual è il tuo percorso di formazione?
Mi sono laureata in Lingue a Milano, poi grazie al mio impegno nella società civile ho iniziato a gestire le attività dei giovani attivi nell’associazione Giovani Musulmani d’Italia, così mi sono appassionata alla tematica del management e ho scelto di specializzarmi in ambito economico e manageriale.
Perché hai scelto di dedicarti alla società civile e all’attivismo?
Ho iniziato a essere attiva nella società civile quando avevo sedici anni. Oggi ne ho ventisette. Sono partita da una piccola realtà a Monza, dove c’erano altri ragazzi che, come me, avevano bisogno di sentirsi parte di una comunità. Grazie all’attivismo a Monza con i Giovani Musulmani d’Italia, sono entrata a far parte del direttivo nazionale, occupandomi di campagne di comunicazione e di sensibilizzazione sui diritti umani. Nel 2016 sono stata eletta presidente e lì è stato un “boom” perché ero la prima donna a ricoprire questo ruolo. In realtà, erano anni che le donne portavano avanti l’associazione però non si era ancora formata quella mentalità culturale necessaria per eleggere una donna. In quegli anni ho viaggiato tanto, ho fatto parte di tavoli ministeriali, dove portavo le rivendicazioni anche più banali, per esempio avere una sala di preghiera multifede all’università, utilizzabile da tutti, oppure la giustificazione per i bambini durante il Ramadan. Io per anni ho festeggiato mettendo “malattia”, mentre in realtà era una festa religiosa. Sono delle piccole cose che fanno la differenza nella vita di una persona perché ti fanno sentire diverso. In quei due anni, ero molto attiva anche a livello europeo nel FEMYSO, il Forum Europeo delle associazioni studentesche musulmane. Abbiamo portato avanti delle campagne per contrastare l’islamofobia. La cosa bella di questo confronto con i giovani europei musulmani è stato riconoscere quanto siamo fortunati in Italia. Per esempio qui è permesso esprimere la propria religiosità e spiritualità, sia attraverso il vestiario che con la croce. In Francia tutto ciò è negato per quest’idea di laicismo estremizzato che alla fine va a negare i diritti dei cittadini, cioè si è tutti uguali negando sé stessi. Io penso che alla fine la Costituzione italiana sia davvero la migliore perché sulla carta io dovrei avere tutti i diritti come l’assistenza spirituale negli ospedali, il cibo halal, la sala preghiera…
E in pratica?
In pratica non c’è tutto questo perché non c’è un’intesa tra lo Stato e la comunità, quindi sulla carta ho dei diritti ma nella pratica no. L’assenza di un’Intesa tra Stato e comunità musulmana è dovuta in parte alla frammentarietà della comunità musulmana ma al tempo stesso penso che questa sia una scusa, perché se osserviamo bene notiamo che lo Stato ha sette Intese con le realtà evangeliche. Questo significa che volendo si potrebbero fare diverse intese con le differenti associazioni musulmane. Ciò non accade perché una volta che si ha l’Intesa, vuol dire avere maggiori diritti, vuol dire riconoscere la festività del digiuno, vuol dire che una parte del 5 per mille può andare anche all’Islam. Io penso che sia importante il riconoscimento dei musulmani come cittadini italiani di pari livello che hanno diritto a un luogo dove pregare. In Italia ci sono 1300 sale di preghiera ma solo 5 sono riconosciute come moschee e questo è un problema.
Quali sono le maggiori difficoltà da donna e da musulmana?
La sfida principale delle donne è uscire da questa scatola in cui l’etichetta conta di più. Mi spiego meglio: io indosso il velo ma anche se non lo portassi sarei lo stesso musulmana. È molto facile essere cristiani, musulmani o ebrei per eredità ma è più difficile viverlo consapevolmente. Il velo è una cosa intima, non è solo coprirsi ma racchiude una serie di valori. Ciò non significa che una ragazza con il velo non possa divertirsi, andare in palestra o a un concerto. Io esco con le mie amiche, faccio l’aperitivo, ho una vita normale e non ho bisogno di bere per integrarmi. Immagina però un ragazzo di sedici anni che esce con i suoi amici al Mc Donald e non può mangiare perché non è halal. Questo può essere sentito come un problema perché si sente diverso dai suoi amici.
Sei mai stata discriminata sul lavoro per la religione?
Dipende dalle città. Milano non fa testo. Nelle piccole realtà è molto più difficile, io ci ho messo un anno e mezzo per trovare uno stage a Reggio Emilia. A volte nel curriculum ho evitato di mettere la lingua araba perché poteva crearmi problemi. Quindi sì, ho subito una doppia discriminazione per essere donna e musulmana.
Qual è il rapporto con la tua famiglia?
I miei amici dicono che la mia famiglia è molto progressista (ride, NdR). Mia madre è sempre stata molto indipendente, mio padre ha viaggiato tantissimo prima di fermarsi in Italia quarant’anni fa. Ho sempre avuto la liberta di fare ciò che volevo e i miei genitori mi hanno lasciata libera di scegliere. Mi rendo conto che a volte è difficile conciliare culture diverse. Ho sempre mantenuto un legame con il Marocco, quindi qui ero la marocchina e in Marocco ero l’italiana, ma non mi è mai piaciuto definirmi perché so quanto sia importante essere italiana e marocchina allo stesso tempo.
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