Cosa determina il successo o il fallimento delle nazioni?

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Ultimo aggiornamento: 14/10/2024 12:17:06

Why Nations Fail copertina libro acemoglu.jpgRecensione di Daron Acemoğlu, James Robinson, Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty, Crown Business, New York 2012

 

L’economista del MIT Daron Acemoğlu e il politologo di Harvard James Robinson esprimono in questo testo la proficua complementarietà di due discipline talvolta tanto lontane negli approcci quanto vicine nell’oggetto di fondo della ricerca. Why Nations Fail è una coinvolgente sintesi (rigorosa e al tempo stesso fruibile) di un lunghissimo percorso di esplorazione accademica, idealmente avviato dagli studi di Douglas North negli anni Ottanta nell’ambito della cosiddetta New Institutional Economics, e portato alla ribalta proprio da Acemoğlu e Robinson negli ultimi vent’anni. La domanda di fondo è sintetizzata nel titolo: cosa determina il successo o il fallimento delle nazioni?

 

Partendo dalla constatazione che a tutt’oggi permangono abnormi differenze nei livelli di reddito tra i Paesi del mondo, i due autori offrono numerosi esempi in cui a fronte di prossimità geografica, culturale e sociale, si riscontrano grandissime disparità negli standard di vita. È il caso eclatante della città di Nogales, divisa a metà tra USA e Messico da una semplice recinzione, in cui il reddito medio del lato statunitense è almeno tre volte quello della metà messicana. Cosa differenzia queste due località se non l’appartenenza a entità politiche differenti? Allo stesso modo, come mai il Botswana negli ultimi anni ha saputo diventare un esempio di sviluppo dell’africa Sub-Sahariana, in un contesto regionale in cui paesi molto simili, come lo Zimbabwe, occupano costantemente il fondo di ogni possibile classifica di sviluppo economico? Qual è dunque la chiave del successo o del fallimento di una nazione, se le “vecchie” ipotesi legate a geografia, cultura e società decadono? La risposta fornita dagli autori è una sorta di mantra che riecheggia nella gran parte della letteratura economica mainstream: “le istituzioni contano”.

 

Alla radice del percorso di sviluppo di un Paese, infatti, Acemoğlu e Robinson pongono l’adozione da parte di una società di istituzioni “inclusive” piuttosto che “estrattive”. Nel primo caso, si instaura un meccanismo virtuoso tra Stato e società, tra politica ed economia, per cui l’attività economica viene supportata da incentivi che ne favoriscono la crescita e l’espansione. Nel secondo caso, invece, l’elite dominante sfrutta al massimo le risorse esistenti per il proprio tornaconto immediato, innescando un circolo vizioso dettato dal desiderio di rivalsa di quanti sono esclusi dall’accesso al potere politico ed economico. Le istituzioni inclusive si basano sul riconoscimento da parte dell’autorità politica di una sfera di autonomia privata che garantisce innanzitutto la proprietà e la certezza del diritto, rendendo le transazioni economiche più prevedibili e meno rischiose. Allo stesso tempo, le istituzioni inclusive permettono di estendere la base di quanti hanno accesso alle risorse disponibili, limitando i pericoli d’instabilità politica.

 

Un esempio storico caro ai New Institutional Economists è certamente quello dell’Inghilterra del XVII secolo, a cui Acemoğlu e Robinson dedicano infatti due capitoli del loro libro. In quel periodo, culminato nella “Gloriosa Rivoluzione” del 1688, l’Inghilterra prima e l’Europa Occidentale poi avviarono un processo di riforme economiche e politiche che portarono alla creazione di un connubio virtuoso tra partecipazione politica e ricchezza economica.

 

Quell’epoca storica, dunque, rappresenta una “giuntura critica” della storia, in cui alcune nazioni hanno avviato un percorso di successo politico ed economico di lungo periodo. Pur con il fascino tipico delle spiegazioni snelle ed essenziali, le tesi di Acemoglu e Robinson lasciano spazio a domande che rimangono aperte: che cosa determina il verificarsi di una “giuntura critica”? Esistono precondizioni che di fatto spiegano il successo già prima che esso si manifesti? Di certo un’interpretazione eccessivamente deterministica del ruolo delle istituzioni appare limitante. Al tempo stesso, la convincente spiegazione che il destino dei popoli non sia segnato a priori lascia spazio alla speranza per quanti lavorano per costruire un mondo più equo.

 

 

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