Una circolare del Ministero degli Affari islamici ha ordinato di limitare l’uso degli altoparlanti durante la preghiera. L’inversione di tendenza rispetto agli ultimi decenni, durante i quali gli amplificatori erano stati uno dei simboli dell’islamizzazione dello spazio pubblico
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:29
Dall’Arabia Saudita continuano ad arrivare annunci di riforme. Dopo l’abolizione del divieto di guida per le donne, l’apertura del Regno al turismo, l’inaugurazione dell’industria dell’intrattenimento, quasi inesistente fino al 2018, e le riforme del sistema della giustizia saudita annunciate dal principe ereditario Muhammad bin Salman, sembra essere arrivato anche il turno delle moschee.
A fine maggio il ministero saudita degli Affari islamici ha diffuso una circolare in cui ordinava agli imam di utilizzare gli altoparlanti delle moschee esterni solo per l’adhān, cioè l’appello del muezzin a partecipare alla preghiera rituale, e l’iqāma, la seconda chiamata alla preghiera, che ne segna anche l’inizio. A livello pratico, questo significa che le cinque preghiere giornaliere non potranno più essere diffuse interamente attraverso gli amplificatori, come invece avveniva fino a un mese fa. La circolare stabiliva inoltre che il volume degli altoparlanti non dovesse superare un terzo della potenza dei dispositivi e minacciava azioni legali contro chiunque violasse queste disposizioni. Con due sole eccezioni: le moschee di Mecca e Medina, che sono dispensate da questi obblighi in quanto amministrate in maniera indipendente attraverso un ente guidato dall’imam della moschea di Mecca.
Ufficialmente questa decisione è stata giustificata dal fatto che la sovrapposizione delle voci degli imam delle diverse moschee disturba i malati, gli anziani e i bambini che vivono nelle vicinanze delle moschee.
Di fatto, però, nella storia recente dell’Arabia Saudita e di molti altri Paesi a maggioranza musulmana la decisione di alzare o abbassare il volume degli altoparlanti delle moschee ha avuto e continua ad avere una forte valenza simbolica, dal momento che un volume alto è stato spesso un elemento centrale delle politiche di islamizzazione dello spazio pubblico.
Nel caso saudita, la decisione di limitare l’uso dei microfoni esterni delle moschee e abbassarne il volume riflette un cambio di visione della leadership del Paese, per la quale già da alcuni anni la predicazione islamica non è più una priorità assoluta, come invece lo è stata per lungo tempo a partire dagli anni ’60. Essa segnala inoltre la volontà politica di invertire la tendenza degli ultimi cinquant’anni, durante i quali l’influenza della religione si era dilatata fino a investire tutta la sfera pubblica.
Un ulteriore segnale di questo cambio di rotta è la proposta avanzata solo pochi giorni fa di eliminare l’obbligo di chiusura delle attività lavorative durante le cinque preghiere giornaliere. Per legge, infatti, fino a oggi in Arabia Saudita quando inizia l’adhān e per tutta la durata delle cinque preghiere giornaliere, i negozi devono abbassare le serrande, le banche chiudere gli sportelli e le società sospendere l’erogazione dei servizi. Tutto si ferma, anche le farmacie e i distributori di benzina.
L’Arabia Saudita non è nuova ai dibattiti sull’uso dei microfoni nelle moschee. Il problema si presenta ciclicamente ormai da diversi decenni. Negli anni ’70 gli imam delle regioni più conservatrici del Paese avevano opposto una forte resistenza alla loro introduzione, invocando il principio salafita per cui tutto ciò che si discosta dalla pratica delle prime generazioni di musulmani va rifiutato. A distanza di quarant’anni, dopo che gli altoparlanti sono diventati una consuetudine, a suscitare le polemiche è la decisione opposta di ridurne l’utilizzo. Una decisione che peraltro ha dei precedenti: nei primi anni 2000 il ministero degli Affari religiosi si era già raccomandato in questo senso e qualche anno prima Muhammad ibn al-‘Uthaymīn, uno dei più autorevoli giuristi salafiti del Novecento, aveva sancito con una fatwa il divieto di diffondere le preghiere con gli altoparlanti per non disturbare i vicini.
In passato, queste raccomandazioni sono sempre cadute nel vuoto. Nel 2016 Saudi Gazette, uno dei maggiori quotidiani sauditi, ha denunciato l’insubordinazione degli imam che da anni disattendevano le indicazioni del ministero degli Affari religiosi. Gli imam dissenzienti temevano infatti che il mancato utilizzo degli altoparlanti avrebbe avuto un impatto negativo sulla devozione delle persone. All’epoca, il quotidiano aveva attaccato duramente anche il ministero degli Affari religiosi, accusato di non aver mai adottato alcuna misura nei confronti dei trasgressori e perciò «di non essere pronto ad attuare la Visione2030, che richiede una esecuzione rapida delle decisioni».
Oggi, dopo l’ultima circolare diffusa dal ministero, l’opinione pubblica saudita continua a essere molto polarizzata: da un lato, chi approva la decisione fa leva sulla fatwa di Muhammad ibn al-‘Uthaymīn, dall’altro i contrari fanno valere il principio del “o tutti o nessuno”, chiedendo di proibire anche la musica ad alto volume nei ristoranti e, più generalmente, nei locali pubblici.
Nel frattempo, la stampa filo-regime saudita si è attivata per sostenere l’iniziativa del ministero. Il dibattito sui microfoni è diventato così un’occasione per screditare ulteriormente i militanti della Sahwa, il movimento religioso nato negli anni ’60 in Arabia Saudita dall’incontro tra attivismo islamista e rigorismo wahhabita, e che soprattutto a partire dagli anni ’90 avrebbe dato filo da torcere all’establishment wahhabita e alla casa regnante. Per il giornalista saudita Fahd Sulaymān al-Shaqīrān, ex imam di una moschea a Burayda, capoluogo del Qassim (una delle regioni più conservatrici del Paese), ed ex dipendente del ministero degli Affari religiosi, i microfoni sono stati per lungo tempo il simbolo della lotta tra due correnti rivali, i sahwi e i wahhabiti per l’appunto, i quali si contendevano lo spazio acustico delle città attraverso i microfoni delle moschee. La recente circolare sancirebbe dunque la vittoria dello Stato sull’Islam politico, accusato di aver utilizzato in maniera impropria gli altoparlanti delle moschee per fare propaganda e diffondere le proprie idee politiche a scapito del wahhabismo e della famiglia reale. «Il microfono non è più una frusta nelle mani di un gruppo estremista» – conclude il giornalista nel suo articolo. Una posizione che sorvola sulle responsabilità della leadership saudita nelle scelte del passato, ma chiarisce quali sono le priorità di oggi.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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