Nella visione riformatrice del principe Muhammad Bin Salman gioca un ruolo importante la religione
Ultimo aggiornamento: 22/06/2022 11:08:52
Nella visione riformatrice del principe Muhammad Bin Salman gioca un ruolo importante la religione. L’erede al trono promette di tornare alla “moderazione” precedente al 1979, anno della grande trasformazione. Ma è decisamente presto per parlare della de-wahhabizzazione del Regno. Nel corso della storia gli ulema sauditi hanno sempre saputo adattarsi ai cambiamenti, perché tutto rimanesse come prima.
Con l’ascesa fulminea del principe Muhammad Bin Salman (MBS) una nuova pagina sembra aprirsi nella storia dell’Arabia Saudita. Il nuovo uomo forte di Riyadh ha imposto uno stile completamente diverso: le sue dichiarazioni quanto meno roboanti ne rivelano improvvisamente l’ambizione, e cioè riconfigurare il campo sociale saudita per monopolizzare il potere. Per realizzare il suo sogno assolutista, MBS dovrà impossessarsi della sfera politica, economica e diplomatica del Paese, ma soprattutto controllare la risorsa simbolica più importante del Regno: la religione. In questo campo diverse sue affermazioni – sostenere un Islam moderato – e diversi suoi gesti – permettere alle donne di guidare – sono stati interpretati come segni precursori di un progetto inedito, profondamente rivoluzionario: la de-wahhabizzazione della società e del regime. Ma una volta presa la distanza necessaria e superata l’euforia del momento, che cosa pensare veramente di questo progetto? Osservare da più vicino le variabili storiche e sociologiche che pesano sulle scelte di MBS consente di definirle meglio, collocandole allo stesso tempo nella storia lunga del Paese.
Un’alleanza indefettibile
In realtà i tentativi di normalizzazione, se non di emarginazione, del wahhabismo non sono nuovi: si radicano infatti nella turbolenta storia politico-religiosa dell’entità saudita. Nata nella seconda metà del XVIII secolo nell’Arabia centrale, questa teocrazia legittima le sue ambizioni egemoniche fondandosi su una dottrina letteralista e messianica, il wahhabismo, che è una riedizione della scuola giuridica e teologica hanbalita.
Il fondatore di questa dottrina, Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb (m. 1792), afferma che solo la stretta osservanza dell’ortodossia e dell’ortoprassi stabilite dalla dottrina hanbalita rende possibile la riuscita in questa vita e nell’aldilà. Egli esclude dalla comunità e dalla salvezza tutti coloro che non aderiscono a tale dogma, in particolare i sufi, e afferma che il jihad è lo strumento principale per riportare sulla retta via “gli smarriti”. In effetti, l’adozione del jihad consente all’emirato saudita di legittimare una politica espansionistica che si traduce nel controllo di buona parte dell’Arabia tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.
Dopo aver consolidato la comunità e diffuso la dottrina, Ibn ‘Abd al-Wahhāb inaugura una nuova fase: nel tentativo di farsi accettare dagli altri musulmani comincia a sfumare lievemente le sue posizioni, in particolare quelle relative all’esclusione dei nemici dalla comunità e dalla salvezza (takfīr). I suoi eredi creano un vero e proprio establishment religioso e proseguono il processo di normalizzazione: mitigano alcuni aspetti della dottrina, in particolare la condanna del sufismo e la stigmatizzazione delle altre correnti dell’Islam. In tal modo, gli eredi di Ibn ‘Abd al-Wahhāb si propongono di rispondere alla nuova e inedita situazione dell’emirato saudita, che in seguito alla conquista della Mecca e di Medina all’inizio del XIX secolo non è più un’entità marginale, ma è diventato una potenza islamica. Da fenomeno periferico, il wahhabismo si è dunque trasformato in una realtà rilevante per l’intera umma dell’epoca.
Ma questo timido spirito di apertura lascia rapidamente il passo al ripiegamento dottrinale. Per far fronte all’Impero ottomano e preservare l’unità e l’omogeneità dell’emirato saudita in declino, gli ulema wahhabiti sviluppano per tutto il XIX secolo idee ultraconservatrici ed esclusiviste, in particolare la dottrina detta al-walā’ wa-l-barā’ (“la lealtà [verso i musulmani] e la rottura [con gli infedeli]”). È fondandosi principalmente su queste idee, e approfittando di circostanze favorevoli, che re ‘Abd al-Azīz Ibn Sa‘ūd (r. 1902-1953) fonda il regno dell’Arabia Saudita.
L’alleanza indefettibile tra i depositari del wahhabismo e il monarca saudita non impedisce a quest’ultimo di dar prova di lucidità circa la natura della tradizione che promuove e la sua incompatibilità strutturale con il suo nuovo status di protettore dei luoghi santi dell’Islam, capo di uno dei pochi Paesi musulmani indipendenti e monarca di un territorio etnicamente e religiosamente disomogeneo. Per evitare qualsiasi tipo di crisi, Ibn Sa‘ūd intraprende una duplice operazione: rendere il wahhabismo più rispettabile (e quindi più accettabile) e cercare di “diluirlo” in una corrente politico-religiosa più moderata e soprattutto più modernista, il riformismo islamico.
Questo tentativo di rimodellare il wahhabismo non ha però indebolito i religiosi sauditi, mostrando piuttosto la loro grande capacità di adattamento. Gli ulema non soltanto hanno ridato lustro alla loro tradizione, in particolare monopolizzando il termine “salafismo” (che all’epoca aveva una connotazione positiva), ma hanno fatto proprie anche alcune idee e gran parte dei progetti riformisti, emarginandone i promotori, per difendere la propria visione del mondo. In cambio di concessioni nell’ambito dell’istruzione, dell’amministrazione e degli “aggiornamenti dottrinali” riguardo il jihad e i rapporti con i non-musulmani, i religiosi sauditi hanno mantenuto una posizione centrale nello spazio sociale. Questa capacità di adattamento è il riflesso di un’etica della responsabilità, come è stata definita da Max Weber. In altre parole, essa è la capacità di riflettere e agire tenendo conto delle esigenze del contesto e dei rapporti di forza per preservare l’essenziale di ciò che si ritiene essere la verità. Ed è proprio quest’etica della responsabilità che consentirà al wahhabismo di superare le crisi, consolidare il potere a livello locale e far crescere le sue ambizioni universali a partire dal regno di Faysal (1964-1975).
Dagli anni ’50 all’11 Settembre
Negli anni ’50 e ’60, l’Arabia Saudita è chiamata a fronteggiare numerose sfide interne ed esterne, in particolare davanti alle pretese egemoniche dell’Egitto. Per sopravvivere, la monarchia deve modernizzare la sua struttura statale e ciò non può avvenire senza colpire gli interessi dei depositari del wahhabismo. La diffusione dell’istruzione specialmente tra le ragazze, l’introduzione del diritto positivo, l’afflusso massiccio di manodopera straniera, la creazione di media d’intrattenimento (TV e cinema), la riduzione del budget e delle prerogative della polizia religiosa e la creazione di isole di libertà generano necessariamente degli attriti tra i due partner storici.
Ma ancora una volta i religiosi wahhabiti riescono a superare le tensioni e a evitare l’emarginazione ricorrendo alla loro strategia adattativa. Approfittano anzi della lotta con l’Egitto e del flusso di petrodollari per conseguire vantaggi. Pur essendo ultraconservatori, assimilano molto rapidamente il savoir-faire dei “miscredenti”, specialmente nell’ambito organizzativo, creando istituzioni capaci di rispondere alla modernità imperante. In pochi anni nascono così una moltitudine di facoltà, istituti, scuole, apparati amministrativi, organi giudiziari, associazioni e media. Contemporaneamente gli ulema lavorano alla creazione di organizzazioni pan-islamiche (la Lega Musulmana Mondiale, l’Università Islamica di Medina...) con lo scopo di contrastare il secolarismo e promuovere il wahhabismo quale nuova ortodossia islamica.
Sfruttando il dilemma della monarchia, combattuta tra due tendenze contrarie, l’establishment religioso acquisisce così una formidabile forza d’urto, che non tarda a utilizzare. Nel 1979 una serie di eventi scuote lo spazio sociale saudita: la rivoluzione islamica in Iran, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la conquista della Mecca da parte di un gruppo messianico e la firma del trattato di pace israelo-egiziano. La crisi economica che scoppia l’anno successivo non fa che peggiorare la situazione. Il Paese, profondamente destabilizzato, si lancia allora in una fuga in avanti tradizionalista sotto l’egida degli stessi depositari del wahhabismo, sostenuti dai leader dei Fratelli musulmani. Mentre sulla società saudita cala una cappa di piombo, tra il wahhabismo e le varie tendenze dei Fratelli musulmani si producono ibridazioni che generano l’islamismo saudita (la sahwa) e il jihadismo.
Dopo gli attentati dell’11 settembre, l’Arabia Saudita si ritrova nell’occhio del ciclone. I cambiamenti sociali, il calo del prezzo del petrolio, la pressione americana e la minaccia jihadista spingono le autorità di Riyadh ad adottare una politica di decompressione che promuove un Islam “moderato”, “aperto” e “tollerante”. Editorialisti e intellettuali sono autorizzati a criticare apertamente il wahhabismo, le prerogative della polizia religiosa vengono ridotte, si avvia un dialogo intra- e interreligioso, molti studenti sono mandati all’estero, lo statuto della donna è discusso e persino leggermente migliorato, vengono creati nuovi strumenti e luoghi di divertimento, le isole di libertà sono rinforzate e i ricercatori stranieri tollerati.
Nell’euforia del momento gli osservatori cominciano persino a parlare di “primavera di Riyadh” e di “post-wahhabismo”. Ben presto però, non appena la congiuntura economica migliora e la situazione politica si chiarisce, il regime ritorna progressivamente ai fondamentali e chiude la parentesi “liberale”. La situazione evolve rapidamente dopo il 2011. L’Arabia Saudita inaugura una “controrivoluzione” preventiva, la cui punta di lancia è il wahhabismo. Se da un lato crescono i finanziamenti all’istituzione religiosa, dall’altro le opposizioni laiche e islamiste vengono imbavagliate. Il regime esibisce il suo rispetto per l’ortodossia wahhabita nello spazio pubblico, applica alla lettera le punizioni corporali e promuove un discorso anti-sciita. In cambio, gli ulema concedono alle donne il diritto di voto e le autorizzano a sedere in alcuni organismi governativi. Ma è solo fumo negli occhi.
L’avvento del giovane principe
Con il 2015 prendono avvio alcuni cambiamenti significativi. In soli due anni il principe Muhammad Bin Salman riesce a eliminare, almeno temporaneamente, i suoi rivali e a monopolizzare il potere in una maniera inedita. Per far fronte alle sfide interne ed esterne e legittimarsi, non perde occasione di affermare la sua volontà di trasformare il Regno. Anche la sfera religiosa è interessata da questa trasformazione. Tra le varie misure “liberali”, alle donne viene permesso di guidare entro il 2018 e si annuncia la riapertura dei cinema dopo 35 anni di divieto, anche se non si conoscono ancora le modalità di questa riapertura. Il 24 ottobre 2017 MBS lancia poi una denuncia in piena regola delle “idee estremiste” e promette di “distruggerle”. Questo, secondo lui, consentirà al Paese di «ritornare a un Islam mediano, moderato, tollerante e aperto al mondo e a tutte le altre religioni». Ma come interpretare veramente queste parole e queste decisioni, in cui alcuni hanno voluto vedere una reale rottura con il wahhabismo?
Innanzitutto, MBS riprende volontariamente il ritornello dell’Islam moderato e della via mediana, alla quale si appellano quasi tutte le tendenze musulmane, specialmente le più rigoriste, per distinguersi dai jihadisti, ma non precisa in alcun modo in che cosa esso consista realmente. In seguito però lo spiegherà più chiaramente, evocando il 1979, l’anno dei grandi cambiamenti, e la sahwa (il risveglio islamico) come le due fonti principali dell’estremismo. Essendo state profondamente destabilizzate, le autorità saudite hanno collaborato più strettamente con i Fratelli musulmani. La corrente della sahwa, che nasce in questo periodo con l’ibridazione tra le idee del wahhabismo e le modalità di azione dei Fratelli musulmani, è uno dei risultati di questa collaborazione. Ed è esattamente quello a cui si oppone MBS quando auspica lo sradicamento della Fratellanza e di tutte le sue ramificazioni, in particolare il jihadismo, il che non può che piacere ai wahhabiti1, esonerati da ogni responsabilità.
Quanto alla politica verso le donne, essa è un riflesso sia di opportunismo sia di vincoli strutturali. Il fatto di autorizzarle a guidare costituisce una prosecuzione della politica inaugurata da re Abdallah (r. 2005-2015) per assicurarsi il sostegno delle donne e di una parte della popolazione e migliorare l’immagine del regime agli occhi degli occidentali. Questo è il lato opportunista. D’altra parte, le donne saudite sono sempre più qualificate e non incoraggiarle a lavorare sarebbe un enorme spreco economico. Da diversi anni circola l’idea di sostituire una parte della manodopera straniera con donne saudite, soprattutto nel settore dei servizi.
Ancora una volta, i depositari del wahhabismo si stanno adattando rapidamente a questi cambiamenti. Per preservare i loro interessi temporali e spirituali, gli ulema sono disposti a fare concessioni su punti che considerano secondari, come del resto avevano già fatto negli anni ’40 e ’50 per l’istruzione femminile, la televisione, il cinema e la presenza di stranieri. È quello che è avvenuto recentemente per la patente alle donne. A questo proposito, già alcuni anni fa, diversi importanti ulema avevano affermato che la guida delle donne non era una questione religiosa, ma un problema sociale che avrebbe potuto evolvere. Lo stesso accade per il settore dell’abbigliamento. Uno degli ulema più in vista ha infatti dichiarato che indossare la abaya, il lungo mantello nero che copre integralmente gli abiti delle donne, non è un obbligo religioso.
Fare una previsione delle relazioni future tra la monarchia e l’establishment religioso non è facile. A oggi però, l’alleanza storica che lega i due partner non viene messa in discussione, cosa che MBS e gli ulema non perdono occasione di ricordare. Per sopravvivere alla ridistribuzione autoritaria in corso, gli ulema wahhabiti sembrano disposti, ancora una volta, ad accettare alcuni cambiamenti decisi dal regime. Cambiare tutto per non cambiare nulla.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Per saperne di più
David Commins, The Wahhabi Mission and Saudi Arabia, I. B. Tauris, London 2006.
Michael Crawford, Ibn ‘Abd al-Wahhab, Oneworld Publications, Cambridge 2015.
Michael Farquhar, Circuits of Faith. Migration, Education, and the Wahhabi Mission, Stanford University Press, Stanford 2016.
Bernard Haykel et alii (a cura di), Saudi Arabia in Transition: Insights on Social, Political, Economic and Religious Change, Cambridge University Press, Cambridge 2015.
Stéphane Lacroix, Les Islamistes saoudiens : une insurrection manquée, PUF, Paris 2010.
Amélie Le Renard, Femmes et espaces publics en Arabie Saoudite, Dalloz, Paris 2011.
Nabil Mouline, Les Clercs de l’islam. Autorité religieuse et pouvoir politique en Arabie Saoudite (XVIIIe-XXIe siècle), PUF, Paris 2011 (disponibile anche in traduzione inglese e araba).
Madawi Al-Rasheed, Muted Modernists: The Struggle over Divine Politics in Saudi Arabia, Hurst & Co., London 2015.
[1] È in questo contesto che va collocato l’arresto, nell’autunno 2017, di diverse figure dell’islamismo saudita tra cui Salmān al-‘Awda, ‘Awad al-Qarnī, Muhammad al-Habdān e ‘Abd al-Azīz al-‘Abd al-Latīf. Detto questo, la purga, che mirava a soffocare qualsiasi velleità di opposizione, non ha colpito soltanto i principali attori dell’Islam politico saudita ma anche intellettuali e religiosi di orientamenti diversi, burocrati, uomini d’affari, politici e persino alcune decine di membri della famiglia reale.