Per anni la Chiesa indonesiana ha avuto un ruolo educativo di primo piano. Oggi deve però fare i conti con la crescita del fondamentalismo islamico e le tendenze in atto a livello globale

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:08

Da due decenni almeno constatiamo che la globalizzazione e lo sviluppo tecnologico sono diventati un vettore di stimolo degli scambi e delle possibilità di formazione e apprendimento, favorendo così la costruzione di nuovi modelli educativi da parte degli specialisti. L’Indonesia se da un lato, grazie a una certa élite, manifesta un’attitudine particolare a trarre profitto da questa situazione di apertura, dall’altro tuttavia sembra non considerare più prioritario sviluppare nell’ambito dell’educazione proposte che incoraggino la formazione globale e interiore della persona.

Un’eccezione è forse costituita dalla Chiesa d’Indonesia che non si arrende, anche se a causa della mancanza di mezzi e di persone sufficientemente formate, sembra perdere la capacità di attirare e preparare i futuri quadri della società.

Siamo giunti a questa constatazione nella nostra ultima missione in Indonesia. Partiti con l’obiettivo di valutare l’elargizione di borse di studio destinate a religiosi e sacerdoti indonesiani, abbiamo anche preso in considerazione la questione dell’educazione nel suo complesso, pur consapevoli dei limiti del nostro sguardo rispetto alla complessità della società indonesiana: più di 13 mila isole estese su più di 5 mila chilometri, circa mille etnie, 250 milioni di abitanti testimoni di una storia recente carica di fardelli. Pensiamo al recente sisma del settembre 2009 che ha colpito la città di Padang, nell’isola di Sumatra, facendo migliaia di morti, o alle oltre 50 mila vittime dello tsunami o ai conflitti che hanno destabilizzato la convivenza tra cristiani e musulmani e la piccola comunità di cristiani che costituisce il 9% della popolazione totale.

In due settimane abbiamo preso l’aereo 18 volte per conoscere il più possibile il paese: da Aceh fino a Ambon, senza tuttavia arrivare in Papua Nuova Guinea e in molte altre regioni!

La prima evidenza riguarda la concentrazione di università e di istituti specializzati nella capitale Jakarta, a svantaggio delle periferie e delle altre grandi città dell’arcipelago.

L’accesso a studi di qualità è diventato sempre più una possibilità limitata a ceti benestanti, visto il peso delle tasse universitarie sui bilanci familiari. Questo sistema di quasi-privatizzazione degli studi superiori sta comportando conseguenze non trascurabili sulla società indonesiana, gravemente colpita anche recentemente da pesanti crisi economiche.

Ci limiteremo a segnalare il caso degli studi in medicina per i quali fino a qualche anno fa lo Stato sosteneva finanziariamente gli studenti così da poter esigere in seguito che i borsisti dedicassero qualche anno della loro vita professionale alle zone rurali del paese. La riduzione delle borse statali se ha nell’immediato permesso un certo risparmio, allo stesso tempo ha privato lo Stato di un prezioso meccanismo di scambio di prestazioni di cui poteva beneficiare tutto il paese. In occasione del nostro passaggio a Ambon, nelle isole Molucche, una religiosa che lavorava come infermiera ci raccontava come la partenza di uno dei medici avesse quasi paralizzato l’attività dell’ospedale gestito dalla diocesi e come fosse quasi impossibile trovare un sostituto.

Un altro fenomeno, conseguenza della globalizzazione, si manifesta nella concentrazione di istituti stranieri, in particolare americani e australiani, che proponendo programmi orientati verso i curricula in vigore negli Stati Uniti e in Australia, preparano gli studenti indonesiani a una carriera professionale in questi paesi. Si tratta di un sistema per formare a basso costo (e soprattutto facendo pagare agli indonesiani le spese educative) i futuri quadri negli ambiti di cui l’Occidente e i paesi del nord del pianeta hanno bisogno.

La scelta degli studenti viene indirizzata verso gli studi di economia e di gestione, di diritto e di medicina. Anche gli studi scientifici, politologici e di psicologia godono di un certo credito, e soprattutto aprono le porte a una carriera importante nel paese. Le scienze umane e la filosofia suscitano invece poco interesse per via delle scarse prospettive che aprono: per questo, come ci diceva un alto responsabile del governo, sono l’Islam e la pratica musulmana che insegnano e monopolizzano la questione etica.

Lo Stato spinge le sue università e le università private a sviluppare un approccio di tipo manageriale, che procura loro un certo dinamismo, ma comporta anche il rischio di focalizzare l’interesse sulle facoltà più apprezzate sul mercato. Bisogna saper vendere il prodotto educazione, affermarsi a livello del marketing. Le università sono certificate dal Ministero a condizione che i professori ricevano un salario minimo di 3,5 milioni di Rp – 350 dollari. Un lavoro ben remunerato se consideriamo che in passato solo i professori più qualificati raggiungevano un salario simile.

Ci sono poi le grandi sfide finanziarie nella gestione delle università e delle scuole specializzate. Tale scenario riflette d’altra parte molto bene la situazione di tutto il sistema educativo, inclusa la scuola dell’obbligo. In quest’ottica, le scuole cattoliche devono sempre più confrontarsi con difficoltà finanziarie dovute alla diminuzione costante di studenti musulmani che si orientano verso scuole musulmane o di Stato per ragioni di qualità.

È certo un segnale positivo che indica un miglioramento nella qualità dell’insegnamento di queste istituzioni. Tuttavia più di uno tra i nostri interlocutori attivi nel mondo universitario vede la disaffezione verso le scuole cattoliche da parte dei musulmani come una conseguenza di un Islam sempre più chiuso in se stesso. Così un gran numero di scuole cattoliche lottano per sopravvivere, a causa della mancanza di studenti che pagano le rette o, nelle zone rurali, di insegnanti. Le istituzioni gestite dalla Chiesa si trovano così da qualche anno in un vicolo cieco. Per garantirsi la sopravvivenza dovranno aumentare le tasse degli studenti, penalizzando in questo modo le famiglie cattoliche che spesso sono anche le più povere tra i poveri!

L’indebolimento della Chiesa in un settore nel quale generalmente eccelle non può che preoccupare e allarmare. Questo essenzialmente per due ragioni. L’educazione rappresenta da sempre un mezzo privilegiato per far vivere il messaggio del vangelo a persone di altre confessioni e religioni, contribuendo così alla convivenza tra cristiani, minoritari e spesso minacciati di persecuzione, e i musulmani. E infine le scuole cattoliche sono state fino a oggi un servizio rivolto ai cattolici, ma anche di grande utilità per la società in generale vista la qualità del loro insegnamento, unanimemente apprezzato e riconosciuto. A queste opere lavorano un gran numero di sacerdoti e religiosi locali, con il contributo decisivo dell’impressionante lavoro svolto dai missionari stranieri. Ma non è sempre sufficiente. È vero che abbiamo incontrato diverse persone degne di nota che stanno facendo un lavoro eroico per la Chiesa. Ma l’ampiezza e le esigenze del contesto superano di molto la loro possibilità di azione. La formazione dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici cattolici d’Indonesia rappresenta una necessità primaria. Occorre infatti dar loro solide basi e conoscenze sicure in ambiti come la filosofia, la teologia e molte altre discipline delle scienze umane, che in Indonesia rischiano di sparire o di essere insegnate da un corpo docente talvolta non sufficientemente preparato o, come ci diceva un Vescovo, da persone che hanno fallito negli studi o nella carriera. Questa discipline non sono solo necessarie al rafforzamento della fede dei cristiani, ma anche ad accompagnare una società in tutte le questioni che toccano il cuore dell’uomo e della sua dignità. Una società che rischia di essere disumanizzata dal capitalismo selvaggio o di essere distrutta dalla violenza di un fondamentalismo legalista. I Vescovi e gli alti responsabili della Chiesa indonesiana sono ben coscienti della loro sfida, e anche questo è a nostro avviso un segnale incoraggiante sia per il paese che per il suo sistema educativo.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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