Indonesia/La consapevolezza di essere sempre più minacciati dagli estremisti violenti grava sulle comunità cristiane, così come sulle altre minoranze religiose. Tra le diverse cause della montante intolleranza non ultima è la debolezza dello Stato. Da dove ripartire per arginarla?
Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 16:00:25
A quattordici anni dalla liberazione degli indonesiani da quarant’anni di governo autoritario, desta preoccupazione «il numero crescente di attacchi violenti contro le minoranze religiose, in particolare cristiani e ahmadi, e delle campagne di intimidazione e vessazione» (Christian Solidarity Worldwide). In Indonesia l’intolleranza è in aumento, soprattutto nei confronti dei cristiani. In alcune zone di Java e Sumatra è diventato molto difficile costruire chiese[1]. Nella provincia di Aceh – l’unica provincia in Indonesia dove la sharî‘a sia stata introdotta ufficialmente – un neoeletto capo regionale ha chiuso arbitrariamente 11 chiese. Ancora più precaria è la situazione della setta islamica Ahmadiyya e dei musulmani sciiti. Essi, insieme ad altre cosiddette sette dagli “insegnamenti devianti”, sono spesso minacciati fisicamente. L’odio verso di loro è espresso apertamente e i loro membri sono fisicamente in pericolo[2]. Per avere un quadro completo bisogna tuttavia aggiungere che il 95% delle comunità cristiane indonesiane immerse in maggioranze musulmane vive, comunica, lavora e professa la propria fede in pace. Cambiare la propria religione, anche per i musulmani, è legale e accade effettivamente. Le minoranze non sono sistematicamente discriminate. Ciononostante i cristiani si sentono minacciati e si domandano che cosa riserverà loro il futuro in Indonesia. Lady Gaga in Indonesia Dietro la recente ondata di intolleranza ci sono almeno cinque fattori. Il primo è a volte trascurato. È insita nella natura umana una tendenza a diffidare di ciò che è nuovo. Le cose estranee e naturalmente le persone estranee sono istintivamente percepite come una potenziale minaccia. Questa reazione innata innesca l’intolleranza per il diverso. L’intolleranza, potenzialmente, è sempre in agguato e può trasformarsi in risentimento, in odio aperto e addirittura in ossessioni omicide. Il secondo fattore è proprio la modernizzazione, che esercita su molte persone e su intere comunità o società un notevole stress. I meccanismi sociali tradizionali hanno perso il loro potere, le persone si isolano, improvvisamente devono lottare per la sopravvivenza, e la sola garanzia è il denaro. La dura legge della modernità stabilisce che, prima di occuparsi dei bisogni degli altri o della comunità (tradizionalmente tutto si faceva in comunità), è necessario soddisfare i propri bisogni e quelli della propria famiglia. In una tale situazione la presenza di “altri” è percepita come una minaccia. Il terzo fattore – come brillantemente messo in luce da Horkheimer e Adorno più 70 anni fa – è che la razionalità economica sta prendendo il sopravvento in ambiti sempre più numerosi della vita sociale. La razionalità, che era concepita come il fondamento della dignità della persona umana, viene erosa dalla domanda di efficienza economica dettata dagli interessi di un capitalismo globale in crescita. Ciò significa che in un Paese come l’Indonesia la competizione diventa la vera legge della vita quotidiana. Le reti sociali comunitarie sono sostituite dai rapporti impiegato-datore di lavoro, in cui la lealtà verso un capo potente assicura il successo del singolo. In un clima del genere la tolleranza non ha spazio. L’alterità diventa una minaccia. La legge della competizione, naturalmente, implica anche che l’esistenza di altre religioni non sia percepita solo come pluralità, ma come un ostacolo. In Indonesia, un quarto fattore è la grande mobilità delle persone. Gli indonesiani percorrono il Paese in lungo e in largo, da Aceh a Papua, da Java a Minhassa, in cerca di opportunità. In questo modo entrano in un rapporto di competizione e di minaccia con gli abitanti locali. Ciò significa che le persone che vivono in regioni musulmane tradizionalmente omogenee potrebbero rimanere sbalordite se una domenica, improvvisamente, dovessero udire canti cristiani uscire da una casa. D’altra parte, le poche regioni in cui i cristiani sono in maggioranza si devono preparare ad una situazione in cui essi diventeranno minoranza (e l’Islam maggioranza). Di nuovo, una situazione del genere rende la tolleranza difficile. Il quinto fattore è, naturalmente, il fenomeno globale del revival islamico. In condizioni di culture globali dominate dal capitalismo e dall’Occidente – Lady Gaga è invitata in Indonesia – questa rinascita si trasforma facilmente in fondamentalismo, radicalismo e, in generale, estremismo. Norme e realtà In linea di principio queste sfide globali trovano risposta nei principali pilastri dell’etica politica post-tradizionale: rispetto per i diritti umani, democrazia e impegno per la giustizia sociale. Tutti e tre gli elementi sono saldamente radicati nella Costituzione indonesiana attuale. L’Islam indonesiano tradizionale si è posto in modo chiaro ed esplicito nel solco della Costituzione e della sua fondamentale filosofia politica dei Pancasila, i cinque principi fondamentali su cui è stato edificato lo Stato indipendente. Perfino i musulmani più intransigenti non mettono in discussione il diritto dei cristiani alla libertà, compresa la libertà di culto. I leader dei musulmani tradizionali denunciano pubblicamente le violenze e accusano lo Stato di non compiere il suo dovere davanti alla violenza a sfondo religioso. È vero infatti che gli autori di atti di violenza sono trattati con indulgenza e che i funzionari regionali e locali rifiutano, spesso opportunisticamente, di applicare la legge. In Indonesia troviamo anche il noto fenomeno della maggioranza silenziosa che, pur non approvando la violenza, quando questa si verifica fa finta di non averla vista. Come i cristiani affrontano questa situazione? Perché le chiese disturbano Naturalmente esistono comunità evangeliche fondamentaliste che fanno proselitismo senza nessun freno, opportune importune. Esse generano un risentimento nei confronti dei cristiani in generale. Un ulteriore fattore di complicazione in Indonesia è la tendenza delle comunità protestanti a dividersi. Ne consegue che lo stesso numero di cristiani ha bisogno di un numero sempre crescente di chiese. Per i musulmani è veramente difficile capire perché in un quartiere in cui, per esempio, esistono già cinque chiese, debba aggiungersene una sesta, mentre il numero dei cristiani rimane limitato. D’altra parte, più la comunità cristiana è piccola, più diventa difficile impegnarsi nella comunicazione con le comunità musulmane locali. Mentre una parrocchia cattolica tipica, nella megalopoli di Jakarta, può contare 10.000 membri distribuiti nel raggio di quattro chilometri, con una varietà di giavanesi, cinesi, florinesi, bataki e membri di altre etnie, una comunità protestante potrebbe avere solo 10.000 membri in tutta Jakarta (al momento in Indonesia ci sono circa 390 comunità protestanti registrate), etnicamente omogenei e quindi privi di legami con la comunità locale. Le comunità protestanti i cui diritti sono violati – come nel caso della comunità Yasmin di Bogor e della comunità Philadelphia a Bekasi –, non possono fare altro che resistere alle pressioni e fare fronte alle crescenti molestie inflitte loro ogni domenica dalle folle musulmane. La congregazione Yasmin ha ripetutamente tenuto le proprie funzioni domenicali davanti al palazzo presidenziale a Jakarta cercando di mettere in imbarazzo il Presidente Susilo Bambang Yudoyono. In generale, i cattolici evitano le situazioni conflittuali. Essi utilizzano le loro risorse umane per costruire pazientemente delle relazioni con i musulmani locali. Sperano così di riuscire a convincerli ad assumere quell’atteggiamento tollerante che, secondo il vocabolario islamico indonesiano, dovrebbe essere l’atteggiamento dei musulmani verso le minoranze religiose (talvolta questa pazienza diventa operativa nel momento in cui i cristiani offrono un sostegno finanziario alle iniziative musulmane locali). I cattolici e la maggior parte dei protestanti sono convinti che saranno al sicuro in Indonesia solo se riusciranno a costruire relazioni di fiducia con l’Islam tradizionale. In realtà, le relazioni con i musulmani si sviluppano già positivamente a tutti i livelli. Queste relazioni sono state avviate durante gli anni Trenta dagli intellettuali indonesiani e i politici che lottavano per l’indipendenza dagli olandesi. I valori nazionali – lo sviluppo, la lotta alla povertà, il rifiuto del comunismo – e gli ideali etici – la tutela dei diritti umani e gli ideali della filosofia di Stato – li hanno uniti. Questo movimento si affermò durante il governo autoritario di Suharto. Un certo numero di musulmani di larghe vedute, come Abdurrachman Wahid (Presidente della Repubblica Indonesiana 1999-2001), hanno contribuito enormemente alla creazione di una generazione di giovani aperti. Negli ultimi sedici anni sono state stabilite relazioni strette con la dirigenza nazionale e locale delle due grandi organizzazioni della società civile musulmana: la Nadlatul Ulama (NU) e la Muhammadiyah. Queste relazioni positive hanno dato prova della loro solidità durante le due brutali guerre civili tra cristiani e musulmani nell’Indonesia orientale, che tra il 1999 e il 2002 hanno fatto quasi 10.000 morti e mezzo milione di sfollati. La comunicazione non è mai stata interrotta, e questo si è rivelato molto utile per il raggiungimento degli accordi di pace. Quando i cattolici hanno difficoltà con i musulmani non si rivolgono alla polizia, né ai tribunali ma alla NU. Nonostante non possano sempre risolvere i problemi (per esempio, superare la resistenza locale alla costruzione di una chiesa), sono comprensivi e di grande aiuto, anche solo per mantenere un clima favorevole. L’apertura, la comunicazione e di conseguenza l’apprezzamento per i musulmani sono dunque i fattori chiave perché i cristiani possano vivere, professare la propria fede e rendere la propria testimonianza in una società indonesiana fortemente influenzata dai musulmani (formalmente l’Indonesia non è uno Stato musulmano; la filosofia di Stato Pancasila attribuisce lo stesso status a tutte le religioni [riconosciute]). Nostra Aetate, Dignitatis Humanae e, teologicamente, attraverso le sue implicazioni, l’enciclica di Papa Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio sono di grandissima importanza. Entrambi i documenti del Vaticano II sono piuttosto noti e ammirati tra gli intellettuali musulmani. Il patrimonio comune di cristiani e musulmani Se chiedessimo che cosa unisce noi cristiani ai musulmani, la risposta sembrerebbe duplice. La prima è che, naturalmente, anche i musulmani integralisti in Indonesia sono d’accordo sul fatto che l’Islam è tollerante e “non ha nulla contro i cristiani” (come mi disse Habib Riziek, il capo della frangia oltranzista Islamic Defence Front [Fron Pembela Islam]; e non c’è bisogno di chiedersi quanto una simile affermazione generale concordi con le note affermazioni nel Corano). Questo atteggiamento comprende anche gli induisti, i buddisti e i confuciani (le religioni ufficialmente riconosciute in Indonesia), ma non i gruppi dagli “insegnamenti devianti”, come la Ahmadiyah e da tre anni a questa parte gli sciiti. Questo fondamento teologico è piuttosto importante. Esso è infatti una base per la comunicazione e il dialogo con i musulmani, che non richiede di doversi prima assicurare se questi ultimi siano “integralisti”, “moderati” o “liberali”. Ma ciò che veramente unisce cristiani e musulmani e rende possibile intraprendere insieme un lavoro per la pace e il progresso è il radicamento dei musulmani e dei cristiani indonesiani nei valori umani fondamentali ancorati, a loro volta, nel terreno culturale dell’Indonesia: l’attenzione al prossimo, l’onestà, il rifiuto dell’invidia, dell’odio, della diffidenza e dell’ingiustizia. Gli indonesiani, indipendentemente dal credo religioso e con l’eccezione dei fondamentalisti più intransigenti, si sentono uniti anche perché “tutti indonesiani”. Sulla base di questi valori musulmani e cristiani dialogano su come migliorare le proprie relazioni, risolvere i problemi, promuovere la pace, superare i conflitti. Ma parlano anche delle comuni aspirazioni politiche, sociali ed economiche, dell’abolizione della povertà, della discriminazione, della corruzione. Alcune questioni preoccupano tutti: come gestire la minaccia dei narcotici, della pornografia o l’attrazione del consumismo manipolato dai media. Sia il NU che la Muhammadiyah hanno espressamente proclamato che per loro “lo Stato della Pancasila è la forma di Governo più adeguata per l’Indonesia”, una dichiarazione rinnovata da 12 organizzazioni islamiche riunitesi il 1° giugno 2012 presso il quartier generale del NU, la quale recita che «la Pancasila è la sharî‘a applicata all’Indonesia» e che tutti i musulmani dovrebbero astenersi dalla violenza. Ciò significa che i non-musulmani indonesiani non solo sono tollerati, ma accettati come fratelli e sorelle uniti fondamentalmente dagli stessi valori e ideali. L’amicizia civica, chiave per il futuro Cos’ha in serbo il futuro? Quale tendenza vincerà: l’accettazione dell’altro o la crescente intolleranza? L’Islam tradizionale e moderato si affermerà contro l’infiltrazione dei fondamentalisti? Il problema reale risiede nell’attuale debolezza dello Stato indonesiano. I suoi leader non sembrano avere il coraggio di far rispettare la legge che tutela le minoranze. Questo è particolarmente vero nel caso delle sette, comunità non ufficialmente riconosciute. La polizia non le protegge dalla violenza. Anche il NU e la Muhammadiyah lamentano l’inattività dello Stato. Temono che se lo Stato tollera le violenze commesse per motivi religiosi, sul lungo periodo avranno difficoltà a sostenere le proprie convinzioni pluralistiche. La leadership nazionale non fa quello che dovrebbe, vale a dire educare le persone a essere tolleranti nei confronti delle minoranze. A livello locale e distrettuale le autorità agiscono spesso per puro opportunismo, come ha fatto per esempio il sindaco della città di Bogor che ha rifiutato di concedere alla comunità protestante Yasmin l’uso della loro chiesa, nonostante la Corte Suprema avesse confermato il loro diritto a farlo. Inoltre alcuni governi locali hanno promulgato leggi ispirate alla sharî‘a islamizzando lentamente il Paese. I cristiani quindi hanno imparato che non possono fare affidamento completo né sulla legge, né sullo Stato e che l’unica garanzia per il loro futuro, in un’Indonesia a maggioranza musulmana, sono le relazioni di amicizia diretta con i musulmani, a tutti i livelli. Per questo motivo, la comunicazione è decisiva. Non tutte le comunità cristiane l’hanno capito e a volte i laici lamentano il fatto che il parroco della loro parrocchia non trovi il tempo per stringere amicizia con qualche importante leader musulmano locale. Tuttavia, sempre più preti e suore e la maggior parte dei vescovi ne sono perfettamente consapevoli. Che molti seminaristi ora vivano per una settimana circa nei pesantren, collegi islamici gestiti dalla NU, è d’aiuto per entrambi. Conoscendoci a vicenda, perdiamo la sensazione di estraneità. Impariamo che condividiamo quei due valori umani centrali che rendono possibile il dialogo interreligioso: la gentilezza o comprensione e la giustizia o correttezza. Il dialogo islamo-cristiano dovrebbe sempre partire da queste virtù. Soltanto gli estremisti più incalliti chiudono completamente i loro cuori alla compassione, e comunque non dobbiamo arrenderci neanche con loro. Come minoranze, dobbiamo imparare a fare il primo passo e a non ripiegarci su noi stessi insistendo solamente sui nostri diritti legali e costituzionali (anche se, ovviamente, dobbiamo fare anche questo), senza stancarci di offrire la nostra testimonianza cristiana.