Autore: Robert Spaemann
Titolo: Persone. Sulla differenza tra qualcosa e qualcuno
Editore: Laterza, Roma-Bari 2005

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:54

Per Robert Spaemann (1927), filosofo cattolico tedesco di grande levatura speculativa, i cui lavori si ispirano con originalità alla visione classica teleologica e si concentrano specialmente sul plesso concettuale persona-natura-ragione, i doveri verso le persone derivano dal riconoscimento che la persona è un nomen dignitatis, sicché (Kant) bisogna trattarla sempre come fine e mai come semplice mezzo. Ma che cosa intendiamo quando parliamo di "qualcuno", dandogli il nome di persona e accordandogli uno status particolare che lo distingue dal "qualcosa"? Il presente testo benché un po' disomogeneo, poiché alterna pagine molto complesse ad intuizioni originali ed argomentazioni convincenti svolge una ricca fenomenologia dell'umano, prende in considerazione la legge di Hume, l'intenzionalità, la libertà (e la capacità di prendere le distanze dai propri desideri), la temporalità; rilancia poi il tema dell'anima, indaga la coscienza, il riconoscimento interpersonale, i fattori della moralità delle azioni, gli assoluti morali, le pratiche della promessa e del perdono. Qui possiamo indugiare solo sul tema centrale del testo, cioè la critica all'antropologia empirista, secondo la quale un soggetto appartenente alla specie umana è persona solo quando manifesta il possesso di alcuni requisiti, come l'autocoscienza o la memoria: pertanto i feti, i ritardati, gli individui in coma o in stato vegetativo, non possono essere ricompresi nel novero delle persone, dunque sono pratiche moralmente lecite non soltanto l'aborto e l'eutanasia, ma anche, secondo bioeticisti come Singer ed Engelhardt, l'uccisione dei neonati e dei ritardati mentali (a meno che queste uccisioni non incidano sulla felicità di soggetti che sono persone, come, ad esempio, i loro parenti). Spaemann riprende da Boezio la nota definizione di persona come sostanza di natura razionale: è persona non quella sostanza che esercita "in atto" le attività razionali, bensì che ha "in potenza" la capacità di esercitare attività razionali (gli atti cognitivi, ma anche volitivi, estetici, amorosi, ecc.). Questa concezione viene difesa specialmente nell'ultimo capitolo di Persone, in cui Spaemann elabora sei incisivi argomenti. Ne riportiamo due. Per gli esemplari di una specie di cose è indifferente che esistano altre cose di quella specie: per l'esistenza di una sedia è indifferente che esistano altre sedie. Invece per i viventi, e in particolare per la persona, ciò non è indifferente, perché l'esistenza di altre persone è costitutiva per ogni singola persona: io non esisterei se non ci fossero state prima di me altre persone con cui io mi trovo in un rapporto di parentela e di genitorialità. In altri termini, il fatto biologico della parentela è costitutivo della persona, cioè la relazione di parentela istituisce la personalità della persona, perciò gli appartenenti alla specie biologica homo sapiens sapiens si trovano per ciò stesso già in una situazione interpersonale. Le attività che, solo nel loro emergere attuale determinerebbero, secondo gli empiristi, la persona, emergono solo quando la madre, o chi per lei, tratta un bambino già come una persona e non come un semplice vivente. Il bambino impara a parlare, non semplicemente perché sente qualcuno parlare (si è tentato inutilmente di insegnare a parlare a dei bambini mediante delle videocassette), bensì perché la madre si rivolge a lui trattandolo già come una persona. Se la madre tratta il bambino come se dovesse diventare una persona, pensando però che ancora non lo sia, il bambino non riesce ad esprimere le attività della persona. Non si dà, dunque, un qualche passaggio da qualcosa a qualcuno, cioè il bambino è fin da subito qualcuno. Perciò, «può e deve darsi un unico criterio per la personalità: l'appartenenza biologica al genere umano. Per questo l'inizio e la fine dell'esistenza della persona non possono essere separati dall'inizio e dalla fine della vita umana. []. L'essere della persona è la vita di un uomo» (p. 241). Insomma, vivere viventibus esse (già Aristotele) e la fioritura della persona è l'amore: «Viviamo pienamente solo quando amiamo» (p. 75).

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