La lotta contro lo Stato Islamico aveva creato un’inedita comunione di intenti. Oggi, l’equilibrio politico basato sui blocchi curdo, sciita e sunnita si sta sgretolando

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:23

In Iraq oggi regna un’insolita calma. Lo Stato Islamico, persa Mosul e il controllo delle frontiere con la Siria, è stato sconfitto; in Kurdistan, il referendum sull’indipendenza di Mas‘ud Barzani si è rivelato un micidiale boomerang politico. Vinta l’esiziale guerra contro i jihadisti e sventata quella civile con i curdi, la situazione nel Paese sembra più stabile.

 

Purtroppo, però, l’ordine a Bagdad è soltanto apparente e, anzi, molto probabilmente è il preludio di un nuovo ciclo di tensione e destabilizzazione. Infatti, a esaltare e accelerare le dinamiche conflittuali, oltre al contesto regionale di polarizzazione tra asse iraniano e blocco saudita, in Iraq a maggio 2018 ci saranno nello stesso periodo elezioni provinciali, nazionali e la scadenza del mandato del primo ministro Haider al-‘Abadi.

 

 

Si tratta di elezioni che segneranno il futuro dell’Iraq, in quanto chi ne uscirà vincitore dovrà affrontare sfide vaste come la riconciliazione nazionale, la ricostruzione materiale e istituzionale del Paese, nonché i rapporti con le potenze regionali e la lotta al jihadismo.

Si incrina un delicato sistema politico

Senonché, le prossime elezioni e la nascita del nuovo governo avranno luogo in un quadro politico radicalmente mutato, e probabilmente rispecchieranno nuovi e inediti equilibri politici. In altri termini, l’onda lunga della crisi causata dallo Stato Islamico ha ridisegnato le geometrie politiche interne, inducendo profondi cambiamenti nella società e nella politica irachene.

 

Si sta sgretolando innanzitutto l’equilibrio politico dell’Iraq post-ba‘thista, ovvero la formula della governance basata sul sistema etnico-settario della muhasasa, dove il potere è - in teoria - proporzionalmente distribuito tra un blocco sciita, uno curdo e uno sunnita. Di fatto, però, ciò si è tradotto finora in un saldo duopolio della coalizione curdo-sciita e nell’emarginazione dei movimenti sunniti. Oggi, questo equilibrio si sta incrinando: infatti, sebbene permanga un’intensa competizione su linee etnico-settarie, si consolida un’ulteriore dinamica di disgregazione e competizione interna a ciascuno dei blocchi “tradizionali”: si sta perdendo la coesione interna di ciascuno dei tre gruppi etnico-settari.

 

La competizione interna curda

In Kurdistan, si trascina da tempo un’impasse politico-istituzionale, che vede l’ex presidente regionale Mas‘ud Barzani e il suo Partito Democratico Curdo (PDK) opporsi aspramente agli altri due maggiori partiti curdi del Gorran e dell’Unione Patriottica Curda (UPK).

 

A fronte del rifiuto delle altre forze politiche di un ennesimo rinnovo del suo mandato presidenziale, promuovendo il referendum sull’autonomia Barzani ha cercato di ottenere dal popolo l’investitura che il Parlamento gli negava; non potendo opporsi a una mossa tanto popolare e dall’esito scontato, gli altri partiti hanno obtorto collo aderito al referendum. Nessuno è stato però poi disposto a combattere per Kirkuk, la “Gerusalemme curda”, che è stata ripresa dalle forze federali senza che fosse opposta resistenza, complice anche l’interferenza dell’Iran che ha convinto l’UPK - che controllava la città - a cedere.

 

Sta di fatto che, oggi, i rapporti tra Erbil (PDK) e Sulaymaniyya (UPK) sono pessimi, mentre il Kurdistan non ha un presidente e il Parlamento è delegittimato. Dunque, unita nel combattere Isis, l’alleanza curda tra UPK e PDK si è sfaldata nell’opposizione al governo di Bagdad, rompendo l’asse di cooperazione instauratosi dal 2003 e riaccendendo la competizione intra-curda.  

 

Il disorientamento sunnita

Per quanto riguarda i sunniti, la situazione interna è altrettanto problematica: la ritirata di Isis oltre a città distrutte e centinaia di migliaia di profughi, ha lasciato una comunità disorientata e priva di reali riferimenti politici, visto che non esistono partiti o movimenti che effettivamente racchiudano le sue diverse componenti geografiche e ideologiche.

 

Gli unici leader di caratura nazionale, ovvero Salim al-Juburi, presidente del Parlamento, e il vicepresidente Osama al-Nujaifi, non sono legati a veri e propri partiti organici ma sono entrambi espressione di gruppi di potere regionale.

 

Del resto, a livello locale, nelle province sunnite si è scatenata una fortissima competizione per riempire il vuoto di potere creatosi con la scomparsa di Isis. In pratica, la nuova classe politica sunnita deve ancora emergere e, facilmente, più che dar vita a movimenti di largo respiro sarà espressione di forze legate a specifiche condizioni locali e fortemente in competizione tra loro.

 

Le spaccature sciite

Anche gli sciiti hanno visto recentemente un processo di forte disgregazione politica. La grande coalizione sciita della Alleanza Nazionale Irachena (INA), nata nelle elezioni del gennaio 2005, oggi sta perdendo la sua coesione. Per un decennio questa formazione, seppur composta da partiti con caratteristiche molto diverse, era riuscita a tenere unite le diverse componenti della presenza sciita. Oggi però diversi segnali evidenziano profonde spaccature; Ammar al-Hakim, leader del Supremo Consiglio Islamico d’Iraq (ISCI) e guida dell’INA, in rotta con l’establishment filo-iraniano dell’ISCI, ha fondato un suo nuovo partito, il Movimento Nazionale della Saggezza.

 

Il controverso leader sciita Muqtada al-Sadr che, tra alti e bassi ha comunque fatto parte in passato dei governi a marchio INA, ormai ne sta prendendo le distanze e, anzi, con la sua piattaforma nazionalista e di lotta alla corruzione, si pone in aperta antitesi con diversi grandi partiti sciiti. È poi paradossale la situazione interna di Da ‘wa, partito da cui provengono sia l’ex primo ministro Nuri al-Maliki sia l’attuale al-‘Abadi, i quali sono però divisi da un inconciliabile e aperto contrasto.

 

Infine, a rendere più complesso sia il quadro interno sciita sia quello nazionale c’è l’ingresso in politica di alcune milizie sciite delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF) che hanno affiancato le forze armate nella lotta allo Stato Islamico. In particolare, a cercare un’affermazione politica, seppur mantenendo la propria connotazione militare, sono le milizie filo-iraniane, che si stanno registrando come partiti, cambiando nome o con strutture parallele.  

 

Ed è proprio su questi nuovi attori dall’identità fortemente settaria che puntano sia l’ex premier al-Maliki sia l’Iran, il primo per garantirsi un ampio elettorato, il secondo per mantenere una forte influenza in Iraq.

 

Non è un caso che il panorama politico iracheno si stia polarizzando su contrapposte prospettive sia della futura visione nazionale sia del posizionamento regionale. Da un lato c’è un polo filoiraniano composto principalmente dal Munazzama Badr e dalle altre milizie che agiscono per procura delle PMF, che si oppone a ogni influenza americana e sunnita, e che aspira a uno Stato sul modello religioso iraniano.

Leader ontologicamente diversi trovano un punto d’incontro sull’identità nazionale

Un secondo polo, a dire il vero molto eterogeneo, è quello nazionalista iracheno, dove leader ontologicamente diversi come al-‘Abadi e al-Sadr trovano un punto d’incontro sul ruolo dell’identità nazionale, la lotta alla corruzione e il pluralismo. Entrambi si oppongono alla svolta politica delle PMF, viste come una Quinta Colonna iraniana, tanto che, in politica estera, questo polo è meno tollerante della pervasiva presenza di Teheran e alla ricerca di relazioni internazionali più equilibrate e indipendenti, anche se al-‘Abadi e al-Sadr sono profondamente divisi riguardo il ruolo americano.  

 

E una prova regina del fatto che la politica irachena stia subendo un profondo cambiamento la troviamo proprio sul piano della politica estera: a luglio Muqtada al-Sadr si è recato in visita in Arabia Saudita, regno che si identifica come guida dei sunniti. Si tratta di una circostanza inimmaginabile sino a pochissimo tempo fa.

 

È evidente come al-Sadr cerchi non soltanto di staccarsi con chiarezza dagli altri movimenti sciiti filo-iraniani, ma anche di presentarsi come statista di livello internazionale e leader non settario. In realtà, con al-‘Abadi – anche lui in visita a Riad a luglio -, dopo decenni di “Guerra Fredda” Iraq e Arabia Saudita riallacciano legami diplomatici ed economici. Aprendo al regno saudita, al-‘Abadi cerca di smarcarsi dalla invasiva ingerenza iraniana, avvicinarsi all’elettorato sunnita e, forse, anche di trovare un aiuto per la ricostruzione delle province sunnite.

 

Rimane poi da evidenziare la posizione del grande ayatollah ‘Ali al-Sistani, guida religiosa indiscussa della comunità irachena sciita e àncora di salvezza - non soltanto morale - del Paese. Al-Sistani si oppone da sempre al modello teocratico iraniano e sostiene l’idea di uno Stato civile, dove la nazionalità superi gli steccati etnico-settari e la religione sia separata dalla politica; senonché, oggi, a fronte della crescita politico-militare delle milizie del PMF proxy di Teheran e delle profonde divisioni interne al fronte sciita causate dalle influenze iraniane potrebbe essere costretto a sbilanciarsi e a schierarsi apertamente con al-‘Abadi.

 

Anche un altro leader religioso parla di necessità di sorpassare le divisioni etniche e settarie. Dopo tra anni di guerra contro lo Stato Islamico, combattere contro una mentalità estremista sarà la chiave per una coesistenza pacifica tra gruppi religiosi ed etnici iracheni, ha detto alla France Press il patriarca Louis Raphael Sako, alla testa della Chiesa caldea.

 

In conclusione, l’alleanza strategica tra la coalizione sciita e quella curda che per più di un decennio ha retto gli equilibri del Paese, è in crisi. Il blocco curdo è imploso, quello sunnita è disorientato e abbandonato a se stesso, mentre quello sciita è profondamente diviso tra una linea settaria e una nazionalista. Il tutto poi, mentre l’intera classe politica è profondamente delegittimata da corruzione e inefficienza: probabilmente finora soltanto la gravissima crisi securitaria causata dalla presenza di Isis ha evitato che le diffuse e numerose proteste popolari potessero degenerare come avvenuto nei Paesi investiti dalle rivolte arabe del 2011.

 

La speranza è che al-‘Abadi, a maggio, sappia approfittare di questo rimescolamento, e raccolga un diffuso appoggio elettorale da parte di movimenti moderati sciiti, sunniti e curdi che gli permetta di superare le rigide barriere etniche e settarie in nome dell’unità nazionale, dell’autonomia in politica estera e del risanamento delle istituzioni.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

 

 

 

 

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