La guerra in Siria ha trasformato il movimento sciita, abile a cambiare per sopravvivere: attore militare regionale e arbitro della politica in Libano
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:27
Dal momento della sua entrata nel conflitto siriano a fianco del fronte filo-Assad nel maggio 2013, la trasformazione del partito e gruppo armato sciita libanese Hezbollah è stata sorprendente.
Dopo aver cambiato le sorti di molte battaglie in Siria – a partire da quella di al-Qusayr - 15 chilometri a sud-ovest del confine con il Libano - nel 2013, con cui il partito dichiarò ufficialmente la sua presenza nel conflitto d’oltreconfine – Hezbollah ha indubbiamente acquisito un ruolo inconsueto, ben oltre la tradizionale “resistenza” (muqāwama) contro Israele nel sud del Libano.
Pilastro fondamentale della contro-rivoluzione di Bashar Assad in Siria, marcatore di terreni inediti fino al 2014 – come l’Iraq e lo Yemen, in cui il partito guidato da Hassan Nasrallah ha offerto consulenza tecnica alle milizie sciite irachene e agli Houthi yemeniti – Hezbollah si è trasformato in un attore “regionale”. Eppure, se la vulgata comune vede il partito come sempre più legato all’Iran e imbrigliato in un’identità settaria sciita che muoverebbe la sua “transnazionalizzazione” come gruppo armato, molti sono gli elementi che segnalano piuttosto una sua più incisiva “libanesizzazione”.
Detto altrimenti, mentre Hezbollah è diventato, a partire dal 2013, un attore sempre più risolutivo sul piano militare regionale, il partito ha parallelamente rafforzato il suo ruolo politico in Libano. Sempre più in grado di manipolare la geometria della negoziazione domestica tra alleati e avversari, Hezbollah è diventato il vero arbitro del sistema politico libanese.
Piuttosto che un mutamento di ruolo dalla dimensione nazionale alla dimensione regionale, quella di Hezbollah deve essere letta come una trasformazione dalla resistenza all’establishment. La trasformazione è tutt’altro che recente: si tratta piuttosto di un processo che rimonta almeno al 2005, seppur accelerato dopo il 2011, e non necessariamente lineare: gestito dall’élite del gruppo e non sempre “compreso” dalla sua base, in parte ancora legata a una cultura della resistenza anti-Israele e incline a recepire un discorso settario (sciita), la cangiante identità del gruppo è personificata dal suo carismatico leader, Hassan Nasrallah, in grado di tenere assieme le diverse anime dell’organizzazione e del suo consenso.
Tuttavia, se Hezbollah si è mostrato estremamente versatile e abile a cambiare per sopravvivere, la principale minaccia alla continuità del partito arriva dall’asse Trump-Israele-Arabia Saudita contro l’Iran e i suoi alleati.
La retorica della “guerra al terrorismo”
Da un punto di vista formale, la retorica della resistenza contro Israele in solidarietà con la Palestina non è mai venuta meno nel discorso ufficiale del Partito di Dio. Ben più muscolare, tuttavia, è stata la riproduzione di una retorica della “guerra al terrorismo”, tarata su un discorso securitario non dissimile da quello dei leader occidentali e potentemente amplificato dell’emittente ufficiale del partito al-Manar e di altri media ideologicamente vicini a Hezbollah.
Se questa nuova strategia comunicativa ha chiaramente contribuito a giustificare la controversa decisione di entrare nel conflitto siriano a fianco del dittatore Assad, vale la pena soffermarsi sulle modalità con cui Hezbollah ha manovrato diversi registri, ritagliandosi un ruolo securitario calibrato su una morale statista, fondata sulla protezione dei confini e dello status quo. Questa virata identitaria e ideologica ha permesso al partito di strizzare l’occhio non solo ai suoi alleati più conservatori ma, informalmente, anche alle intelligence internazionali.
L’invenzione di un nuovo ruolo morale per il partito dopo il 2013 si è imposta come necessità. Se al tempo della “guerra di luglio” (harb tammūz) con Israele nel 2006 Hezbollah era apparso come il rappresentante dei popoli traditi dagli establishment arabi corrotti e sempre più opportunisticamente lontani dalla causa palestinese, con l’ingresso nella guerra siriana al fianco di Assad, il Partito ha scelto di fiancheggiare la dittatura e l’oppressione del popolo siriano, generando scetticismo persino all’interno della sua stessa base.
Appropriandosi del discorso classico della guerra contro il terrorismo, opponendo una retorica della “civiltà” del pluralismo (al-ta‘addudiyya) tra confessioni religiose alla “barbarie” dei takfīriyyīn (formalmente “musulmani che accusano altri musulmani di apostasia”, anche se il termine è diventato quasi un sinonimo per stigmatizzare i jihadisti sunniti), Hezbollah si è reinventato protettore del Libano, evocando la convivenza interreligiosa teoricamente rappresentata dal confessionalismo (ta’ifiyya) a fondamento dello Stato. Nel promuovere questa nuova funzione delle armi di Hezbollah, Nasrallah ha puntato in particolare a una audience cristiana e sciita, capitalizzando sul vittimismo con cui i rispettivi leader confessionali hanno sostenuto la necessità di preservare lo status quo del regime damasceno e stigmatizzare la rivolta siriana.
La posizione è dettata dal trionfo di gruppi armati salafiti-jihadisti nel conflitto siriano, ma questo dato ha marcato la trasformazione della violenza siriana a partire dal 2012 e non certo le origini della rivolta anti-regime (febbraio-marzo 2011) e la sua militarizzazione (luglio-agosto 2011). Inoltre, per quanto in alcuni contesti l’élite del partito abbia utilizzato un discorso palesemente settario, definendo per esempio l’intervento in Siria come “difesa sacra” (al-difā‘ al-muqaddas), Nasrallah ha cercato di giustificare la presenza di Hezbollah in Siria come parte di una strategia nazionale per difendere i confini e le istituzioni del Libano dal progetto totalitario dello Stato Islamico.
Si tratta di un passaggio particolarmente cruciale nella strategia di giustificazione. Se fino al 2013, l’ambigua relazione tra Hezbollah e lo Stato era fondata sulla necessità di una resistenza nazionale contro Israele - tutti i governi, fino al 2011, si sono insediati riconoscendo formalmente, seppur non senza polemiche, la legittimità delle armi dell’Hizb racchiusa nella formula “l’esercito, il popolo, la resistenza” (al-jaysh, al-sha‘b, al-muqāwama) -, l’entrata di Hezbollah in Siria è stata vista come un tentativo arbitrario di trascinare il Paese intero in una guerra di altri.
L’ambigua relazione con lo Stato era fondata sulla resistenza nazionale contro Israele
Per controbilanciare queste accuse, Hezbollah ha evocato la “guerra preventiva”, sostenendo l’incombenza eccezionale della minaccia di ISIS e di altri gruppi jihadisti sul Libano, oltre all’opportunità di mantenere le sue armi segrete e indipendenti a complemento (al-takāmul) di un esercito – quello libanese – costretto in una condizione di debolezza strategica dalla comunità internazionale vicina a Israele.
In pratica, negoziando la sua coabitazione sul confine siriano-libanese con l’esercito, Hezbollah ha spesso rivendicato il merito di azioni di counterinsurgency contro combattenti dello Stato Islamico, che in realtà erano state in parte gestite o “preparate” dall’esercito. L’esempio più eclatante è quello del luglio 2017, in cui Hezbollah ha proclamato la vittoria contro ISIS ad ‘Arsal (cittadina dell’alta valle della Bekaa libanese), dove il gruppo jihadista aveva conquistato un’enclave nel 2014.
Con l’esercito schierato al confine e una missione degli eserciti britannico e americano in sostegno dell’esercito libanese per rafforzare la sicurezza di frontiera nel quadro della “guerra globale al terrore”, la “liberazione di ‘Arsal” da parte di Hezbollah (sancita simbolicamente dalle due bandiere – quella della resistenza e dello stato libanese – issate insieme sul “territorio liberato”) ha avuto l’obiettivo di agganciare il partito alla prassi e al discorso morale neo-sovranista della guerra al terrore.
Non a caso, soprattutto durante la fase della guerra a ISIS sotto la presidenza Barack Obama, le misure contro Hezbollah – sulla lista nera dei gruppi terroristici di Stati Uniti e Unione europea - sono state moderate e si sono limitate a poche sanzioni finanziarie. A dicembre, un controverso report negli Stati Uniti ha mostrato come l’Amministrazione Obama avesse ostacolato i lavori di una task force contro i traffici di droga che Hezbollah usa per autofinanziarsi per facilitare l’accordo sul nucleare iraniano. Accanto a un calcolo geopolitico regionale, diversi segnali sembrano suggerire che gli Stati Uniti abbiano in più di un’occasione cooperato con Hezbollah indirettamente (attraverso l’esercito libanese) nelle operazioni di counterinsurgency in Siria e in Libano.
I limiti della strategia politica
Nonostante la comune caratterizzazione di Hezbollah come organo alla mercé dell’Iran e della Siria, il partito libanese ha in realtà calibrato il suo intervento regionale sui suoi interessi domestici.
A dispetto di molte speculazioni su un’espansione del gruppo in altri Paesi, Hezbollah ha preservato l’esclusività dell’identità libanese dei suoi combattenti. È vero che diverse organizzazioni sono nate in Siria, Iraq, Yemen e altrove, ispirandosi al partito libanese. Tuttavia, il gruppo guidato da Nasrallah resta un’entità politico-militare discreta e a sé stante.
Il recente coinvolgimento regionale di Hezbollah, principalmente inquadrato all’interno della guerra contro ISIS, ha piuttosto permesso al movimento di consolidare la sua influenza politica sul sistema libanese. Innanzitutto, esso ha rafforzato i suoi rapporti con il Fronte Patriottico Libero, partito guidato dal leader cristiano maronita Michel ‘Aoun, alleato dell’Hizb dal 2006. L’elezione di ‘Aoun alla presidenza della repubblica nel 2016, dopo oltre due anni di vuoto a Beirut della poltrona al palazzo presidenziale di Baabda, ha dato prova della capacità del Partito di Dio di fare da arbitro tra i due principali blocchi parlamentari (ormai sempre meno definiti) del 14 Marzo e dell’8 Marzo libanesi (dalla data di due opposte manifestazioni – pro e contro la presenza siriana nel Paese – nel 2005).
Dopo l’elezione di ‘Aoun, Hezbollah è stato inoltre molto abile nel riallacciare relazioni pragmatiche con il vecchio rivale Sa’ad Hariri, appoggiando la sua elezione a primo ministro e la formazione di un governo che include tuttora ministri di Hezbollah. Soprattutto dopo le (mancate) dimissioni di Hariri nel novembre 2017, assai probabilmente imposte dell’Arabia Saudita e ritirate in extremis dallo stesso premier, pare che Hezbollah abbia dato prova di lealtà agli accordi politici con il primo ministro molto più dei suoi alleati storici, i quali avrebbero invece cercato di capitalizzare sulla sua potenziale poltrona vacante. La posizione di Hezbollah è stata, infatti, estremamente moderata e di sostegno nei confronti di Hariri, favorendo senza dubbio uno sgonfiamento dell’escalation annunciata e favorendo la continuità del governo in carica.
Il movimento ha preservato l’esclusività dell’identità libanese dei suoi combattenti
Hezbollah resta l’attore dominante del sistema politico libanese, in grado di manovrare alleanze e rivalità a suo vantaggio. Il suo potere politico, inoltre, si nutre del suo potere militare: Hezbollah si presenta e si impone come principale pilastro della sicurezza del Libano e della stabilità governativa – un garante dell’establishment tradizionale del Libano contro potenziali homines novi e sempre più contro le richieste di cambiamento dal basso.
Il dilemma sul futuro del partito arriva piuttosto dall’esterno: in particolare, dalla cooperazione tra Israele, Arabia Saudita e la nuova amministrazione americana di Donald J. Trump. Fondata sull’ossessione anti-iraniana, questa inedita triangolazione di interessi mira a mettere in crisi la strategia di Teheran in Medio Oriente, di cui Hezbollah è ritenuto un pilastro portante.
Su questo piano, il partito di Nasrallah ha tentato finora di mantenere un profilo basso e cautamente attento a non “invitare” eccessive reazioni che sarebbero in questo momento controproducenti per il partito. Prova di questo è la blanda risposta che l’Hebzollah ha dato alla proclamazione unilaterale di Gerusalemme come capitale d’Israele da parte della Casa Bianca: l’invito a lanciare una “campagna sui social media” e una limitata reazione per il cuore della muqāwama con la cultura del “martirio”. Il partito di Nasrallah mira in questo frangente a consolidare i suoi successi militari per rafforzare la propria posizione politica all’interno del Libano.
Nonostante il prezzo in termini di reputazione popolare, Hezbollah sembra sempre più abile nell’interpretare strategicamente una politica dell’establishment che compensa efficacemente lo scollamento del partito da una cultura della resistenza.