Il Libro sacro dei musulmani è un “libro-specchio”: i significati che l’esegeta promuove non sono nel testo, ma emergono dall’interazione tra il testo e la sua esperienza
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:33:54
Il Libro sacro dei musulmani è un “libro-specchio”: i significati che l’esegeta promuove non sono nel testo, ma emergono dall’interazione tra il testo e la sua esperienza. Le norme giuridiche, anche quando trovano fondamento nei versetti, non sono derivate attraverso una semplice operazione di lettura. Lo dimostra ampiamente l’esempio del divieto del vino: il commentatore riorganizza il testo coranico dopo averlo ristrutturato e, appoggiandosi su dati esterni, ne propone un’interpretazione.
Per capire bene l’esegesi giuridica del Corano[1] occorre partire dalla presentazione della nozione classica di sharī‘a, la “legge islamica”. Non ci riferiamo qui alla concezione coranica della Legge, bensì all’idea singolare formulata dai giuristi nel corso del IX secolo e che nei secoli successivi sarebbe diventata egemonica. In tal modo si capisce che sarebbe anacronistico parlare di sharī‘a prima del IX secolo. Certo, fin dai suoi albori, l’Islam aderisce all’idea di una legge divina rivelata, ma il concetto di sharī‘a è una manifestazione particolare di quest’idea.
Inizialmente è un’invenzione sunnita. Soltanto più tardi si sarebbe diffusa tra le altre famiglie religiose, a eccezione di alcune correnti come i drusi, i nusayri (gli attuali alawiti) o l’ismailismo post-fatimide. Il concetto è segnato principalmente da un paradosso: benché la sharī‘a sia presentata come legge divina rivelata, essa non è fissata come tale da nessuna parte. Non esiste un corpus di cui si possa dire: ecco la sharī‘a. Infatti, pur essendo stata rivelata, questa legge divina non è immediatamente accessibile: occorre ricostruirla attraverso l’interpretazione degli “indizi” (adilla) che il loro autore (Dio) ha disseminato tanto nel Corano quanto nella Sunna, o nelle decisioni unanimi dei primi musulmani (ijmā‘) o ancora nel mondo naturale. Per questo il ragionamento è indispensabile per arrivare a conoscerla. Quest’importante innovazione è un tentativo di uscire dalla situazione creata dalla chiusura del corpus coranico e dall’indebolimento del Califfato abbaside.
Infatti, che il Corano sia finito è un fatto che entra in contraddizione con la vita: in quali leggi inquadrare le nuove situazioni non previste dai versetti legislativi del Corano? Questa domanda ha solamente due risposte possibili. Secondo la prima, che è prevalsa fino alla metà del IX secolo, il capo della Comunità (il califfo, l’imam, il comandante dei credenti – poco importa il nome che gli attribuiamo) è l’unico abilitato a legiferare. Così, molte regole che successivamente sono state incorporate nel corpus della sharī‘a sono attribuite ai primi califfi, in particolare a ‘Umar I, come la definizione di una prima versione canonica del Corano, l’istituzione delle preghiere notturne (tarāwīh) nelle notti di Ramadan, il divieto di matrimonio temporaneo (mut‘a) e di vendita di una schiava concubina che abbia dato un figlio al proprio padrone (umm walad), la definizione della punizione per il consumatore di vino e l’introduzione della preghiera per i defunti[2]. Questa concezione primitiva è rimasta viva in tutte le famiglie sciite e kharijite[3].
L’opposizione dei dottori della Legge
La seconda risposta si è imposta nel sunnismo nel momento in cui il califfo-imam è stato oggetto di critiche da parte dei dottori della Legge, che nel giro di due secoli avevano acquisito un peso rilevante. Questa situazione si è aggravata in seguito al tentativo del califfo abbaside al-Ma’mūn d’imporre la dottrina del Corano creato, che suscitò l’opposizione della maggior parte dei dottori sunniti. Divenne allora imperativo trovare una soluzione alla chiusura della “rivelazione”, postulando che tutta la Legge era stata rivelata nel Corano e negli altri testi-fonte (Sunna, ijmā‘) seppur non in maniera esplicita: occorreva ricostruirla intellettualmente attraverso l’interpretazione.
È per questa ragione che i giuristi ritenuti i fondatori delle “scuole giuridiche” più antiche, come Abū Hanīfa (m. 767) e Mālik (m. 795), soltanto raramente fanno riferimento al Corano nel loro insegnamento e non hanno lasciato alcuna compilazione di esegesi giuridica. Lo stesso vale per i loro discepoli più prossimi come al-Shaybānī (m. 805), Abū Yūsuf (m. 798), Ibn al-Qāsim (m. 806) o Sahnūn (m. 856). Come spiegare che giuristi che avrebbero dovuto tener conto del Corano per risolvere la casistica con cui dovettero confrontarsi non abbiano ritenuto utile esporre l’esegesi giuridica del Corano? La conclusione cui si può giungere è che i giuristi di riferimento delle grandi scuole non hanno costruito la dottrina giuridica sul Corano ma su altre fonti, la più importante delle quali, nel caso dei giuristi più antichi, era senza dubbio la tradizione giuridica alla quale ciascuno si rifaceva. Se a Ibn Hanbal (m. 855) non si deve alcuna compilazione di esegesi coranica, a Shāfi‘ī (m. 820) è attribuito il testo Ahkām al-Qur’ān, titolo convenzionale che normalmente designa un’opera di esegesi giuridica del Corano. Non vi è dubbio sul fatto che questo giurista si rifacesse al Corano, ma il testo che gli è attribuito è un apocrifo.
Così il Corano ha cessato di essere considerato il luogo della rivelazione della legge divina per diventare solamente una delle fonti materiali della legislazione, senza tuttavia beneficiare di alcun privilegio particolare. Grazie alla Sunna e alla Tradizione dei Compagni e dei loro Successori, sono stati reinterpretati alcuni versetti coranici, per esempio ampliando il loro campo di applicazione. Si può citare il caso dei versetti 4,22-24 che definiscono gli impedimenti matrimoniali. Pur insistendo sul divieto dei matrimoni con parenti acquisiti, questi versetti limitano il significato di parentela acquisita alle sole mogli, escludendo le schiave-concubine: perciò, secondo la lettera del Corano, sarebbe possibile avere relazioni sessuali o sposare la madre, la figlia o la sorella della propria concubina-schiava. Tuttavia questa possibilità, che probabilmente è risultata ben presto scioccante, ha potuto essere legittimamente rimessa in discussione grazie alla Sunna e alla Tradizione dei Compagni. È importante capire che, se nell’antica concezione il Corano appariva come un corpus contenente leggi immediatamente individuabili, non appena ha preso forma, la nuova concezione ha prodotto un cambiamento nella relazione con il Corano: invece di cercarvi delle leggi, necessariamente in numero finito, vi si sono ricercati argomenti per sviluppare sistematicamente il corpus legislativo islamico. A cambiare è la natura stessa dell’esegesi: non si tratta più solamente di capire che cosa dice il Corano e neppure di stabilire le “circostanze della rivelazione” (asbāb al-nuzūl) di alcuni versetti, ma di tentare di definire la legge rivelata rispetto a questa o quella questione, facendo leva sulle formulazioni coraniche e su altre fonti.
La testimonianza diretta
In questo modo, quando pratica l’esegesi del Corano, il giurista non lo considera in sé, in abstracto, ma lo legge mettendo in relazione gli enunciati coranici con quelli della Sunna o con l’insegnamento dei Compagni o dei loro continuatori (tābi‘ūn, Successori) e tenendo conto della tradizione giuridica alla quale appartiene[4]. È per questo che alcuni versetti coranici che possono avere un senso univoco non sono necessariamente presi in considerazione. Si può citare in questo senso l’esempio del versetto 2,282: mentre esso ordina di mettere per iscritto i contratti, la sharī‘a rifiuta la validità dei documenti scritti e insiste invece sulla testimonianza diretta, che nel Corano svolge solamente un ruolo sussidiario[5]. Occorre dunque smettere di pensare che il giurista cerchi nel Corano le leggi che egli enuncia. Vi sono certamente dei versetti di carattere direttamente legislativo ma, com’è stato spesso osservato, non sono numerosi e, soprattutto, difficilmente possono fungere da corpus legislativo. Del resto il giurista-esegeta non estrapola questi versetti legislativi tali e quali, dal momento che anche lui li interpreta. Prendiamo l’esempio dei versetti 4,11-12, che presentano una lista di eredi legittimi coincidente soltanto in parte con quella che sarà poi stabilita dalla sharī‘a: per i sunniti le differenze riguardano principalmente i nonni e i parenti collaterali (zii e cugini)[6]. Sarebbe dunque inesatto credere che il Corano abbia definito le norme successorie nell’Islam[7]. Si può anche citare l’esempio degli impedimenti matrimoniali dovuti all’allattamento. Mentre il Corano ne riconosce soltanto due – la nutrice e sua figlia – la legge islamica considera tanti impedimenti matrimoniali dovuti all’allattamento quanti sono quelli dovuti alla consanguineità[8]. Per fare questo ci si è basati principalmente sulla Sunna, che in molti testi favorisce questa estensione. Eppure i giuristi-esegeti non considerano contradditorio il rapporto tra Sunna e Corano: secondo loro, e in particolare da Shāfi‘ī (m. 820) in poi, la Sunna esplicita e chiarisce il testo coranico.
La mappa di un Paese immaginato
Se ci si attenesse solamente al Corano, i musulmani potrebbero pregare molto liberamente perché il Corano non fornisce alcuna indicazione precisa su questo tema, così come è poco loquace sui riti di purificazione. Per tutte queste questioni le raccomandazioni e la pratica del Profeta giocano un ruolo ben più determinante.
Questa concezione del rapporto tra il Corano e la sharī‘a ha per conseguenza il fatto che la definizione del contenuto della Legge dipende strettamente dal giurista-esegeta che, pur non avendo alcuna pretesa di infallibilità, inevitabilmente indirizzerà la sua interpretazione in funzione della sua sensibilità e dei suoi ideali. E siccome non vi è un’esegesi canonica unica – al contrario in questo ambito regna la diversità – gli esegeti non sempre concordano sulla lettura dei versetti coranici. A questo si aggiunge il fatto che nessun giurista è certo che la sua definizione di sharī‘a coincida esattamente con la legge divina rivelata. Per forza di cose soltanto un’interpretazione è vera, ma non c’è modo di sapere quale[9].
In sostanza, la legge islamica si distingue dai diritti di tradizione occidentale per la sua finalità. Mentre l’obiettivo di questi ultimi è assicurare la pace civile all’interno del quadro statuale, e in questo modo di garantire i diritti degli individui (alla vita, alla proprietà…), dei sudditi o dei cittadini, l’obbiettivo preminente della legge islamica è innanzitutto consentire ai musulmani di raggiungere la salvezza eterna. Si è spesso fatto notare che il termine stesso sharī‘a designava “una via retta”, da cui senza dubbio “una condotta retta”[10]. Perciò se questo termine è stato usato per designare la legge islamica è perché quest’ultima era metaforicamente la via che ogni musulmano doveva seguire per assicurarsi la salvezza. Ciò significa dunque che a motivare i sudditi è il loro interesse particolare nell’aldilà. Da questo punto di vista, la sharī‘a è simile alla mappa legislativa di un Paese immaginato.
In questa prospettiva, il giurista-teologo deve identificare, nella massa degli enunciati che gli si presentano, le prescrizioni, positive (wājib) o negative (nahy), perché sono soprattutto queste a determinare il conseguimento della salvezza. Siccome non bisogna confondere un divieto con un semplice invito a evitare qualcosa, o una raccomandazione con un ordine, occorre impegnarsi in un’analisi complessa, che tenga conto di tutti gli aspetti. Nel corso del tempo si può talvolta osservare una revisione delle esegesi trasmesse dalla Tradizione. Un esempio sarà sufficiente. Shāfi‘ī ritiene di trovare nel versetto 2,232 un argomento a favore della sua dottrina sulla tutela matrimoniale esercitata dagli agnati sulla giovane da maritare. Non sorprende che l’hanafita Jassās (m. 980) e il duodecimano Tūsī (m. 1068) non lo seguano, ma lo stesso accade con Fakhr al-Dīn al-Rāzī (m. 1209), esegeta shāfi‘īta, che rimprovera al suo maestro di sostenere un’esegesi che è contraddetta dalla sintassi dell’arabo e che perciò attenta alla maestà della parola divina[11].
Il filtro della Tradizione
La pratica dell’esegesi del Corano è nata probabilmente all’indomani della definizione della vulgata (mushaf), quindi verso la fine del VII secolo. Sembra che inizialmente essa consistesse principalmente in una spiegazione terminologica[12], ma ben presto essa ha assunto una nuova forma, fino a quel momento sconosciuta: una spiegazione delle “circostanze della rivelazione” (asbāb al-nuzūl) di questo o quel versetto. Tuttavia, quando si considerano le compilazioni che recano questo titolo, ci si accorge subito che questa forma di esegesi riguarda solamente un numero limitato di versetti.
A questo punto è importante chiarire due aspetti: il primo legato alla storia del testo coranico, il secondo alla dottrina teologica. Riguardo al primo aspetto, secondo la tradizione musulmana sono esistite diverse varianti del Corano prima che fosse stabilita la vulgata. Quando ciò avvenne, queste varianti – ci viene detto – furono bruciate. Potremmo dunque domandarci se queste varianti non autorizzassero esegesi diverse. A questa domanda si può rispondere che si trattava generalmente di varianti legate a questioni di vocalizzazione (“letture”) e a volte, ma più raramente, all’assenza o all’aggiunta di parole. Sembra inoltre che in almeno un corpus mancasse la prima sura. Ma tutto ciò può influire soltanto marginalmente sull’interpretazione del Corano.
Quanto al secondo aspetto, si sente spesso dire che a causa del dogma teologico del Corano increato[13] l’esegesi di quest’ultimo sarebbe impossibile, ciò che è assolutamente errato. Non è perché difendono la tesi della creazione del Corano che i mu‘taziliti e coloro che hanno adottato la loro dottrina, tra cui gli zayditi e i duodecimani, hanno una pratica esegetica diversa da quella dei sunniti. Per rendersene conto è sufficiente consultare un tafsīr duodecimano come quello di Tūsī (m. 460/1068). In realtà la controversia sulla natura del Corano non ha nulla a che vedere con il problema dell’esegesi ma riguarda la questione dell’antropomorfismo per i sostenitori della tesi del Corano creato, e la questione dell’eternità di Dio per i sostenitori del Corano increato. In entrambe le prospettive questo non ha alcun impatto sulla pratica esegetica e sui suoi metodi. Del resto, se le cose stessero come si dice, gli esegeti musulmani non avrebbero potuto sostenere la teoria dell’abrogazione.
L’esegesi del Corano si presenta inizialmente come un corpus di tradizioni esegetiche di cui soltanto una minima parte è attribuita al Profeta; tali tradizioni appartengono per lo più al genere menzionato in precedenza delle “circostanze della rivelazione”[14]. Si prenda ad esempio il versetto 4,34 (“gli uomini sono preposti alle donne”) da cui si è ricavato il principio della “superiorità” degli uomini sulle donne e soprattutto il diritto del marito a correggere la moglie. Secondo la Tradizione, questo versetto sarebbe stato “rivelato” in occasione di una controversia tra un medinese in vista e sua moglie: durante un litigio lui l’avrebbe schiaffeggiata. Accompagnata dal padre, la moglie si recò dal Profeta per reclamare vendetta. Il Profeta le diede ragione ma poco dopo si ricredette e disse di aver ricevuto dall’angelo Gabriele un nuovo versetto che invalidava la sua decisione e rimetteva dunque in causa il diritto di vendetta della sposa, vittima di maltrattamenti. «Noi abbiamo optato per una soluzione – avrebbe dichiarato il Profeta – ma Dio ne ha voluta un’altra»[15]. In altre parole, fino al versetto 34 della sura 4 una donna poteva rivendicare il diritto a vendicarsi se il marito la maltrattava; dopo quel versetto non poté più farlo. Perciò, in forza di questo versetto, il Corano afferma che nei conflitti coniugali non ci si può appellare alla legge del taglione perché il marito ha il potere di correggere la moglie qualora essa dia prova di indocilità[16]. Da un punto di vista storico questa tradizione esegetica è interessante nella misura in cui sembra indicare che il diritto di correzione come prerogativa del marito fosse estraneo alla predicazione iniziale. Questo tipo di tradizioni si caratterizza per il fatto che sono classificate come “profetiche”.
La prima grande compilazione esegetica è opera di al-Tabarī (Bagdad, m. 923). Prima di lui si potevano trovare sia commenti parziali del Corano, come quello attribuito a Muqātil b. Sulaymān (Khorasan, m. 767), sia tradizioni esegetiche riunite nelle raccolte di hadīth (Bukhārī, Muslim…). Oltre al fatto che l’opera di Tabarī è molto voluminosa (diverse migliaia di pagine) – e può dunque essere definita sistematica – questo commento si distingue anche per un tratto importante nella misura in cui non si limita alle tradizioni profetiche, ma riporta anche le tradizioni attribuite ad altre autorità (compagni, epigoni, autorità successive). Si può addirittura osservare che nella maggior parte dei casi il corpus esegetico riguarda soprattutto gli epigoni e i loro continuatori, e soltanto secondariamente i Compagni. La compilazione di Tabarī è dunque imprescindibile per chi voglia comprendere la storia del pensiero giuridico e religioso degli inizi dell’Islam.
Tabarī inizia citando il versetto o la parte di versetto che vuole esaminare e di cui spesso offre una parafrasi che definisce tarjama (in un’accezione simile a Targum, parafrasi della Bibbia in aramaico). Successivamente descrive le diverse interpretazioni, qualora ve ne sia più di una, e riporta il corpus corrispondente delle tradizioni esegetiche. Capita a volte che invochi argomenti lessicografici o grammaticali, ma le scienze del linguaggio, nonostante la competenza evidente di Tabarī, che era anche un grammatico, intervengono poco nella sua opera esegetica. Questo avverrà invece con gli esegeti successivi. Tabarī procede in questo modo sia che si tratti di versetti “legislativi” sia “teologici”. Da questo punto di vista non vi è differenza tra esegesi giuridica ed esegesi teologica. Nella stessa epoca di Tabarī altri autori hanno prodotto commenti coranici importanti: si può citare il teologo di tendenza hanafita al-Māturidī (Samarcanda, m. 944), autore anche lui di un commento voluminoso. La maggior parte dei commenti ha un contenuto giuridico perché molti versetti coranici sono invocati dai giuristi come argomenti nelle loro interpretazioni della Legge. A partire dal X secolo compaiono commenti coranici limitati alla dimensione giuridica, generalmente intitolati Ahkām al-Qur’ān, “statuti giuridici del Corano”. Probabilmente il primo a comporre commenti di questo genere è stato l’hanafita al-Jassās, seguito dallo shāfi‘ita al-Kiyā’ al-Harāsī. I malikiti non furono da meno: conosciamo due compilazioni ad opera di due andalusi, Ibn al-‘Arabī e al-Qurtubī. Oggi quella di al-Qurtubī riscuote un certo successo, tanto più che si tratta di un commento sistematico e non di un semplice commento giuridico.
Da quanto abbiamo detto possiamo perciò trattenere che l’esegesi del Corano si fonda prima di tutto sulla Tradizione. L’esegeta o il commentatore può formulare il proprio punto di vista, ma spesso questo non è che il riflesso di un’interpretazione già presente nella Tradizione, o una variante di questa interpretazione. In altre parole, l’esegeta del Corano, sia esso sunnita, sciita o sufi, si rifà innanzitutto alla Tradizione ma anche alle scienze del linguaggio (grammatica, lessicografia), che intervengono come discipline ausiliarie dell’esegesi.
La teoria dell’abrogazione
Sia i giuristi sia gli esegeti hanno osservato che il Corano conteneva versetti divergenti o contradditori, per esempio circa questioni quali l’eredità, il vino, l’adulterio[17].
Si prenda il caso del vino. Il versetto 16,67 lo presenta, se non in maniera favorevole, quanto meno neutra: «E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento; e certo è ben questo un Segno per gente che sa ragionare».
Il versetto 2,219 è più ambiguo: «Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: “C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio”». A questo versetto occorre accostare il 5,91: «Perché Satana vuole, col vino e col maysir, gettare inimicizia e odio fra di voi, e stornarvi dalla menzione del Santo Nome di Dio e dalla Preghiera. Cesserete dunque?»
La prima norma positiva è formulata dal versetto 4,43 che vieta ai credenti di compiere la preghiera in stato di ebbrezza: «O voi che credete, non accingetevi alla preghiera in stato di ebbrezza, ma attendete di poter sapere quello che dite».
Il versetto 5,90 si spinge ben oltre: «O voi che credete! In verità il vino, il maysir, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono sozzure, opere di Satana, evitatele!».
Qurtubī (m. 1273) inizia spiegando l’esistenza di numerosi versetti, che non hanno lo stesso contenuto: Dio non impone una legge in una sola volta, ma in modo progressivo[18]. Sempre secondo Qurtubī i versetti relativi al vino sarebbero stati rivelati nell’ordine cronologico seguente: 2,219; 4,43; 5,91; 5,90. Egli aggiunge inoltre che «la maggioranza (al-jumhūr) della Umma concorda sul fatto che tutte le bevande che inebriano, oltre al vino, siano vietate in grande o in piccola quantità. In questo caso si applica la punizione (hadd)»[19]. Da questa «maggioranza bisogna escludere diversi giuristi di Kūfa (tra cui Sufyān al-Thawrī, Ibn Abū Laylā, Ibn Shubruma) e soprattutto Abū Hanīfa, i quali ritenevano lecite le bevande diverse dal vino (come il nabīdh, l’alcol di dattero) che inebriano se bevute in grande quantità. Se un individuo dopo aver consumato di queste bevande è ubriaco, ma non ha cercato deliberatamente questo stato, non deve essere punito»[20].
Secondo Ibn ‘Abbās, il versetto 16,67 risale al periodo meccano, mentre il divieto è medinese[21]. Quest’ultimo sarebbe stato promulgato nell’anno terzo dell’era musulmana, dopo la battaglia di Uhud (verso il 625 d.C.)[22]. Secondo Abū Maysara, il divieto è stato promulgato su istigazione di ‘Umar I, che ha descritto i mali (‘uyūb) causati dal vino e l’influenza che il suo consumo può avere sul comportamento degli individui[23]. Secondo un altro racconto, il vino sarebbe stato proibito in seguito a una rissa tra Sa‘d Ibn Abī Waqqās e alcuni medinesi[24]. Si riporta anche un racconto su Hamza Ibn ‘Abd al-Muttalib, zio paterno del Profeta, il quale in stato di ebbrezza avrebbe causato gravi danni alle cammelle di ‘Alī[25]. Ricordiamo infine, e questo Qurtubī non lo dice, che alcuni tra i primi convertiti si astenevano completamente dalle bevande inebrianti. Il caso più noto è quello di ‘Uthmān Ibn Maz‘ūn, parente acquisito di ‘Umar I, presentato come uno degli istigatori della politica proibizionista. I giuristi hanno così giustificato il divieto del vino con la perdita della ragione che il suo consumo comporta: «L’ebbrezza è vietata in tutte le leggi, perché le leggi [vegliano] sugli interessi (masālih) delle creature (‘ibād) e non si prefiggono di corromperle (mafāsid). Il fondamento (asl) degli interessi [degli esseri umani] è la ragione (‘aql), così come l’origine della loro corruzione è il venir meno di questa. Ne consegue che tutto ciò che conduce all’obliterazione della ragione o a introdurvi il turbamento (shawwasha) dovrebbe essere vietato»[26].
Il commento coranico, pratica sociale
Il tafsīr è un genere letterario unico nel mondo islamico. La singolarità di questa pratica risiede nel fatto che ogni generazione, in ogni regione del mondo islamico, produce i suoi tafsīr. Alcuni non sono mai stati pubblicati, o sono del tutto scomparsi, oppure non meritano attenzione perché non presentano caratteri particolari. Il fatto che esistano grandi commenti coranici dei quali tutti riconoscono l’importanza (Tabarī, Rāzī, Zamakhsharī, Qurtubī…) non impedisce ai dotti di ogni epoca di produrre i propri commenti. L’obiettivo di un commento coranico infatti non è tanto spiegare il Corano quanto consentire a una generazione di una determinata regione di appropriarsi della sua interpretazione. In questo modo la pratica permanente del commento coranico stabilisce un legame permanente tra la comunità dei fedeli hic et nunc.
I commenti di ogni epoca sono il risultato di un insegnamento. L’esegeta non si chiude in un ufficio per comporre il suo tafsīr, commenta e spiega parti del testo coranico a un pubblico regolarmente selezionato. Egli può dar prova di originalità così come può accontentarsi di ripetere ciò che altri hanno detto prima di lui. Raramente il suo scopo è la ricerca dell’originalità; si tratta di stabilire una relazione tra il suo pubblico e la tradizione esegetica che raccoglie le interpretazioni canoniche. Questa trasmissione funge per lo più da cornice vincolante che limita l’interpretazione “individuale”: se devo capire un versetto non è sufficiente conoscere l’arabo, compreso l’arabo detto “classico”, perché il significato di questo versetto è stato fissato dalla Tradizione. Anche le interpretazioni teologiche o sufi che più si allontanano dall’interpretazione tradizionale tengono conto di quest’ultima. Tuttavia, se questo tiene a freno le interpretazioni “individuali”, non impedisce l’innovazione. Quest’ultima non deriva da un esame più rigoroso della lingua e della grammatica bensì dal rinnovamento della visione che i musulmani hanno maturato del loro posto nel mondo. Facciamo un piccolo esempio. Nel versetto 3,39 Giovanni il Battista è definito hasūr. Questo termine è stato inizialmente inteso con il significato di “impotente” poi, siccome la profetologia è evoluta verso l’idea che un profeta doveva essere perfetto, il termine ha assunto un altro senso ed è stato compreso come “casto” o “astinente”. Perciò, nonostante il peso della Tradizione, il tafsīr è una pratica viva.
Così ogni generazione, in quanto parte della umma, deve ricollegarsi al testo coranico. Questo è uno dei ruoli della moschea; infatti il tafsīr è generalmente un esercizio che si svolge nella moschea. In questo modo il Corano è sempre presente nelle menti. Non è necessario che tutti i musulmani abbiano un rapporto diretto con il Corano, è sufficiente che un piccolo gruppo riceva questo insegnamento e lo trasmetta alle persone attorno a lui.
Concludo insistendo su un punto: salvo rarissimi casi, le norme giuridiche, anche quando trovano fondamento nel Corano, non sono ricavate attraverso una semplice operazione di lettura. Lo dimostra ampiamente l’esempio del divieto del vino: l’esegeta riorganizza il testo coranico dopo averlo ristrutturato e, appoggiandosi su dati esterni al testo, ne propone un’interpretazione. In breve, il divieto del vino può essere fondato sul Corano solamente da interpreti ostili a questa bevanda. Per questa ragione ritengo sia possibile definire il Corano un “libro-specchio”. In altre parole, i significati che l’esegeta promuove non sono nel testo, ma emergono dall’interazione tra il testo e la sua esperienza.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Il termine arabo tafsīr designa esclusivamente l’esegesi del Corano. Quando si tratta dell’esegesi della Sunna si parla di sharh, spiegazione.
[2] Sull’opera legislativa di ‘Umar I si veda ‘Umar Ibn Shabba (m. 876), Tārīkh al-Madīna al-munawwara, Dār al-kutub al-‘ilmiyya, Bayrūt 1996, vol. I, pp. 374-390.
[3] Gli sciiti duodecimani l’hanno abbandonata in seguito al Grande Occultamento dell’Imam nel 940 o 941, quando l’assenza di quest’ultimo divenne un ostacolo alla perpetuazione di una comunità di fedeli. Gli zayditi fecero dell’Imam un dottore della Legge tra gli altri. Quanto agli ibaditi, disseminati in tutto il mondo islamico, cessarono ben presto di avere un Imam e, come nel Maghreb, delegarono le sue prerogative a un consiglio di dottori della Legge (‘azzāba). Tra gli ismailiti solamente la branca nizārita continua ad aderire alla dottrina primitiva.
[4] Una buona descrizione del processo, per quanto limitata al caso hanafita, è offerta da Behnam Sadeghi, The Logic of Law Making in Islam. Women and Prayer in the Legal Tradition, Cambridge University Press, New York 2013.
[5] Su questo tema si veda Joseph Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1998.
[6] Gli eredi menzionati dal Corano sono i figli legittimi di ambo i sessi, il padre e la madre, il fratello e la sorella, il marito e la moglie. Secondo la dottrina malikita essi sono più numerosi: a quelli menzionati dal Corano si aggiungono i discendenti di ambo i sessi del figlio, i discendenti di ambo i sessi del padre e della madre, i figli del fratello germano e del fratello consanguineo, il fratello germano del padre e suo figlio, il fratello consanguineo e suo figlio, e infine il padrone o la padrona (nel caso della persona affrancata).
[7] Su questo tema si vedano i lavori di David S. Powers, Studies in Qurʾān and Hadīth. The Formation of the Islamic Law of Inheritance, University of California Press, Oakland 1986.
[8] Su questo tema mi permetto di rimandare al mio articolo Donner le sein c’est comme donner le jour. La doctrine de l’allaitement dans le sunnisme médiéval, «Studia Islamica» 92 (2001), pp. 5-52.
[9] Da qui deriva la critica al sunnismo da parte ismailita, che ritiene superiore la propria concezione perché l’Imam vivente consente di evitare questa incertezza. Si veda al-Qādī al-Nu‘mān, Disagreements of the Jurists. A Manual of Islamic Legal Theory, tradotto e curato da Devin J. Stewart, New York University Press, New York-London 2014, p. 77.
[10] Il termine shāri‘ designa allo stesso tempo la strada e il legislatore. La metafora della via compare anche nel termine tarīqa, che designa ciò che impropriamente si definisce confraternita mistica.
[11] Si veda il nostro studio Les juristes et le Coran : un contresens d’al-Šāfiʿī (m. 204/820) au sujet du verset II 232 ?, «Mélanges de l’Université Saint-Joseph», 64 (2012), pp. 171-193.
[12] È quella che Claude Gilliot definisce “esegesi parafrastica” in Les débuts de l’exégèse coranique, «Revue des Mondes Musulmans et de la Méditerranée» 58 (1990), n. 4, pp. 82-101.
[13] Si tratta in realtà dell’increazione della parola di Dio quale attributo divino. Per maggiori dettagli su questo tema rimandiamo a Daniel Gimaret, La doctrine d’al-Ashʿarī, Cerf, Paris 1990, pp. 309-322 e a Wilferd Madelung, The Origins of the Controversy Concerning the Creation of the Koran, in J.M. Barral (a cura di) Orientalia hispanica sive studia F. M. Pareja octogenario dicata, Brill, Leiden 1974, pp. 504-525.
[14] Per una disamina globale si veda Herbert Berg, The Development of Exegesis in Early Islam. The Authenticity of Muslim Literature from the Formative Period, Curzon Press, Richmond (Surrey) 2000.
[15] Al-Wāhidī, Asbāb al-nuzūl, Dār al-Hadīth, al-Qāhira 1998, p. 125, n° 307.
[16] Per completezza occorre ricordare che il versetto 4,35, in caso di gravi conflitti coniugali, raccomanda di ricorrere a un arbitrato.
[17] Su questo tema si veda John Burton, The Sources of Islamic Law: Islamic Theories of Abrogation, Edinburgh University Press, Edinburgh 1990. Per considerazioni più generali sul Corano si veda François Déroche, Le Coran, PUF, Paris 2005. Una delle principali griglie di analisi del Corano è la distinzione tra “sure meccane” e “sure medinesi”, che è una conseguenza della canonizzazione della “Vita” del Profeta.
[18] Qurtubī, Jāmiʿ al-ahkām, III, 36.
[19] Ibid.
[20] Qurtubī, Jāmiʿ al-ahkām, III, 36.
[21] Qurtubī, Jāmiʿ al-ahkām, X, 85.
[22] Qurtubī, Jāmiʿ al-ahkām, VI, 184-185.
[23] Ibi, VI, 185.
[24] Ibid.
[25] Ibi, VI, 185-86.
[26] Ibi, VI, 186.