L’intreccio tra politicizzazione della religione ed esasperato comunitarismo ha portato a una spirale di scontri tra indù e musulmani in India
Ultimo aggiornamento: 28/06/2024 10:39:43
India. In un tessuto culturale caratterizzato da armonia e tolleranza sono entrati in azione fattori di violenza, esplosa con particolare virulenza dopo la partizione del 1947. L’intreccio tra politicizzazione della religione ed esasperato comunitarismo ha portato a una spirale di scontri tra indù e musulmani.
L’11 settembre 1893 Sri Vivekananda pronunciò presso il World Parliament of Religions di Chicago un discorso memorabile. Come rappresentante delle tradizioni religiose e culturali dell’India, Vivekananda esprimeva la speranza che tutte le religioni del mondo, in quanto strade diverse per raggiungere lo stesso Dio, potessero collaborare e vivere in armonia. Le sue parole inauguravano una nuova era di tolleranza religiosa e armonia:
Sono orgoglioso di appartenere a una nazione che ha accolto perseguitati e rifugiati di tutte le religioni e di tutte le nazioni della terra[1].
Egli esortava il suo uditorio a iniziare un nuovo capitolo nella storia umana fondato sul rispetto reciproco e sulla tolleranza:
Il settarismo, la bigotteria e il loro orribile frutto, il fanatismo, si sono impossessati di questa splendida terra per lungo tempo. L’hanno riempita di violenza e intrisa di sangue umano, hanno distrutto civiltà e fatto cadere nella disperazione intere nazioni. […] Mi auguro con tutto il cuore che la campana che questa mattina ha suonato in onore di questo congresso sia la campana a morto di ogni fanatismo e di ogni persecuzione, sia essa condotta con la spada o con la penna[2].
Sua fonte d’ispirazione erano alcune parole tratte dalla Bhagavad Gita, uno dei libri sacri dell’Induismo:
Qualunque strada percorrano gli uomini / è la mia strada: / non importa dove camminano / quella strada conduce a me[3].
Questa tradizione spirituale fu anche il cardine della filosofia del Mahatma Gandhi e del suo impegno per l’indipendenza dell’India. Con il suo stile di vita, le sue azioni e i suoi discorsi, il Mahatma Gandhi ha ispirato un modo di vivere completamente estraneo alla violenza. La fonte della sua forza risiedeva in queste parole, come lui stesso ebbe a dichiarare:
La non violenza è una forza attiva del più alto ordine. È la forza dell’anima o il potere di Dio dentro di noi. La non violenza è un credo immutabile che dev’essere perseguito di fronte della violenza che infuria attorno a voi». Gandhi proseguiva dicendo che una fede viva nella non-violenza «è impossibile senza una fede viva in Dio. Un uomo non violento non fa nulla se non per la potenza e la grazia di Dio[4].
La stoffa dei popoli asiatici
Senza partecipare di questa impostazione ultimamente sincretista, l’Esortazione Apostolica post-sinodale Ecclesia in Asia sottolinea la ricchezza delle tradizioni religiose dell’Asia e individua alcuni valori specificamente asiatici che, naturalmente, sono anche indiani.
I popoli dell’Asia sono fieri dei loro valori religiosi e culturali, come l’amore per il silenzio e la contemplazione, la semplicità, l’armonia, il distacco, la non violenza, il lavoro faticoso, la disciplina, lo stile di vita sobrio, la sete di conoscenza e la ricerca filosofica. Hanno a cuore il valore del rispetto della vita, la compassione per tutti gli esseri viventi, la vicinanza alla natura, la pietà filiale verso i genitori, gli anziani e gli antenati, e un senso di comunità molto sviluppato. […] Si può dire che l’Asia ha spesso dimostrato una notevole capacità di adattamento e una naturale apertura all’arricchimento reciproco delle persone in un contesto formato da religioni e culture diverse[5].
Dal canto suo Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia, sottolinea che i due grandi imperatori dell’India, Asoka (III secondo a.C.) e Akbar (XVI secolo), avevano prescritto in epoche diverse la tolleranza verso tutte le tradizioni religiose, in modo che in India potessero convivere tutte le fedi. Asoka, che ha diffuso il Buddismo in varie terre dell’Asia, era molto rispettoso delle tradizioni religiose di quanti non aderivano alla sua tradizione spirituale «perché chi venera la propria setta e disprezza le sette altrui per un attaccamento integrale alla sua in realtà infligge in questo modo le ferite più profonde alla propria setta». Anche Akbar impose che «nessuno dovesse essere molestato a causa della sua religione, e che a ciascuno fosse concesso di seguire la religione che preferiva»[6].
È in questo tessuto culturale indiano caratterizzato dalla non violenza, dal rispetto, dall’armonia e dalla collaborazione che sono entrate lentamente in azione le forze della violenza.
La ferita della partizione
Seminati molto tempo addietro, i semi della violenza sono rimasti latenti per lungo tempo. L’invasione Moghul aveva creato un’atmosfera di ostilità tra i seguaci dell’Induismo e i fedeli dell’Islam, ma fu la divisione tra India e Pakistan del 1947 ad aggravare decisamente il conflitto. Per impedire la concessione dell’indipendenza, i governanti britannici incoraggiarono i leader della comunità musulmana a creare una divisione all’interno del movimento d’indipendenza che, alla fine, fu responsabile della partizione dell’India. La divisione produsse un grande spargimento di sangue ed entrambe le comunità scatenarono la violenza l’una contro l’altra. Il fuoco che covava sotto le ceneri venne attizzato per innescare una terribile conflagrazione che distrusse le vite di migliaia di persone. Nonostante gli appelli di Gandhi a fermare la violenza, si verificarono ovunque uccisioni di massa e devastazioni. Le persone dovettero fuggire dal loro Paese a causa dell’appartenenza religiosa. Da quel momento la violenza ha travolto l’India e gli elementi radicali di entrambe le comunità hanno iniziato a uccidere per futili motivi.
La percentuale della popolazione musulmana, che nel 1951 era del 10%, oggi è aumentata al 14%. Ciò ha destato il sospetto di alcuni leader indù fondamentalisti, i quali pensano che in un futuro non molto lontano l’Islam supererà l’Induismo. Molti musulmani indiani hanno continuato ad essere legati al Pakistan anche dopo che questo era diventato una nazione indipendente, ciò che ha contribuito a suscitare dubbi sulla loro fedeltà all’India nei cuori di alcuni leader indù. Tutti questi fattori hanno dunque concorso a creare sentimenti ostili tra le due religioni, alimentando la rivalità tra Pakistan e India, ma anche l’ostilità all’interno di quest’ultima tra gruppi indù sempre più militanti e la consistente minoranza musulmana.
Storia della contesa del Kashmir
La seconda ragione d’ostilità tra indù e musulmani è legata alla questione del Kashmir, che esplose immediatamente dopo la partizione tra India e Pakistan. Il conflitto s’accese quando, nell’ottobre del 1947, il maharaja indù del Kashmir chiese aiuto all’India per sedare una rivolta interna e concordò l’annessione del suo principato all’Unione Indiana. Il Pakistan, che considerava il Kashmir parte del suo territorio in forza della maggioranza musulmana che lo abitava, reagì inviando il suo esercito e le ostilità sfociarono in guerra aperta. Dopo l’intervento Onu del 1948, la controversia degenerò nuovamente in guerra nel 1962 (guerra sino-indiana), nel 1965 e nel 1971, senza contare le continue tensioni che si succedono dal 1989 a oggi.
A questo si aggiunse un’ondata di attentati terroristici. A Mumbai se ne contarono otto nel 1993 e uno nel 2006, di grandi dimensioni. Nell’attentato, che puntava soprattutto a fare vittime occidentali, rimasero uccise 172 persone. Questi attentati vennero attribuiti a gruppi terroristici islamici. Da quel momento, gli indù iniziarono ad associare l’Islam alla violenza e al terrorismo e il divario tra le comunità delle due religioni andò ampliandosi irrimediabilmente.
Il radicalismo indù
Anche l’induismo ha prodotto i suoi gruppi radicali. L’ideologia radicale di organizzazioni come l’RSS (Rastriya Swayamsevak Sangh, “Organizzazione Volontaria Nazionale”) e della VHP (Vishva Hindu Parishad, “Consiglio Mondiale Indù”), ha instillato nei seguaci una profonda ostilità verso i musulmani e i cristiani. L’ispiratore di questi gruppi e ideologo del nazionalismo indù fu Vinayak Savarkar, che nel 1928 pubblicò un pamphlet dal titolo Hindutva: chi è un indù. Secondo Savarkar, un indù è colui che guarda all’India come madrepatria e Terra santa, ciò che ovviamente esclude dall’appartenenza all’India i musulmani, la cui terra santa si trova alla Mecca.
Dalla RSS sono nati altri gruppi nazionalisti indù, che insieme formano la cosiddetta Sangh Parivar (Famiglia di Organizzazioni), e il partito nazionalista BJP (Bharatiya Janata Party, “Partito Popolare Indiano”), di Narendra Modi, vincitore delle ultime elezioni.
Tuttavia, se i militanti dell’RSS che hanno fatto campagna per Modi hanno insistito su temi classici della retorica nazionalista indù (la costruzione, sul sito della moschea distrutta nel 1992 ad Ayodhya, di un tempio dedicato al dio indù Rama; la soppressione di codici giuridici separati per i musulmani; le leggi contro le conversioni di indù alle religioni “non indiane”), gli elettori più giovani che hanno votato per Modi lo hanno fatto perché affascinati dalla crescita economica del Gujarat, di cui Modi è stato governatore[7].
La natura aggressiva del fondamentalismo indù si è vista in azione nel 2008, quando contro le popolazioni cristiane del distretto di Kandamal, in Orissa, si è scatenata una violenza senza freni. Le chiese e le istituzioni cristiane furono distrutte, le persone mutilate e uccise, mentre si moltiplicavano le proteste internazionali contro questa brutale carneficina.
All’origine della tragica vicenda vi è l’uccisione del Sanyasi indù [monaco, N.d.R.] Swami Lakshamanada, importante leader della Vishva Hindu Parishad. Avvenuta per mano di gruppi maoisti, essa fu attribuita ai cristiani, cosa che contribuì ad aizzare una folla indù inferocita che attaccò le case e le chiese cristiane creando un’atmosfera di grande terrore. Molti dovettero fuggire, abbandonare le loro case e i loro beni e cercare protezione e riparo nelle foreste vicine. Preti e suore furono brutalmente aggrediti e trentotto persone furono uccise nei tumulti contro i cristiani fomentati dai responsabili del BJP. Secondo le stime, oltre 1400 case e 80 luoghi di culto cristiani furono distrutti. Come ha osservato un analista, «ciò a cui assistiamo oggi non è tanto la rinascita della religione quanto del comunitarismo, in forza del quale una comunità di credenti non ha in comune solo un’appartenenza religiosa ma anche interessi sociali, economici e politici»[8].
Religione, politica, caste
All’ascesa del fondamentalismo è legato il fenomeno della politicizzazione della religione. Come qualsiasi osservatore del panorama religioso e culturale dell’India sa, l’appartenenza religiosa è un elemento centrale della vita di ogni indiano. Nulla accade nella vita degli indiani senza che vi sia un riferimento alla religione di ciascuno. Si può perciò immaginare lo scompiglio che i partiti politici possono generare nella società quando cercano di sfruttare la religione per i propri fini. La religione diventa così motivo di separazione e divisione piuttosto che di unità e integrazione.
I leader di alcuni partiti politici hanno usato questa scorciatoia per ottenere il successo e il potere, politicizzando la religione dei loro aderenti. Il sistema consiste nel seminare paura e diffidenza nei cuori dei propri seguaci enfatizzando a dismisura i vantaggi di cui godono i seguaci di altri gruppi religiosi. In questo scenario, l’alleanza tra i gruppi estremisti di ogni religione e i partiti politici diventa una seria minaccia alla pace e all’armonia della società.
Nonostante i progressi compiuti sul fronte economico c’è ancora molto da fare sul versante sociale, e dei rapporti tra le comunità di religioni diverse. In India, comunità e caste restano all’interno dei loro confini e non si è ancora verificata una vera e propria integrazione. Il volto della nuova India è macchiato dal dramma dai disordini comunitari, spesso causati dal fatto che l’intera comunità è ritenuta responsabile dei crimini commessi da una minoranza. La classe dirigente deve ergersi al di sopra delle considerazioni di parte e fare prevalere il bene del tutto su quello della parte. Essa deve agire a favore di un’India unita che garantisca la libertà di culto a tutte le religioni e a tutti i gruppi.
Ciò che Asoka, Akbar e il Mahatma Gandhi hanno detto e fatto dovrebbe diventare lo stile di vita di tutti gli indiani. Come ha sottolineato l’analista Krishna Kumar,
i musulmani indiani […] dovrebbero andare al di là delle preoccupazioni meschine per le ingiustizie materiali, e non dovrebbero covare amarezza, invidia o rabbia nei confronti della comunità maggioritaria, ma [...] la comunità maggioritaria deve offrire garanzie costituzionali affinché i diritti delle minoranze siano rispettati, non calpestati.
Kumar ha osservato inoltre che «la libertà implica una responsabilità verso la giustizia. Facciamo in modo che la libertà di uno non diventi un tormento per qualcun altro»[9]. Ciò che Abraham Lincoln disse a Gettysburg resta ancora attuale e valido per tutti: «Rancore per nessuno, carità per tutti».
La laicità prevista dalla Costituzione dell’India rispetta l’uguaglianza di tutte le religioni e non ne implica la rimozione dallo spazio pubblico. In un articolo scritto su The Hindu il 6 giugno del 2014 l’editorialista Hasan Suroor evidenziava la necessità di rispettare la tradizione laica dell’India per impedire l’ascesa del fondamentalismo religioso e del radicalismo: «Il modello indiano di laicità non ha mai scoraggiato la religiosità o la celebrazione della religione»[10]. La laicità può quindi agire come baluardo contro il comunitarismo e il fondamentalismo, che vogliono ridurre le minoranze alla servitù. Anche Amartya Sen è convinto che la tradizione laica codificata dalla Costituzione dell’India sia il miglior antidoto contro i capricci di una violenza che l’adesione esasperata a una mentalità comunitarista potrebbe scatenare: «Il principio della laicità, nella sua interpretazione più diffusa in India, esige che tutte le comunità religiose godano di un pari trattamento nella politica e negli affari dello Stato»[11]. È questa la strada.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] P.R. Bhuyan, Swami Vivekananda: Messiah of Resurgent India, Atlantic Publishers, Ocala 2003, 16.
[2] Ibidem.
[3] Bhagavad Gita, cap. IV.
[4] Mohandas K. Gandhi, Harijan, 12 (Nov. 1935), 23.
[5] Giovanni Paolo II, Ecclesia in Asia, 6.
[6] Amartya Sen, The Argumentative Indian: Writings on Indian Culture, History and Identity, Penguin Books, New Delhi 2005, 18.
[7] Ibidem.
[8] Krishna Kumar, Religious Fundamentalism in India and Beyond, Parameters, 32,3 (autunno 2002), 29.
[9] Ibidem, 30.
[10] Hasan Suroor, The Hindu, 6 giugno 2014, 10.
[11] Amartya Sen, The Argumentative Indian, 313.