Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:30:30

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan sta tentando di raggiungere un accordo per il cessate-il-fuoco in Ucraina e lavora alla preparazione di un incontro tra Vladimir Putin e Volodimir Zelensky. Erdoğan sembra uno dei pochi rimasti a riporre ancora qualche speranza nella diplomazia. Ma durante questa settimana la Turchia è stata al centro dell’attenzione anche per altri motivi.

 

Il primo riguarda le sorti dell’attivista Osman Kavala. Nel 2017 le autorità turche lo hanno arrestato con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione delle proteste di Gezi Park del 2013. La difesa nega il suo coinvolgimento, mentre i media e i governi occidentali sostengono che Kavala sia un filantropo. Lunedì è arrivata la sentenza turca: condanna all’ergastolo. In precedenza, l’incarcerazione di Kavala – che ora potrà ricorrere in appello – provocò una crisi diplomatica quando Ankara minacciò di espellere dieci ambasciatori occidentali, tra cui quello statunitense, che si erano esposti in favore dell’accusato.

 

Come ha riportato il Washington Post, il Dipartimento di Stato americano guidato da Antony Blinken ha definito «ingiusta» la sentenza e ha richiesto al governo turco di «cessare le azioni penali motivate politicamente». Tuttavia, Kavala non è l’unico imputato in questo processo: insieme a lui finiscono in carcere per 18 anni altre sette persone (registi, architetti, fondatori di ONG, studenti universitari), segno di «una società civile che Erdogan vuole spazzare via», come ha detto Pierre Haski a radio France Inter (pubblicato da Internazionale in italiano). Sul tema si è espresso anche il leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu, il quale ha definito le proteste di piazza Taksim del 2013 un «movimento nazionale» (a differenza di Erdoğan che parla di un complotto per provocare la caduta del governo) e ha promesso di «combattere contro coloro che mettono il potere giudiziario agli ordini della politica e tengono il nostro popolo ostaggio nelle prigioni». Su questo tema, Ankara e Washington potrebbero collidere. Ma come ha ricordato un editoriale del Financial Times, il ruolo che la Turchia svolge nella crisi ucraina potrebbe attenuare la risposta occidentale a questa ingiusta condanna.

 

Alla crisi ucraina è legata anche la questione energetica. Come abbiamo sottolineato in precedenti appuntamenti del Focus attualità, Ankara importa circa il 40% del suo fabbisogno di gas naturale dalla Russia. Ciò a cui si presta meno attenzione è che la seconda più importante fonte di approvvigionamento di gas sono gli Stati Uniti. Ma ora, con l’Europa impegnata a diversificare le sue fonti di approvvigionamento, e con gli Stati Uniti che hanno promesso ai loro partner europei maggiori esportazioni energetiche, la Turchia dovrà competere con altri mercati per garantirsi il GNL americano. Per questo, come ha scritto al-Monitor, è probabile che Erdoğan guardi a Iran, Turkmenistan e Azerbaigian per garantirsi gli idrocarburi necessari.  

 

Di certo la Turchia, che ha anche facilitato lo scambio di prigionieri avvenuto questa settimana tra Usa e Russia, potrà contare sulla sua rinnovata centralità all’interno della NATO, evidenziata dal ruolo che Ankara svolge nella guerra in Ucraina, anche in quanto fornitore di armamenti. I droni turchi, come ormai noto, sono stati determinanti per la difesa di Kiev. Tanto che Soner Cagaptay e Rich Outzen vi hanno dedicato un saggio su Foreign Affairs. Il successo del Bayraktar (questo il nome dei velivoli di produzione turca) è tale che gli ucraini vi hanno dedicato una canzone che è diventata virale sui social. Tuttavia, come hanno spiegato i due autori del saggio, occorre prestare attenzione alla strategia della nazione che li fornisce e ricordare che l’azienda produttrice è strettamente legata al presidente turco. La vendita di droni all’Ucraina «ha garantito a Erdoğan un rinnovato prestigio nella NATO in un momento in cui il suo governo si trova in una posizione pericolosa internamente e le sue relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa sono in crisi da diversi anni». A ciò si aggiunge che la vendita di armamenti a «circa due dozzine di Stati a medio-basso reddito» ha permesso alla Turchia di «estendere la sua influenza geopolitica e al tempo stesso di condizionare il risultato delle principali lotte di potere regionali».

 

Se da un lato questo nuovo ruolo migliora le relazioni e la proiezione di potenza della Turchia, dall’altro rischia di aumentare anche il numero di nemici, come avvenuto quando i droni turchi impiegati in Libia hanno causato le ire di Francia, Egitto ed Emirati Arabi. Erdoğan ne è ben consapevole e proprio per questo ha rinnovato le sue iniziative diplomatiche. Per la prima volta da cinque anni a questa parte il presidente turco si trova infatti in visita in Arabia Saudita. Il viaggio è stato “preparato” attraverso il trasferimento del processo sull’omicidio Khashoggi a Riyad, ed è del tutto probabile che Erdoğan vada alla ricerca di aiuti economici (soprattutto di un accordo per il sostegno della lira turca) ed energetici. Il presidente turco ha dichiarato che «migliorare la cooperazione in aree che includono la difesa e la finanza è nel nostro reciproco interesse», mentre secondo il Financial Times – che ricorda come Erdoğan abbia approfittato della visita anche per recarsi in pellegrinaggio a Mecca – l’incontro di giovedì sera con Muhammad bin Salman «è altamente simbolico, segna un cambiamento plateale nelle relazioni tra le due potenze regionali dopo anni di tensioni».

 

La violenza in Pakistan colpisce (anche) i cinesi

 

Imran Khan è stato costretto ad abbandonare il potere in Pakistan, ma a costringerlo – per la prima volta nella storia del Paese – non è stato un golpe dei militari o la sua morte, bensì una procedura costituzionale, come nelle democrazie consolidate. Così, «il verdetto della Corte Suprema [che ha reso possibile la fine del suo mandato] è un passo avanti per la democrazia del Pakistan». Che però è tutt’altro che consolidata e compiuta. Come ha infatti sottolineato Abdul Basit su Foreign Policy, il Pakistan «ha bisogno di un nuovo contratto sociale che affronti ingiustizie e ineguaglianze» ma, anche se le dichiarazioni del portavoce delle forze armate contro un possibile ritorno della legge marziale sono incoraggianti, «l’esercito rimane determinante in Pakistan».

 

Nell’immediato, tuttavia, i problemi sono soprattutto securitari ed economici. Sotto quest’ultimo aspetto, l’urgenza più immediata è la vertiginosa diminuzione delle riserve di valuta estera, causata dall’aumento dei prezzi internazionali. Secondo alcune stime, entro un paio di mesi Islamabad non sarà più in grado di pagare le importazioni di carburanti, oli da cottura e altri beni essenziali. Il ministro delle finanze Miftah Ismail, che recentemente ha incontrato il Fondo Monetario Internazionale per ottenere la ripresa del programma di prestiti da 6 miliardi di dollari (e anzi portarlo a 8), nel corso di un’intervista con al-Jazeera ha affermato di «avere una strategia per incrementare le riserve». Quello della bilancia dei pagamenti è un problema cronico del Paese, che si è trovato in questa situazione diverse volte. Ciò implica che da un lato la situazione sia meno preoccupante, ma dall’altro evidenzia come il sistema economico-produttivo pakistano sia insostenibile. Secondo Atif Mian, professore di economia a Princeton, le imprese locali non riescono a produrre nulla per l’esportazione e una parziale soluzione potrebbe essere quella di specializzarsi nella fornitura di servizi informatici. È comunque in quest’ottica che va interpretato il viaggio del primo ministro Shehbaz Sharif, a pochissima distanza dal suo insediamento, in Arabia Saudita (la visita dovrebbe durare fino a sabato), un Paese dove ha trascorso gli anni di esilio a cui è stato costretto dopo il colpo di Stato che ha rimosso dall’incarico il fratello maggiore Nawaz nel 2000.

 

Venendo alla questione securitaria, fondamentale per continuare ad attrarre gli investimenti cinesi nell’ambito del Corridoio Economico Cina-Pakistan della Belt and Road Initiative, le cose non sembrano andare meglio. In settimana infatti un attentato nei pressi dell’Istituto Confucio di Karachi ha causato la morte di tre cittadini cinesi, tra cui il direttore dell’istituto stesso. A compiere l’attacco, a differenza di quanto si potrebbe immaginare, non sono stati i Talebani o qualche altra organizzazione jihadista, bensì il gruppo separatista dell’Esercito di Liberazione del Balochistan, che si oppone agli investimenti cinesi nella zona. Il gruppo baluci ha reso noto attraverso un’email inviata ad al-Jazeera che per la prima volta l’attentato suicida è stato compiuto da una donna trentunenne, madre di due bambini. L’organizzazione baluci ha affermato di aver «preso di mira il direttore e i funzionari dell’Istituto Confucio, il simbolo dell’espansionismo economico, culturale e politico cinese, per dare un chiaro messaggio alla Cina che la sua presenza diretta o indiretta in Balochistan non sarà tollerata». Si tratta di un problema non di poco conto per i piani di investimento cinesi (e di attrazione di capitali esteri del Pakistan), anche perché l’attentatrice, un’insegnante figlia di un funzionario e moglie di un dentista e docente universitario, sembrerebbe una persona profondamente integrata nel sistema del Balochistan, aspetto che fa supporre una certa estensione del sostegno al movimento indipendentista baluci.

 

Sudan: continua la crisi politica, e in Darfur tornano le violenze

 

Due membri di spicco del precedente governo sudanese sono stati rilasciati dalle prigioni nel tentativo di ristabilire un minimo di fiducia tra le parti civili e militari e avviare un processo per risolvere l’impasse in cui il Sudan si trova dal colpo di Stato dell’ottobre scorso. Un situazione che secondo l’inviato dell’Onu per il Sudan, Volker Perthes, ora impegnato in un’iniziativa di dialogo politico tra gli attori locali, rischia di portare il Paese a un collasso economico e securitario. Il collasso sembra essersi già verificato nel Darfur, dove si contano almeno 200 morti in scontri tra i Janjaweed – tristemente noti per le atrocità commesse nella guerra civile scoppiata nel 2003 – e le forze di coalizione sudanesi guidate da Khamis Abdullah Abakar. Come ha spiegato il Guardian, nel Darfur gli scontri sono iniziati nei mesi scorsi quando fazioni rivali hanno iniziato a competere per ottenere acqua e terra per i pascoli, la cui scarsità è acuita dai cambiamenti climatici che colpiscono l’area.

 

I negoziati sul nucleare iraniano a un punto morto

 

Il testo dell’accordo sul nucleare iraniano è sostanzialmente pronto, eppure i negoziati sono in fase di stallo e più passa il tempo più il rischio è che non si raggiunga un punto d’incontro finale. È quanto sostiene un gruppo di ex diplomatici in una lettera aperta in cui ricordano ai «leader americani ed europei che lasciarsi sfuggire l’opportunità di disinnescare una crisi nucleare in Medio Oriente sarebbe un grave errore». Il mancato raggiungimento di un accordo avvicinerebbe infatti l’Iran alla capacità di dotarsi di armamenti nucleari. Una posizione diametralmente opposta è quella della redazione del Wall Street Journal, secondo cui mancano gli elementi basilari per potersi fidare del regime iraniano.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

 Erdoğan a Gedda

 

Questa mattina i maggiori quotidiani sauditi hanno aperto con gallerie fotografiche dell’incontro avvenuto ieri a Gedda tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, re Salman e il principe ereditario Mohammad bin Salman.

 

A poche ore dall’evento, la stampa araba non ha ancora pubblicato editoriali e commenti significativi sull’incontro. La questione sarà sicuramente messa a tema nei prossimi giorni e troverà spazio nella nostra rassegna di venerdì prossimo. Nel frattempo, leggiamo i titoli delle prime pagine di alcuni quotidiani panarabi che hanno riportato la cronaca dell’evento. Il giornale filo-saudita al-Sharq al-Awsat ha titolato “Arabia Saudita e Turchia verso una nuova era di collaborazione”, mentre il sito d’informazione filo-islamista ‘Arabī21 titola “Con una stretta di mano e un sorriso Mbs accoglie Erdoğan”. Per al-‘Arab, “Il presidente turco si riappacifica con la leadership saudita e con Muhammad Bin Salman”. Al-Quds al-‘Arabī si è limitato a riportare i tweet pubblicati in arabo sull’account di Erdoğan.

Infine, da vedere anche i servizi fotografici e i brevi video che documentano l’incontro, pubblicati sull’account Twitter dell’agenzia di stampa ufficiale del governo saudita (SPA).

 

La Tunisia spera nel Fronte di Salvezza nazionale

 

Martedì in Tunisia il capo del partito El-Amal, Néjib Chebbi, ha annunciato la costituzione di un Fronte di salvezza nazionale per contrastare la deriva autoritaria del presidente Saied. Il fronte è formato al momento da cinque partiti (Ennahdha, Qalb Tounes, Al Karama, Harak Tounes Al-Irada e El-Amal) e da alcune istituzioni della società civile.  

 

Su al-Quds al-‘Arabī, il giornalista tunisino Mhamed Krichen l’ha definita «la prima iniziativa seria dell’opposizione per uscire dalla dimensione della protesta e della denuncia di tutto ciò che sta facendo il presidente Kais Saied». Obiettivo dichiarato dal Fronte è convocare una conferenza di dialogo nazionale sulle riforme da attuare in ambito economico, politico, costituzionale e giuridico, e sostenere un governo di transizione. Dirimenti per il futuro del Paese – si legge – saranno tre fattori: la disponibilità delle istituzioni militari e sicuritarie a continuare ad assecondare Saied in tutto ciò che fa; la posizione di Francia e Stati Uniti riguardo agli eventi in corso; la capacità dei tunisini di sopportare le sempre più difficili condizioni di vita a cui sono sottoposti (soprattutto l’impoverimento generale). Il Fronte, scrive Krichen, è «forse l’ultima possibilità [di salvare] la barca prima che affondi».

‘Arabī21 ha pubblicato in esclusiva un’intervista all’ex presidente tunisino Moncef Marzouki, accanito oppositore di Saied e per questo condannato lo scorso dicembre a quattro anni di prigione (non scontati perché vive in Francia).

 

I negoziati con il Fondo monetario internazionale, ha dichiarato l’ex presidente, sono falliti e la Tunisia si avvia verso la bancarotta. Ma non tutti i mali vengono per nuocere: la bancarotta «accelererà la fine del colpo di Stato; le forze che sostengono Saied dall’interno dello Stato profondo arriveranno presto alla conclusione che l’unico modo di difendere i loro interessi e quelli della Tunisia è sbarazzarsi del cavallo perdente (Saied) su cui hanno scommesso». Per arrivare a una svolta, Marzouki ritiene però necessario l’intervento dell’esercito e delle forze di sicurezza.

 

Con le sue azioni, ha spiegato l’ex presidente, Saied ha riportato il Paese «agli anni Cinquanta del secolo scorso. Se non ha decretato la morte della democrazia è perché siamo nel 2022 e non nel 1959, ma quel che è certo è che ha decretato la propria morte politica».

 

Saied, ha concluso Marzouki, «è una persona con la mentalità di Gheddafi, crede che chi forma un partito sia un traditore e che i partiti siano una sozzura, opera di Satana». Peraltro, secondo Marzouki, la decisione del presidente di sostituire i membri dell’Autorità indipendente per le elezioni è un clamoroso auto-gol perché «ha convinto i tunisini, che conoscono il significato delle elezioni libere, che li sta riportando all’epoca della frode, oltre ad aver condannato al fallimento il suo referendum ancor prima che questo abbia luogo».

 

Sul fronte dei sostenitori di Saied, invece, il sito d’informazione tunisino Kapitalis ha dato voce a Sadook Shaabane, ex ministro della Giustizia tunisino, che ha definito gli eventi del 25 luglio scorso «una grande opportunità» e auspicato il ripristino del sistema presidenziale in auge prima del 2011.

 

Egitto tra promesse di dialogo politico e polemiche di fine Ramadan

 

Martedì, durante l’Iftar della Famiglia egiziana – l’evento che ogni anno riunisce i rappresentanti di vari segmenti della società del Paese – il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha annunciato l’avvio di un «dialogo politico globale» con tutte le forze politiche del Paese. L’annuncio ha suscitato apprezzamento e al tempo stesso preoccupazione da parte dell’opposizione: questa mossa riflette un desiderio reale del regime di attuare delle riforme politiche o è semplicemente finalizzato a contenere le tensioni politiche e sociali?

 

Come spiega il quotidiano londinese al-‘Arab, la tempistica scelta dal presidente per avviare un dialogo nazionale sembra essere dettata dal fatto che «l’attività politica non è più tra le priorità degli egiziani nella misura in cui questi ultimi sono concentrati soprattutto sulle difficili condizioni di vita. [Per questa ragione] la presenza o l’assenza dell’opposizione non provocherà una crisi dell’autorità costituita, visto che queste forze non riusciranno facilmente a costituire le loro basi». La ragione? Le forze civili e partitiche non hanno più la capacità di attrarre le persone a basso reddito, che oggi guardano agli ombrelli di protezione sociale messi a disposizione dal governo.

 

Durante l’Iftar, Sisi ha anche annunciato la ripresa dei lavori da parte della Commissione per la grazia presidenziale. Una questione diventata prioritaria per il governo perché, scrive al-‘Arab, il tema dei detenuti politici e di membri delle istituzioni civili ha influenzato negativamente il rapporto tra il regime e le correnti politiche.

 

Su questo tema si è focalizzato Al-Arabī al-Jadīd, che ha ospitato una lunga riflessione sui prigionieri di coscienza e politici in Egitto a partire dalla notizia dell’avvenuta liberazione questa settimana di 41 detenuti in attesa di giudizio. Una decisione dettata probabilmente dalle «condizioni sociali ed economiche soffocanti del Paese». Mu‘taz al-Fujairi, esperto di diritti umani e autore dell’articolo, giunge a quattro conclusioni rispetto all’esito dei processi in Egitto: 1) la risposta delle autorità egiziane è più rapida nei casi di cittadini con doppia cittadinanza, a condizione che l’altro Paese faccia pressione diretta sul regime, come è avvenuto nel caso del giornalista Mohamed Fahmy (canadese-egiziano) e degli attivisti per i diritti umani Mohamed Soltan e Aya Hegazy (entrambi con passaporto americano ed egiziano). 2) Le pressioni internazionali dirette sono decisive per alcuni detenuti, soprattutto se è in gioco una minaccia diretta agli interessi economici e militari tra gli Stati coinvolti. 3) Il regime tende a gestire i casi dei detenuti legati ai media, alla società civile e ai movimenti per i diritti umani in fase di custodia cautelare, prima cioè che vengano emesse sentenze giudiziarie nei loro confronti per evitare gli interventi della comunità internazionale. 4) Il margine di tolleranza nei confronti dei prigionieri politici è bassissimo, soprattutto se sono coinvolti dei Fratelli musulmani.

La «repubblica della paura», come l’ha definita al-Fujairi, è destinata a durare fino a quando sviluppi interni o internazionali non indurranno il regime a concedere uno spazio, anche limitato, di dissenso politico.

 

Mentre ci avviciniamo alla conclusione del Ramadan, la decisione annunciata dal ministro degli Affari religiosi (Awqāf) egiziano, Muhammad Mukhtar Gomaa, di vietare le veglie di preghiera notturne negli ultimi dieci giorni del mese sacro per l’Islam ha decisamente scaldato gli animi della società. Benché ufficialmente il provvedimento sia stato presentato come misura di contenimento della pandemia (anche se i numeri ufficiali dei contagi sono bassissimi, nell’ordine di un centinaio al giorno), molti giornalisti e intellettuali egiziani si sono domandati se si sia trattato di una scelta politica o religiosa. Bollata come «decisione folle» costituzionalista egiziano Mohamed Nour Farhat sul quotidiano al-Hurra, per il londinese al-‘Arab la decisione è finalizzata a «purificare le moschee e le zāwiya [sedi di confraternite religiose sufi] dagli elementi salafiti». Lo stesso quotidiano riporta l’idea di alcuni osservatori per cui il ministro egiziano avrebbe servito ai gruppi islamisti l’occasione di attaccare il regime, rendendo difficile a quest’ultimo intraprendere in futuro altre battaglie ideologiche contro le correnti religiose del Paese.

 

Sull’onda del malcontento popolare, pochi giorni fa il ministro è ritornato sui propri passi, autorizzando le preghiere notturne nelle ultime tre notti di Ramadan, purché queste avvengano «nelle moschee principali, gestite da imam del ministero degli Affari religiosi». Tra le altre misure annunciate da Gomaa, quella di vietare nelle piazze la preghiera dell’Eid al-Fitr, la festa della cessazione del digiuno che conclude il Ramadan. Come nel caso delle veglie notturne, quest’anno sarà perciò consentito celebrare l’Eid soltanto nelle grandi moschee e il sermone (il cui testo sarà stabilito dal ministero degli Affari religiosi) non dovrà protrarsi per più di dieci minuti. Pena il licenziamento degli imam che violano le norme.

 

In difesa del diritto dei musulmani egiziani di esercitare il culto è intervenuto il quotidiano ‘Arabī21, che ha dato voce al professore di Diritto islamico Attia ‘Adlan: «il ministro degli Awqāf non ha il diritto di imporre direttive con cui vieta le veglie notturne visto che la maggior parte delle strutture hanno già abbandonato tutte le restrizioni per l’epidemia di Covid. Poiché l’atto di culto nell’Islam è un diritto di ogni musulmano non è consentito alla legge religiosa né alla Costituzione del Paese impedire ai musulmani di esercitarlo». Per altri invece la questione ha una valenza prettamente politica. Le decisioni del ministero dicono «la paura dei governanti che gli egiziani si assembrino, anche solo per pregare», ha dichiarato allo stesso quotidiano il giornalista Khalif al-Sharif. 

 

Sul suo account Twitter, Gomaa ha rispedito al mittente tutte le accuse che lo hanno travolto. Secondo lui, i responsabili degli attacchi a cui è stato sottoposto sarebbero i Fratelli musulmani, che gli avrebbero aizzato contro l’opinione pubblica egiziana per vendicarsi della serie televisiva “La scelta – 3”, mandata in onda durante il Ramadan. Questa serie ha suscitato un grande disappunto tra gli islamisti del Paese perché mette in scena i massacri di piazza Rabi‘a al-‘Adawiyya di luglio 2013 e la deposizione dell’allora presidente islamista Muhammad Mursi a partire dalla prospettiva del regime.

 

In breve

 

Un nuovo video ottenuto da Martin Chulov (Guardian) mostra in maniera incontrovertibile (e assai cruda) i crimini compiuti dalle forze di intelligence del regime siriano.

 

Da quando Muhammad Bin Salman ha iniziato a prendere di mira le immense ricchezze di alcuni principi sauditi, diversi di loro hanno venduto le loro proprietà, sia per evitare di finire nel mirino di MbS che per potersi sostenere dopo che il principe ereditario ne ha prosciugato le fonti di introiti (Wall Street Journal).

 

Isis non è più una minaccia esistenziale per l’Iraq, eppure per alcune minoranze, a cominciare da yazidi e cristiani assiri, la situazione nella piana di Ninive e in Kurdistan resta estremamente pericolosa.

 

Le forze tigrine del TPLF hanno comunicato di essersi completamente ritirate dalla regione etiope dell’Afar per permettere agli aiuti umanitari di raggiungere l’area (CNN).

 

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