La pandemia di COVID-19 ha permesso a Pechino di accrescere la propria influenza in Medio Oriente e in Nord Africa. È un processo destinato a durare, in un momento in cui gli Stati Uniti danno segnali di voler ridurre la propria presenza nell’area e i Paesi della regione mostrano una certa insofferenza verso le politiche di Washington.

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Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 10:35:44

Accelerando un’evoluzione già in atto, la pandemia di COVID-19 ha permesso a Pechino di accrescere la propria influenza in Medio Oriente e in Nord Africa. Si tratta di un processo destinato a durare, in un momento in cui gli Stati Uniti danno segnali di voler ridurre la propria presenza nell’area e i Paesi della regione mostrano una certa insofferenza verso le politiche di Washington.  

 

La pandemia di COVID-19 si è rivelata un momento cruciale per le relazioni tra la Cina e i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Mentre in buona parte del mondo Pechino ha subito un contraccolpo reputazionale a causa dei suoi maldestri tentativi di occultare lo scoppio dell’epidemia, le cose in Medio Oriente sono andate diversamente. Un anno dopo l’inizio della pandemia, un sondaggio dell’Arab Barometer realizzato in alcuni Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa mostrava come la Cina fosse vista più positivamente degli Stati Uniti, mentre la politica estera di Pechino era percepita come migliore per la regione[1]. Ciò potrebbe segnalare più che altro un disagio reciproco nelle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente, ma è significativo che la percezione della Cina fosse ampiamente positiva in un periodo in cui in molti Paesi avveniva l’opposto.

 

La crescente presenza della Cina in Medio Oriente va analizzata attraverso una duplice lente: quella di una potenza in ascesa con interessi in un’area geopoliticamente rilevante, e quella di un concorrente della potenza globale dominante, gli Stati Uniti. Entrambi gli aspetti sono importanti per capire come e perché la Cina stia diventando un potente e influente attore extraregionale in Medio Oriente.

 

Verso un secolo euroasiatico

 

Nel primo caso, i rapporti tra Cina e Medio Oriente sembrano la conseguenza naturale di un mutamento nelle relazioni internazionali globali, legato all’aumento delle interazioni politiche ed economiche attraverso l’Eurasia e l’Oceano Indiano. Il baricentro economico mondiale si sta spostando: negli anni ’80 si trovava nell’Atlantico centro-settentrionale, entro il 2050 sarà situato in un’area compresa indicativamente tra Cina e India, e questo sta portando a un avvicinamento dei mercati eurasiatici. Si calcola inoltre che entro il 2040 il 50% del PIL mondiale proverrà dall’Asia[2]. Dal lato mediorientale, gran parte dei crescenti legami internazionali con l’Asia riguardano i Paesi del Golfo, dato che il mercato energetico rappresenta una parte sostanziale degli scambi. Tuttavia, poiché il crescente potere politico ed economico dell’Asia produce un’intensificazione delle relazioni, gli interessi dei Paesi asiatici nel Golfo cresceranno di conseguenza, e questo li porterà ad avere un ruolo di maggior rilievo nella stabilità e prosperità del Medio Oriente. In anni recenti, infatti, India, Giappone, Corea del Sud, Singapore e Cina hanno tutti rafforzato la loro presenza regionale.

 

Tra queste potenze asiatiche, la Cina è quella che avuto finora il ruolo più significativo, grazie in particolare alla sua presenza economica. Il suo status di superpotenza commerciale globale si riflette anche nelle sue relazioni bilaterali in Medio Oriente: secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 2019 la Cina figurava tra le prime quattro destinazioni delle esportazioni di dieci Paesi mediorientali e dell’Africa del Nord, e tra le prime tre fonti delle importazioni di ogni Paese della regione. Nel 2017 è diventata la principale fonte extraregionale di investimenti diretti esteri e, secondo il China Global Investment Tracker dell’American Enterprise Institute, è tra i maggiori appaltatori dei progetti regionali di sviluppo, con contratti del valore complessivo di 123 miliardi di dollari dal lancio della Belt and Road Initiative (BRI) nel 2013. Ciò è coerente con il potere economico complessivo della Cina, il cui PIL è secondo solo a quello degli Stati Uniti, e dovrebbe superarlo entro il 2032.

 

Questa presenza economica s’inserisce in una grande cornice di politica estera: la Belt and Road Initiative, il più significativo progetto internazionale mai intrapreso dalla Repubblica Popolare Cinese. Esso consiste in una rotta terrestre, la Silk Road Economic Belt (SREB), una marittima, la Maritime Silk Road Initiative (MSRI), la Digital Silk Road (DSR) e la Health Silk Road (HSR). Generalmente intesa come una serie di progetti di infrastrutture materiali, la BRI promuove allo stesso tempo l’interconnessione fisica, sotto forma di strade, porti e oleodotti, e quella intellettuale. Le sue componenti culturali, tecnologiche, mediatiche ed educative sono infatti elementi centrali di ciò che Pechino spera di ottenere con il suo progetto. Se l’Unione Europea, il principale partner commerciale della Cina, è un punto focale della Belt and Road Initiative, Medio Oriente e Nord Africa sono un crocevia fondamentale per collegare sia via terra che via mare i due estremi dell’Eurasia. Sono diventati perciò un’area molto importante per la Cina, com’è evidente dalle frequenti visite di politici di alto profilo e dalla collaborazione istituzionale tramite organi come il China-Arab States Cooperation Forum (CASCF) e il China-GCC [Consiglio di Cooperazione del Golfo] Strategic Dialogue. Data la profondità del coinvolgimento, questi legami formano un importante sistema di relazioni bilaterali, capace di avvicinare l’Asia al Medio Oriente e viceversa.

 

La pandemia di COVID-19 non ha fatto altro che intensificare questo processo. Al di là dell’iniziale risposta della Cina al virus, i suoi partner mediorientali hanno rapidamente fornito un soccorso materiale al gigante asiatico. Il Qatar ha spedito a Pechino cinque navi cargo da 300 tonnellate di forniture mediche e gli Emirati sono stati citati dal portavoce del ministro degli Affari esteri nella ristretta lista di Paesi che hanno offerto «comprensione, sostegno e aiuto sinceri e amichevoli». Nel momento in cui il COVID-19 si è propagato velocemente in Medio Oriente e in Nord Africa, la dinamica si è invertita e la Cina è diventata un donatore essenziale di sostegno materiale, inclusi mascherine, guanti, tamponi e la costruzione di ospedali da campo. La Cina ha anche fornito la consulenza di esperti e i suoi operatori sanitari hanno condiviso le loro conoscenze ed esperienze nella cura e nel tracciamento del virus[3]. Mentre accadeva tutto questo, gli Stati Uniti, alle prese con conflitti politici interni, sono stati incapaci di assumere il loro consueto ruolo di leadership in una situazione di crisi globale. I Paesi mediorientali, a lungo abituati a guardare a Ovest, verso gli Stati Uniti e l’Unione Europea, in quel momento hanno trovato più convincente la leadership cinese.

 

La diplomazia dei vaccini è stata un altro pilastro. Sebbene Pfizer BioNTech, Moderna e AstraZeneca fossero percepiti come soluzioni attraenti, tempismo e reperibilità erano essenziali, e il cinese Sinopharm è stato reso disponibile su larga scala molto prima delle alternative. Gli Emirati, il Bahrain e Israele hanno partecipato agli studi clinici per Sinopharm e di conseguenza hanno avuto un accesso tempestivo al vaccino. Questa collaborazione è stata un simbolo importante di fiducia politica e ha evidenziato la posizione raggiunta dalla Cina in diversi Paesi mediorientali. Nel caso degli Emirati ciò ha trovato ulteriore conferma quando nel marzo 2021 la Sinopharm e l’azienda emiratina G42 si sono accordate per produrre e distribuire insieme HayatVax, con l’obiettivo di produrre nel Paese del Golfo 200 milioni di vaccini all’anno[4].

 

La diplomazia mediorientale di Pechino

 

Oltre alla cooperazione contro il COVID-19, durante la pandemia la Cina si è distinta per una maggiore presenza nell’area. Nel luglio del 2020 si è svolto virtualmente in Giordania il Consiglio dei Ministri del CASCF, con l’impegno a collaborare nella risposta al COVID-19, a cooperare nei progetti arabi di sviluppo, a coordinarsi nel quadro della Belt and Road Initiative e a promuovere il dialogo politico per la sicurezza in Medio Oriente. Si tratta di un consesso limitato ai Paesi membri della Lega Araba e al quale dunque non partecipano altri Paesi mediorientali come Israele, Turchia e Iran. Questo offre alla Cina l’opportunità di costruire il proprio capitale diplomatico con i 22 Paesi arabi, ciò che poi le serve all’interno delle organizzazioni internazionali democratiche, dove conta il voto di ogni Paese. Quanto il sostegno arabo alle iniziative o alle posizioni cinesi sia utile è apparso evidente nel 2019, quando diversi Stati a maggioranza musulmana hanno firmato una dichiarazione di sostegno alle politiche della Repubblica Popolare Cinese nei confronti della popolazione uigura dello Xinjiang. È un fattore che va considerato anche quando la Cina si pronuncia sul trattamento dei palestinesi da parte di Israele. Benché la Cina abbia intense relazioni commerciali con Israele, che ha designato come partner globale per l’innovazione, il sostegno retorico alla Palestina risveglia sentimenti pro-Pechino in diverse capitali arabe. È anche un modo economico per presentarsi come grande potenza alternativa agli Stati Uniti, com’è stato palese nel maggio del 2021, quando sono nuovamente esplose le tensioni tra Israele e Palestina. Proprio in quel momento la Cina aveva la presidenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il suo rappresentante permanente al Palazzo di Vetro, Zhang Jun, ha sfruttato efficacemente la crisi richiamando alla moderazione, condannando Israele e mettendo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti nel bloccare una risoluzione contro lo Stato ebraico.

 

Poco prima, la Cina aveva colto l’occasione del viaggio in sei Stati mediorientali del suo ministro degli esteri Wang Yi per proporsi come mediatrice nel conflitto più problematico della regione, invitando a Pechino “personalità pubbliche” israeliane e palestinesi per dei negoziati di pace. Tuttavia, non ci sono prove che l’offerta sia stata presa sul serio, e visto il messaggio lanciato poi da Pechino durante la crisi di Gaza è improbabile che nel governo israeliano qualcuno consideri la Cina un attore neutrale credibile. Più che di una proposta sincera, si è trattato probabilmente di un gesto simbolico volto a presentare la Repubblica Popolare Cinese come una fonte di sostegno per gli arabi e a distinguersi dagli Stati Uniti.

 

Le destinazioni del viaggio di Wang Yi in Medio Oriente – il primo di due tour svolti entrambi nel 2021 – sono state Arabia Saudita, Turchia, Iran, Emirati Arabi Uniti, Oman e Bahrein. Alcune importanti iniziative hanno attirato l’attenzione mediatica, ma non hanno rappresentato cambiamenti sostanziali per la regione o per l’approccio cinese ad essa. Mentre era in visita al principe ereditario Mohammed bin Salman a Neom, la città saudita del futuro, Wang ha annunciato per esempio un piano per la pace in Medio Oriente in cinque punti[5]. Questi ultimi (rispetto reciproco, difesa dell’equità e della giustizia, non-proliferazione nucleare, promozione congiunta della sicurezza collettiva e accelerazione della cooperazione allo sviluppo) non hanno grandi ricadute concrete, ma indicano che la leadership cinese ha bisogno di mostrare il suo coinvolgimento in questioni di sicurezza regionale, visto che per essere presa sul serio non può proporsi soltanto come partner commerciale. Il piano per la pace è il tentativo di presentare il proprio approccio al Medio Oriente come un’alternativa alla presenza militarizzata degli Stati Uniti.

 

Un altro risultato importante del viaggio di Wang è stato raggiunto a Teheran, dove, dopo cinque anni di false partenze, è stato finalmente firmato il tanto atteso accordo di partnership strategica globale tra Cina e Iran. L’annuncio è stato accolto con grande enfasi dalla stampa, ma senza che fossero resi noti i dettagli sostanziali dell’accordo. Indiscrezioni iraniane parlano di 400 miliardi di dollari di investimenti cinesi e di una serie d’impegni nell’ambito della sicurezza, ma i cinesi hanno risolutamente negato la presenza di questi aspetti. Il portavoce del Ministro degli Esteri di Pechino, Zhao Lijian, ha affermato che l’accordo fisserà «le coordinate per una cooperazione di lungo periodo. Non contiene indicazioni quantitative di contratti o obiettivi né è rivolto contro terze parti»[6]. Durante il resto del viaggio c’è stato l’annuncio di HayatVax ad Abu Dhabi, mentre a Mascate si è parlato di riprendere i negoziati, lunghi e più volte sospesi, per un accordo di libero scambio tra Cina e GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo). In Bahrein i colloqui si sono concentrati soprattutto sul Coronavirus, ma poco prima la multinazionale cinese della tecnologia Tencent aveva annunciato che la sua Cloud division avrebbe aperto un centro dati a Manama, segno che i due Stati continueranno a collaborare in ambito tecnologico. Nel complesso, il viaggio è stato un esempio riuscito di promozione della propria immagine, con la Cina capace di mostrare la profondità e l’ampiezza della sua presenza in Medio Oriente, senza fondamentalmente introdurre alcun cambiamento.

 

Il successivo viaggio di Wang nella regione, svoltosi a luglio, si è concentrato sul Mediterraneo, con tappe in Siria, Egitto e Algeria. Dati i minori interessi economici in questi Paesi, il viaggio è stato di minor rilievo. Si è discusso di ricostruzione in Siria e di questioni specifiche a ciascuna delle relazioni bilaterali, ma a differenza del tour precedente non ci sono stati grandi annunci. In termini di considerazioni strategiche, sia Egitto che Algeria hanno una partnership strategica globale con la Cina. Nella visione gerarchica di Pechino, si tratta del livello più elevato di relazioni diplomatiche, condiviso con tre soli altri Stati mediorientali: l’Arabia Saudita, l’Iran e gli Emirati. La visita in questi Paesi intendeva probabilmente sottolineare l’equilibrio che la Cina sta cercando di mantenere nel suo approccio alla regione.

 

Nel loro insieme, i due viaggi e l’impegno regionale durante la pandemia evidenziano che la Cina è silenziosamente diventata un partner importante per diversi Paesi del Medio Oriente. L’attuale traiettoria indica che nella regione ciò è allo stesso tempo gradito e destinato a durare, dal momento che i leader mediorientali cercano di diversificare i propri partenariati con le grandi potenze.

 

Potenze concorrenti, interessi convergenti, metodi differenti

 

Questo rimanda direttamente al secondo livello di analisi: la Cina quale potenza globale in ascesa e potenziale alternativa al dominio americano nella regione. In quest’ottica, la proiezione cinese in Medio Oriente è percepita a Washington come segnale di una competizione emergente tra grandi potenze. I leader di Washington e Pechino hanno entrambi identificato la controparte come loro principale concorrente e, secondo questa logica, regioni come quella mediorientale si riducono spesso a teatri della rivalità tra grandi potenze. La posizione degli Stati Uniti come potenza extraregionale dominante nell’area, con tutto il suo fardello di decenni di politiche regionali militariste, ha generato in molti un senso di fatica. La Cina d’altro canto non ha mai avuto alcun tipo di ambizione di leadership in Medio Oriente e rappresenta perciò una pagina ancora da scrivere. Che abbia ottenuto un tale livello di sviluppo senza seguire le impopolari direttive del Washington Consensus la rende ancora più attraente: molti Paesi mediorientali desiderano infatti imparare dal percorso che ha trasformato la Cina da Paese del Terzo Mondo a superpotenza. A ciò è legato il fatto che mentre la politica estera statunitense nell’area ha assunto una crescente impronta militare, quella cinese è stata finora incentrata sulle questioni economiche. Questo offre alla Repubblica Popolare Cinese la possibilità di costruire un’immagine positiva di sé in Medio Oriente e in Nord Africa.

 

Se la narrazione della competizione tra grandi potenze implica un disaccordo tra Cina e Stati Uniti, in realtà non c’è grande distanza tra i loro interessi in Medio Oriente. Entrambi vogliono un Medio Oriente stabile, in cui la sicurezza garantisca la libertà di navigazione e l’energia proveniente dal Golfo continui a raggiungere i mercati globali. È interessante notare che la predilezione cinese per la stabilità non ha dunque messo in discussione lo status quo gradito agli Stati Uniti, e per questo i Paesi con cui la Cina ha relazioni più strette sono, a eccezione dell’Iran, alleati e partner degli americani.

 

Restano però le divergenze di approccio: gli Stati Uniti hanno fatto capire molto chiaramente che i loro alleati e partner non devono lavorare con la Cina su questioni che considerano strategicamente sensibili. David Schenker, assistente del Segretario di Stato degli Stati Uniti per gli Affari mediorientali durante l’amministrazione Trump, ha avvertito esplicitamente che qualora i Paesi del Golfo avessero adottato il 5G di Huawei avrebbero messo a repentaglio la cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito della sicurezza: «Questi Stati devono capire il valore del loro partenariato con gli Stati Uniti»[7]. Una volta ha messo in guardia più specificamente gli Emirati, scrivendo su The National Interest: «Non solo Huawei compromette le comunicazioni emiratine, e per estensione quelle americane, ma mina la sicurezza delle operazioni, della logistica e della cooperazione strategica potenziata tra Stati Uniti ed Emirati»[8].

 

Lo stesso argomento era stato utilizzato anche dall’ex segretario di Stato Mike Pompeo, quando durante la visita in Israele nel maggio 2020 aveva avvertito le autorità israeliane che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna collaborazione con la Cina su “temi sensibili”. Pare che gli israeliani abbiano capito il messaggio e rifiutato un’offerta cinese per un grosso progetto di desalinizzazione dell’acqua[9]. La collaborazione con la Cina continua a essere una preoccupazione americana anche sotto l’amministrazione Biden. Nell’agosto del 2021, durante un’audizione alla sottocommissione del Senato per le Relazioni estere, il vice-segretario aggiunto per il Medio Oriente del Dipartimento della Difesa, Dana Stroul, ha dichiarato: «Comprendiamo che in futuro ci saranno relazioni economiche o commerciali con la Cina, così come fanno anche gli Stati Uniti, ma se i nostri partner dovessero considerare di avviare con la Cina un certo tipo di attività o impegni metterebbero a rischio la tecnologia difensiva degli Stati Uniti e altri tipi di tecnologia, se non addirittura la sicurezza del suo personale militare»[10]. Questa dichiarazione sembra essere giunta in risposta alle voci secondo cui la Cina starebbe considerando di costruire una base militare negli Emirati, uno sviluppo che, se confermato, porterebbe la competizione regionale tra Stati Uniti e Cina a un nuovo livello[11].

 

Grazie all’approfondimento delle relazioni economiche e della cooperazione per la Belt and Road Initiative, i rapporti tra Cina e Medio Oriente sembrano seguire una traiettoria vantaggiosa per entrambi. Tuttavia, questo processo va considerato nel contesto delle relazioni di Pechino con Washington e tenendo conto della diffusa percezione in Medio Oriente di un disimpegno americano dall’area. La gestione delle tensioni legate a questi vari livelli influenzerà le politiche regionali al di là del triangolo Cina-USA-Medio Oriente. Anche gli altri Stati che hanno interessi nella regione dovranno fare importanti scelte di politica estera. Gli Stati Uniti, a lungo dominanti in Medio Oriente, continuano a segnalare la loro volontà di ridurre il proprio impegno, mentre cresce la presenza cinese. I Paesi eurasiatici che hanno interessi economici e militari in Medio Oriente dovranno considerare quanto questo panorama mutevole li riguarderà e decidere che forma di presenza perseguire nella regione. In sintesi, il Medio Oriente sarà modellato da un crescente multipolarismo e una regione che non è nota per la sua stabilità continuerà ad attirare potenze extraregionali.

 

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[1] I Paesi in cui si è svolto il sondaggio sono Algeria, Giordania, Libano, Libia, Marocco e Tunisia. Vedi Michael Robbins, U.S. & China Competition Extends to MENA, «Arab Barometer», 12 gennaio 2021, https://bit.ly/3CYg2RD
[2] Danny Quah, The Global Economy’s Shifting Centre of Gravity, «Global Policy», vol. 2 (2011), pp. 3-9.
[3] Jonathan Fulton, China’s Soft Power during the Coronavirus is Winning over the Gulf States, «Atlantic Council», 16 aprile 2021, https://bit.ly/3CXPxvu
[4] Sylvia Westall, Adveith Nair e Farah Elbahrawy, China Picks UAE to Make Millions of Vaccines, Boosting Gulf Ties, «Bloomberg», 28 marzo 2021, https://bloom.bg/3FUahGo
[5] Chen Weiqing, China, Saudi Arabia to Cooperate in New Ways, «Arab News» 25 marzo 2021, https://bit.ly/3E5LEWM
[6] Foregn Ministry Spokeperson Zhao Lijian’s Regular Press Conference on March 29, 2021, Ministero degli Affari Pubblici della Repubblica Popolare Cinese, 29 marzo 2021, https://bit.ly/3I5RcmD
[7] Alexander Cornwell, Gulf States Should Consider U.S. Ties when Dealing with China – Official, «Reuters», 7 maggio 2020, https://reut.rs/3I7sKBo
[8] David Schenker, Want to Sell F-35s to the UAE? Time to Address the China Factor, «The National Interest», 23 aprile 2021, https://bit.ly/31cKlqP
[9] Lahav Harkov, US Asking Israel to Eliminate China in Sensitive Areas, «Jerusalem Post», 20 maggio 2020, https://bit.ly/3FTVr2A
[10] Joel Gehrke, US Warns Middle East Allies not to Give China a Military Base, «Washington Examiner», 10 agosto 2021, https://washex.am/3o46sZ7
[11] Warren P. Strobel, Nancy A. Youssef, F-35 Sale to U.A.E. Imperiled over U.S. Concerns about Ties to China, «Wall Street Journal», 25 maggio 2021, https://on.wsj.com/3D4VlTO

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