Nessuna sfida posta dalla realtà è troppo ardita per il cinema, che ha trovato nel rapporto degli uomini con il religioso un soggetto unico per complessità da trattare. Soprattutto quando questo risulta malato, deviato verso pratiche di violenza che chiedono di essere indagate nelle cause e negli effetti.
Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 10:47:12
C’è un filo rosso che intesse la storia umana. Racconta di vite donate, di esistenze spese nel servizio, di incontri che schiudono a orizzonti di senso e impegnano nella libertà di scelte definitive. Questa stessa storia è attraversata anche da guerrieri rumorosi, la cui violenza oggi è rilanciata e amplificata dall’ambiente disegnato dai media. Immagini di violenza assediano la nostra vita quotidiana, diventandone parte integrante e rendendoci insensibili, assuefatti. Anche la religione spesso non ne è immune: da spazio di incontro e dialogo viene spesso trasformata dall’uomo in occasione di scontro, terreno di conflitto e arma di violenza. Forse sarebbe utile ricordare, come sottolinea papa Francesco, che «la religione autentica è fonte di pace e non di violenza! Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio!» (Incontro con i leaders di altre religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana, 21 settembre 2014). L’incontro del cinema con la religione, in primis cristiana, nasce per assecondare la vocazione spettacolare del mezzo cinematografico e suggestionare lo spettatore, facendo leva su un’iconografia consolidata e diffusa: dai primi esempi quali Le Christ marchant sur les eaux (1899) di Georges Méliès e Christus (1916) di Giulio Antamoro, ai kolossal biblici hollywoodiani, I dieci comandamenti (The Ten Commandments, 1923; 1956) di Cecil B. DeMille o Il Re dei Re (The King of Kings, 1961) di Nicholas Ray. È proprio questa spiccata attenzione nei confronti del reale a spingere il cinema a farsi portavoce anche di istanze difficili da comprendere, di degenerazioni e derive legate alla religione: da Intolerance (1916) di D.W. Griffith a Dies Irae (1943) di C.Th. Dreyer, passando per Mission (1986) di Roland Joffé fino a La sposa siriana (The Syrian Bride, 2004) di Eran Riklis o Agora (2009) di Alejandro Amenábar, fino al recente Cristiada (For Greater Glory: The True Story of Cristiada, 2012) di Dean Wright.
Cattolici: violenza, riconciliazione, speranza
La violenza che invade l’immaginario cinematografico è dilagante, ma non possiede l’ultima parola. Ne è testimone, nel film Popieluszko (Popieluszko. Wolnosc jest w nas, 2009) di Rafal Wieczynski, il sacerdote schierato a fianco degli “ultimi” nella Polonia di Solidarność, stretta nella morsa di una dittatura che non rispetta neppure la libertà religiosa. Jerzy Popieluszko, perseguitato e ucciso per il suo farsi testimone del Vangelo, diventa emblema di riscatto e di speranza, di una fede che non arretra e anzi si pone come alternativa per mutare il destino di una nazione. È ancora un martirio quello al centro di Uomini di Dio (Des hommes et des dieux, 2010) di Xavier Beauvois, storia di sette monaci trappisti sequestrati nel monastero di Tibhirine, in Algeria, e uccisi nel 1996. Il film mostra il coraggio di religiosi pronti al sacrificio pur di promuovere una cultura di scambio e dialogo con l’Altro, in questo caso l’Islam, come conferma la lettera testamentaria di padre Christian: «Di questa vita perduta, […] io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto. In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, […] e anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Inch’Allah». Non va infine dimenticata la violenza subita all’interno di ogni religione. Il regista Stephen Frears porta sullo schermo la vicenda umana di Philomena Lee, ragazza madre che nell’Irlanda degli anni ‘50 viene rinchiusa in una casa di rieducazione gestita da suore cattoliche e si vede sottrarre il figlio, che però non smetterà di cercare. Philomena (2013) offre un intenso ritratto di donna resa libera dalla fede e dalla capacità di perdonare, che la sollevano dal peso dell’ingiustizia subita.
Islam: resistenza al fondamentalismo
La violenza non ha colore né confini né barriere. Anche la cultura islamica ha elaborato al suo interno le derive legate a un uso distorto e repressivo della religione. Nel Libano dilaniato da fazioni interreligiose è una donna a farsi portavoce della necessità di dialogare e di essere solidali. Nadine Labaki, con E ora dove andiamo? (Et maintenant on va où?, 2011), mette in scena un coro tutto femminile che dà prova di forza, resistenza e ironia per contrastare l’arroganza degli uomini e la violenza di una religione a volte difficile da fronteggiare, offrendo allo spettatore un orizzonte di speranza. La violenza trova espressione anche nell’animazione. È ancora dallo sguardo di una donna, Marjane Satrapi, e dal suo autobiografico graphic novel portato sullo schermo insieme a Vincent Paronnaud, che nasce Persépolis (2007). Il racconto delle conseguenze della rivoluzione islamica iraniana del 1979 e l’infrangersi delle illusioni di un popolo dinanzi all’intransigenza del fondamentalismo vengono illustrate attraverso le alterne difficoltà vissute da una ragazzina ribelle e anticonformista, pronta a rinunciare a vivere nel proprio Paese per farsi testimone di libertà e indipendenza. In Paradise Now (2005) di Hany Abu-Assad sono invece gli ideali e le paure di due giovani aspiranti kamikaze a far confrontare lo spettatore con le pieghe più oscure e violente dell’estremismo islamico. In una prospettiva inedita nel cinema palestinese, durante l’ultima notte trascorsa a casa, i due amici capiranno di avere in mano le chiavi del proprio destino e che un’altra scelta è anche per loro possibile.
Il dramma degli ebrei
Negli ultimi decenni il conflitto israelo-palestinese ha costituito un vero e proprio filone tematico, offrendo, da entrambe le parti in causa, una pluralità di visioni e prospettive. Con Il giardino di limoni (Lemon Tree, 2008) di Eran Riklis, il regista israeliano racconta la difficile convivenza nei territori di confine. Nella Cisgiordania assediata dalla guerra, una donna ha il coraggio di innescare una pacifica resistenza nei confronti del Ministro della Difesa israeliano e della sua assurda pretesa di abbattere, per motivi di sicurezza, gli alberi di limone del suo giardino. Sarà il dialogo e l’intesa con la moglie del politico a creare le premesse per una soluzione affidata alla reciproca comprensione. In Lebanon (Levanon, 2008) di Samuel Maoz la guerra combattuta nel 1982 dai giovani soldati israeliani contro il Libano prende la forma di un incubo senza via di uscita. I militari, costretti nel claustrofobico ambiente di un carrarmato, sperimentano sulla loro pelle l’assurdità di un conflitto senza nemici reali da combattere. Se si pensa alla violenza subita e alla capacità testimoniale del cinema, è impossibile omettere il filone cinema e Shoah, divenuto negli anni paradigma stesso della memoria. Numerose sono le declinazioni in cui si è concretizzato questo binomio: dal documentario di Claude Lanzmann Shoah (1985), in cui l’orrore dei campi è espresso in tutte le sue forme, passando per Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg e arrivando a La vita è bella (1997) di Roberto Benigni e a Il pianista (The Pianist, 2002) di Roman Polanski. *Presidente Fondazione Ente dello Spettacolo – Roma
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