La guerra è davvero figlia delle religioni?
Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 10:45:05
Recensione di Élie Barnavi, Les religions meurtières, Flammarion, Parigi 2016 e di William T. Cavanaugh, Le Mythe de la violence religieuse, L'Homme Nouveau, Parigi 2009
È oggi diffusa l’idea che la guerra sia figlia delle religioni, sospettate di inasprire i conflitti, se non addirittura di provocarli. Un rappresentante di questa tesi è stato in Francia Élie Barnavi, storico e ambasciatore di Israele a Parigi dal 2000 al 2002. Nel 2006 Barnavi ha pubblicato per Flammarion Les religions meurtières [“Le religioni assassine”]. Se ne ricava che la condizione preliminare per l’instaurazione della pace nel mondo sarebbe la scomparsa delle religioni. Una posizione sorprendente da parte di un ebreo, anche se liberale e secolarizzato. La tesi opposta è stata brillantemente sostenuta da un giovane teologo cattolico americano, William T. Cavanaugh, in Le Mythe de la violence religieuse [“Il mito della violenza religiosa”], uscito nel 2009 contemporaneamente per Oxford University Press e in francese per le Éditions de l’Homme nouveau.
A chi credere? È chiaro che, almeno nel Cristianesimo, il Vangelo condanna il più nettamente possibile ogni violenza (Cfr. in particolare Mt 5,38-47 e 26,51-53). Ciò non toglie che la Chiesa non abbia proibito la legittima difesa e abbia elaborato una dottrina della “guerra giusta” e che, nel corso dei secoli, la fede, non soltanto quella cristiana, sia servita a giustificare il ricorso alle armi e perfino la conquista militare. L’accusa di Élie Barnavi sistematizza una condanna già lanciata dai Lumi in nome della “ragione” contro ogni fanatismo oscurantista, ma anche (e in una maniera forse più incisiva perché meno astratta) attraverso una certa percezione del passato. Nel suo Declino e caduta dell’Impero romano (un’opera pubblicata tra il 1776 e il 1788, esattamente tra la rivoluzione americana e quella francese, e di cui oggi si sottovaluta forse l’influenza), l’inglese Edward Gibbon (1737-1794) affermò che la teologia cristiana aveva esasperato i conflitti, introducendo in ogni campo la convinzione di lottare per la Verità e il dovere di combattere l’errore o la semplice ignoranza.
La questione sta qui nel capire ciò che la Rivelazione biblica ha cambiato rispetto alle religiosità precedenti. Tradizionalmente, ogni nazione ha i suoi dèi e, generalmente, quelli del Paese che abita. Sono loro che, in qualche modo, le conferiscono “dall’alto” un’identità, garantendole i diritti e dandole la forza senza la quale, lasciata a se stessa, non riuscirebbe probabilmente ad affermarsi stabilmente di fronte ai suoi vicini e rivali. Ciò che Abramo prima e Mosè poi imparano e trasmettono non rimette in discussione il principio di queste interferenze “soprannaturali” nel “naturale”. Al contrario lo radicalizza: il Dio che sceglie gli ebrei come Suo popolo e dà loro una terra è l’Unico, il Signore di tutte le nazioni, Creatore del cielo e della terra. Da una superiorità relativa e localizzata, conferita da dèi che si lasciano ammansire e perfino comprare, si passa quindi alla legittimazione da parte dell’Assoluto stesso. La garanzia di radicamento nella trascendenza può improvvisamente servire a motivare senza limite le ambizioni e l’intransigenza monopolistica della “guerra santa”.
Il problema è quindi sapere se lo zelo senza pietà né compromesso ispirato da un Dio allo stesso tempo onnipotente e geloso Gli sia fedele oppure se Lo tradisca con cieca premura. A questo punto occorre porre attenzione alla differenza che, nelle religioni bibliche, il superamento del paganesimo aggiunge alla religiosità “naturale”, cioè il fatto che Dio non può essere sfruttato. Se Israele è “eletto”, il suo privilegio è una missione: la benedizione ricevuta da Abramo non è riservata alla sua discendenza, ma destinata a tutti (Cfr. Gn 12,3; 14,16; 15,5; 17,4-5; At 3,25 e Gal 3,8-9). Il Signore è il Dio dell’universo intero e non solo della terra che concede alla nazione prescelta perché questa compia la propria vocazione profetica. È Lui a prendere l’iniziativa dell’Alleanza, che propone e che sarebbe altrimenti impossibile, visto l’abisso che separa il Creatore da tutte le creature e che Lui solo è capace di colmare. La relazione resta asimmetrica e in ogni caso non è invertibile.
Vediamo così che un “in alto” singolare, prossimo, ma non legato a nulla, non giustifica alcun disegno particolare di dominazione. Il monoteismo non spinge all’instaurazione di un impero teocratico mondiale, ma fonda piuttosto la pluralità e la coesistenza delle nazioni “secolari”. La violenza appare allora come una debolezza intrinseca all’immanenza. Essa si rivela alla fine fatale per i suoi autori, così come lo è immediatamente per le sue vittime. Non costruisce niente di duraturo perché fraintende l’Eterno tentando di servirsene invece che di obbedirgli. La radicalizzazione del divino contiene così l’antidoto all’assolutizzazione conquistatrice delle pretese umane.
Tuttavia, i tentativi di addomesticamento dell’Onnipotente sono stati numerosi e restano attuali. Sono tutti destinati presto o tardi alla sconfitta e devono essere concepiti come tentazioni: è in questo senso che le religioni che onorano il Dio trascendente sperimentano traviamenti sotto forma di esasperazione degli appetiti. La nozione chiave è qui quella del dono. Si è sempre e solo tentati dai doni ricevuti. Il Dio che né il cielo né la terra possono contenere si mette alla portata dell’uomo, come Lui solo sa fare, ma nessuno può impadronirsi di Lui, anche se la sua prossimità può suscitare una vertigine affamata, un’aggressività o una rapacità ben al di là delle pulsioni “naturali” della “lotta per la vita” (o per la sopravvivenza), come quelle descritte per esempio dal darwinismo.
Misurare, appropriandosene, i doni ricevuti da Dio, che in fondo non sono altro che la Sua stessa Vita, si chiama peccato. Questo si manifesta come tale, come nota San Paolo (Cfr. Rm 7,7), solo attraverso la manifestazione di Dio, l’espressione della Sua volontà, o detto altrimenti la Sua Legge. Ne deriva che la tentazione del ricorso alla violenza sistematica e senza freni non è condizionata da imperativi strategici, economici o bestialmente biologici, ma si dimostra piuttosto una sfida di ordine spirituale: si tratta di ricevere i doni “dall’alto” senza vanificarli pretendendo di accaparrarseli, di resistere alla facilità del ritorno al paganesimo che minaccia costantemente ogni monoteismo nella misura in cui immagini di poter monopolizzare Dio a proprio vantaggio, grazie soltanto alla virtù dell’obbedienza letterale ai Suoi comandamenti formalizzati, dimenticando che restargli fedeli è una grazia che soltanto Lui può offrire e che non bisogna mai smettere di pregarlo, restando in ascolto.
Questa scorcio lascia intuire che, contrariamente a un’idea oggi ampiamente diffusa, la spiritualità non è una questione soltanto personale, ma anche collettiva. La conversione individuale infatti non basta a prevenire la regressione religiosa, con le sue minacce di violenza metodica e organizzata. Non si fa mai la guerra da soli. Da qui l’importanza di mettere in opera e condividere nella cultura, indipendentemente da ogni apologetica e dal dovere della testimonianza, l’intuizione che ogni guerra è fratricida, perché l’unico Dio è Padre di tutti e perché ogni riconciliazione è un dono disceso “dall’alto” in un movimento la cui ampiezza suggerisce la grandezza di Dio e traccia l’orizzonte della speranza, nella paradossale bellezza e suprema tragicità di un amore irriso ma non vinto.
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