Due teologi libanesi, Fadi Daou, cristiano maronita, e Nayla Tabbara, musulmana sunnita, indagano il tema dell’ospitalità nelle rispettive tradizioni religiose. Essi pongono come fondamento della loro proposta di teologia dell’altro la figura di Abramo

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:57:08

Estratto di Bishara Ebeid Le "religioni abramitiche": due letture arabe. In Andrea Pacini (a cura di)  "Raccontare e lasciarsi raccontare. Esperimenti di dialogo islamo-cristiano", Marsilio, Venezia 2018. Acquista l’e-book qui.

 

I rapporti tra la Chiesa cattolica e l’Islam sono radicalmente mutati con il Concilio Vaticano II: mentre in precedenza erano stati fondati prevalentemente sul sospetto, l’inimicizia e l’antagonismo, si sono ora trasformati in un senso dialogico orientato alla reciproca conoscenza.[1] La centralità di tale cambiamento emerge dai due paragrafi che il Concilio ha dedicato all’Islam:

 

Il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale (Lumen Gentium n. 16).

 

La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà (Nostra Aetate n. 3).

 

I due testi del Concilio valorizzano gli elementi di fede comuni al Cristianesimo e all’Islam quali il fatto di credere in un unico Dio e nel Giorno del Giudizio o di praticare il digiuno e l’elemosina. È poi menzionata la fede di Abramo che, peraltro, è comune anche all’Ebraismo (Nostra Aetate n. 4).[2] Per il Concilio, perciò, la fede di Abramo e in Abramo, pur essendo presentata per l’Islam in termini soggettivi («professando di avere la fede di Abramo», «a cui la fede islamica volentieri si riferisce»), è l’elemento che giustifica il dialogo. Questa posizione è stata fatta propria non soltanto dalla Chiesa cattolica, ma anche da quella ortodossa nell’espressione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

 

L’idea che Abramo sia il punto di congiunzione fra le tre religioni monoteiste fu formulata già nei primi decenni del XX secolo dall’orientalista francese Louis Massignon (m. 1962).[3] Nella sua visione, Abramo unisce e al contempo divide le tre religioni: per Massignon gli ebrei sono chiamati a riconoscere che l’identità etnica non è l’unico criterio di fede, i cristiani devono accettare l’esistenza di una fede abramitica al di fuori della Chiesa, i musulmani infine devono riconoscere che la fede abramitica ha il suo culmine in Cristo e nella sua opera salvifica.[4]

 

Il pensiero di Massignon ha certamente esercitato un influsso sul Concilio Vaticano II, ma il ruolo decisivo in questo senso l’ha svolto probabilmente[5] un suo discepolo, Youakim Moubarac (m. 1995),[6] sacerdote libanese maronita autore di una tesi di dottorato sulla figura di Abramo nel Corano.[7] Moubarac, che partecipò al Concilio tra gli anni 1962-1965, considerava l’Islam nel suo tratto abramitico come parte del Testamento biblico. A suo avviso la figura di Abramo e la benedizione concessa al figlio Ismaele fanno degli arabi musulmani, discendenti di quest’ultimo, uno dei popoli biblici e parte quindi del disegno salvifico di Dio.[8] Essi rimasero però un popolo biblicamente “desertico” e “negativo”, privi cioè di un Libro Sacro fino all’arrivo dell’Islam e del Corano. L’effetto della benedizione abramitica, spiega ancora Moubarac, non viene meno nonostante l’Islam non riconosca alcuni fondamenti essenziali della fede cristiana.[9]

 

A partire da questi spunti, la nozione di “religioni abramitiche” ha assunto un ruolo chiave per sviluppare una teologia dell’altro, venendo ripresa e sviluppata anche da autori musulmani oltreché cristiani mediorientali. In questo contributo proponiamo un’analisi critica di due recenti opere i cui autori hanno compreso e utilizzato questa nozione con finalità diverse. Si tratta di Al-Lâhût al-ʻarabî wa usûl al-ʻunf al-dînî (“La teologia araba e le radici della violenza religiosa”) di Yousef Ziedan[10] e di Al-Rahâba al-ilâhiyya. Lâhût al-âkhar fî l-masîhiyya wa-l-islâm (“L’ospitalità divina: la teologia dell’altro nel Cristianesimo e nell’Islam”) di due teologi libanesi: il cristiano maronita Fadi Daou e la musulmana sunnita Nayla Tabbara.[11]

 

(…)

 

Convivere nella diversità

Fadi Daou e Nayla Tabbara sono gli ideatori della fondazione ADYAN (“religioni”), nata in Libano per promuovere il dialogo interreligioso. In Al-Rahâba al-ilâhiyya. Lâhût al-âkhar fî l-masîhiyya wa-l-islâm[1] si propongono di mostrare come si può accogliere l’“altro” nella propria religione.

 

Il primo capitolo del volume presenta i fondamenti evangelici del rapporto con l’altro alla luce dell’incontro di Cristo con il centurione,[2] la cananea[3] e la samaritana,[4] che diventano modelli d’incontro dei cristiani con i fedeli di altre religioni. Gesù non guarda il mondo attraverso il prisma dell’appartenenza confessionale, la sua chiamata alla salvezza è universale e include tutti.[5] L’universalismo è infatti uno dei fondamenti della spiritualità evangelica: il cristiano è chiamato ad amare anche il nemico e, in generale, ad andare incontro all’altro. Il nodo centrale della sua spiritualità è l’amore divino verso gli uomini, che si manifesta nell’unione tra Dio e l’uomo, attuatasi in Cristo e per mezzo di Cristo.[6] Esistono due forme di unione tra Dio e gli uomini: quella con i cristiani e quella con i non-cristiani, poiché anche questi ultimi hanno il loro posto nel piano della provvidenza divina. La prima forma è un’unione esplicita in cui l’uomo riconosce Cristo, il Verbo eterno di Dio incarnato, e per mezzo di Lui arriva alla comunione con la natura divina. In questo caso l’uomo vive tale realtà nella vita sacramentale nella Chiesa e nel mondo per mezzo del mistero della fraternità includente. La seconda forma di unione è quella indiretta. Anch’essa, come la prima, si fonda sull’opera salvifica gratuita di Dio ed è propria di quanti non riconoscono la signoria di Cristo. In tal caso l’unione si realizza e si vive nel mistero dell’amore gratuito.[7] Il fondamento evangelico e teologico dell’ospitalità è pertanto l’universalità del messaggio di Cristo basato sul mistero dell’incarnazione. In Cristo, secondo la dottrina della Chiesa, noi vediamo ogni uomo poiché egli è il nuovo Adamo.[8]

 

Il secondo capitolo analizza i fondamenti coranici dell’accoglienza. Posto che nel Libro Sacro dell’Islam il fedele di altre religioni è chiamato a volte fratello, a volte nemico, la tolleranza prescritta dal Corano per il diverso è subordinata alla sottomissione di quest’ultimo alla società musulmana.[9] Nell’Islam riconoscere Dio è un atto connaturato alla natura umana (fitra); l’uomo infatti confessa il suo Signore già all’atto della sua creazione (Cor. 7,172).[10] Nell’Islam, inoltre, manca la dottrina del peccato originale. Esso vede la provvidenza divina nel fatto che Dio attraverso vari strumenti, in particolar modo i profeti, ricorda all’uomo la sua unicità.[11]

 

Chiariti questi punti preliminari, il capitolo illustra da una prospettiva musulmana la responsabilità dell’uomo, in quanto vicario di Dio sulla terra (cfr. Cor. 2,30), davanti al suo Creatore. L’uomo è chiamato a giudicare secondo la bilancia (mîzân) stabilita da Dio:[12] ciò significa che deve stare vicino ai deboli, ai poveri, alle vittime,[13] non deve mai dimenticare che tutti gli uomini sono uguali[14] e deve aiutarli a trovare la strada per riconoscere l’unicità di Dio.[15] L’esempio per eccellenza di tale atteggiamento è Abramo.

 

Il terzo capitolo offre un’analisi dei patti che Dio ha stipulato con l’uomo nell’Antico e nel Nuovo Testamento. L’obiettivo è sviluppare «un pensiero teologico cristiano sulla storia dell’umanità in generale, e quella dell’Islam in particolare, partendo dal patto di amore di Dio con gli uomini».[16] Tale patto, attraverso il quale Dio si rivela, ha un carattere universale e si fonda su virtù quali la giustizia, la verità, l’amore e la misericordia. Il patto con Abramo è alla base delle religioni abramitiche ma, dal punto di vista cristiano, l’alleanza per eccellenza è quella che Dio conclude in Gesù.[17] Cristo è la pienezza dell’agire divino. Tuttavia, per quanto sia perfetto, non è necessariamente l’ultimo atto. Dio, infatti, può ispirare in maniera particolare profeti e saggi di altre religioni per farsi conoscere a tutti gli uomini.[18]

 

Il quarto capitolo indaga lo statuto di Ebraismo e Cristianesimo dal punto di vista islamico. Gli autori del libro propongono un’esegesi storico-teologica dei versetti coranici che trattano del rapporto tra l’Islam e le Genti della Scrittura (ahl al-Kitâb) esaminandoli in ordine cronologico e nel loro contesto storico.[19] L’Islam è nato inizialmente con lo scopo di unificare in sé l’Ebraismo e il Cristianesimo a due condizioni: il riconoscimento di Gesù Cristo come il Messia (cosa che gli ebrei negavano), e il rifiuto della natura divina di Cristo e della conseguente dottrina della Trinità (cosa che i cristiani non accettavano).[20] Sperimentando il rifiuto di entrambe le religioni, l’Islam si separò da esse.[21] È in questo contesto che dev’essere letta l’accusa di falsificazione dei testi sacri rivolta agli ebrei e ai cristiani. Citando le interpretazioni dell’esegeta classico al-Tabarî e dell’esegeta moderno ʻAbd al-Bashîr Sharafî, gli autori del libro spiegano come l’accusa di falsificazione sia riferita all’esegesi e non al testo sacro in sé.[22] Ciò troverebbe conferma anche in altri versetti coranici[23] che invitano a unirsi all’Islam nel senso generale del termine, ossia a una delle religioni abramitiche secondo le condizioni spiegate sopra.

 

Il fallito tentativo di inglobare Ebraismo e Cristianesimo avrebbe favorito lo sviluppo dell’Islam come religione distinta dalle precedenti[24] e spiegherebbe anche la presenza nel Corano di versetti sempre più critici verso le altre due religioni, soprattutto circa la dottrina della divinità di Cristo e della Trinità.[25] Anche in questa fase, però, il Corano non nega che le religioni delle Genti della Scrittura siano divinamente ispirate e specifica che la salvezza non è una questione di identità religiosa ma di fede e opere.[26] Dio accetta la diversità perché essa diventi un segno della futura unificazione.[27]

 

Le religioni abramitiche nella prospettiva musulmana

Anche il libro di Fadi Daou e Nayla Tabbara fonda la sua proposta di teologia dell’altro sulla nozione di “religioni abramitiche”. Secondo gli autori, nell’Islam l’incontro dell’uomo con Dio può realizzarsi in due modi: attraverso l’impronta posta nell’uomo all’atto della sua creazione, ovvero attraverso «la nostalgia per il divino»; oppure per ispirazione divina.[28]

 

Nel Corano, Abramo è la figura esemplare di tale atteggiamento: guidato dalla disposizione naturale (fitra) distrugge gli idoli[29] e riconosce l’unicità di Dio nella religione detta hanafiyya. La hanafiyya è, per l’Islam, il monoteismo primordiale, la strada diritta (sirât mustaqîm) che conduce a Dio. Secondo gli autori del libro, la hanafiyya era diffusa nella Penisola arabica già prima dell’Islam, là infatti vivevano monoteisti senza culti e leggi precisi.[30] Purtroppo essi tralasciano di specificare che il termine hanafî in siriaco significa “pagano e idolatra” e in ebraico midrashico “eretico”, mentre il Corano gli attribuisce un significato opposto.[31] È chiaro, però, che l’obbiettivo degli autori è proporre un’esegesi del Corano che possa contribuire alla fondazione di una teologia dell’altro. In questa prospettiva va situato il commento al versetto coranico 3,19: «In verità la religione, presso Dio, è l’Islam». Qui il termine Islam non si riferirebbe alla religione del profeta Muhammad in senso stretto, secondo l’interpretazione più diffusa nei commentari medievali, ma all’Islam nel senso generale di “sottomissione a Dio”, ovvero alla fede di Abramo.[32] L’Islam meccano perciò può considerarsi un Islam hanafî e abramitico. Abramo e la sua religione divengono il typos di ogni fede che porta alla conoscenza del Dio unico: per questo l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam possono essere definiti “religioni abramitiche”.

 

Le religioni abramitiche nella prospettiva cristiana

Il volume dedica poi un’ampia riflessione al patto che nella Genesi Dio stringe con Abramo e che segna l’inizio di una nuova relazione degli uomini con il divino, diventando il fondamento delle tre religioni monoteiste. Benché stretto con un solo popolo, tale patto – notano gli autori – è universale: Dio voleva infatti che Abramo diventasse una benedizione per tutte le tribù della terra.[33] Abramo diviene così un simbolo della collaborazione che Dio chiede all’uomo per la realizzazione del suo piano, vale a dire la trasmissione della benedizione divina a tutti i popoli della terra. Chi accetta il patto di Abramo deve riconoscere che non è più responsabile soltanto di se stesso ma anche degli altri.[34] Questo patto, però, non è unico né assoluto e non cancella il libero arbitrio dell’uomo: ciò risulta evidente nell’atto dello straniero Melchidesech che domanda a Dio di benedire Abramo.[35] Commentando le esclamazioni di Agar dopo l’intervento divino nella sua vita e di Abramo dopo che Dio gli ebbe dato un ariete da sacrificare al posto del figlio,[36] gli autori del libro giungono alla conclusione che il patto abramitico si manifesta nella vita quotidiana delle persone e non necessita perciò di forma scritta.[37]

 

L’alleanza con Mosè assume un carattere nuovo: esso è la continuazione del patto di Abramo ma questa volta in forma scritta. Con questo patto, che diventerà la Sacra Scrittura del popolo ebraico, Dio chiede al fedele di agire secondo la sua Legge.[38] È la nascita della religione ebraica, intesa come un ramo dell’albero della relazione abramitica tra Dio e gli uomini. La Chiesa, vedendo nella Torah una Scrittura Sacra, riconosce l’autenticità della rivelazione divina ad Abramo, Mosè e agli altri profeti ma a una condizione: che tutto sia letto alla luce di Cristo, pienezza della rivelazione divina.[39]

 

Per ciò che riguarda l’Islam, gli autori fondano la loro argomentazione sull’insegnamento del Concilio Vaticano II secondo il quale l’Islam, per mezzo del patto con Abramo, si fa prossimo al Cristianesimo. La domanda, però, è se la Chiesa possa riconoscere nell’Islam un rinnovamento del patto con Abramo (come nel caso di Mosè), se possa cioè considerare l’Islam un ramo dell’albero della salvezza divina, che nel VII secolo avrebbe portato un frutto dal sapore abramitico. Per rispondere alla domanda gli autori presentano criticamente il pensiero di Michel Hayek e di Youakim Moubarac, i quali non pongono l’Islam nel piano salvifico di Dio ma riconoscono una rivelazione divina nell’azione di Muhammad.[40]

 

Secondo gli autori, queste due posizioni possono essere superate senza il rischio di tradire i principi teologici del Cristianesimo. Riconoscere nel Corano una rivelazione e in Muhammad una dimensione profetica sarebbe infatti possibile alla luce di una nuova comprensione cristiana del fattore “tempo”. Posto che il cristiano può spiegare il ruolo dell’Islam nella storia della salvezza soltanto alla luce del mistero di Gesù, si tratterebbe di accettare la pienezza della rivelazione di Cristo non sul piano cronologico, ma in senso qualitativo e secondo il contenuto del suo messaggio.[41] In tal modo, l’Islam come religione abramitica è cronologicamente posteriore al Cristianesimo ma teologicamente antecedente a Cristo, e la profezia di Muhammad sarebbe simile a quella dei profeti dell’Antico Testamento. Gli autori del libro riconoscono tuttavia che la dottrina islamica sulla persona di Cristo e sulla Trinità rappresenti un grande ostacolo in questo senso. A loro avviso però l’ostacolo può essere superato grazie all’indagine teologica e soprattutto tramite la solidarietà spirituale.[42]

 

Dialogo vs. evangelizzazione?

Come detto, l’Islam, nel suo senso generale, include in sé gli ebrei, i cristiani e gli zoroastriani definendoli Genti della Scrittura. Il ruolo di queste religioni è ricordare agli uomini l’unicità di Dio e condurli a Lui.[43] Quanto invece alle religioni non-monoteiste, l’Islam guarda a esse come ostacoli nella relazione dell’uomo con Dio. Tuttavia, anche in questo caso, il ruolo dei musulmani è mostrare ai pagani la vera via che conduce al Dio unico.[44] In ultima analisi, «il Corano, nella sua provvidenza educativa, provoca i musulmani ad accettare e apprezzare il principio della diversità come volontà divina e immagine dell’armoniosa unità che verrà».[45] Nel tempo, la visione di un Islam inclusivo è stata soppiantata da un’idea di Islam esclusivo. A questo proposito, gli autori citano l’abrogazione dei versetti coranici 2,62 e 5,69 che promettono la salvezza ai non-musulmani.[46] Questa concezione, che gli autori chiamano «visione beduina della daʻwâ [“chiamata all’Islam”]», sarebbe andata affermandosi con le conquiste militari, nella convinzione che per includere l’altro nella propria religione sia necessario convertirlo.[47]

 

Dal punto di vista cristiano i rapporti tra il Cristianesimo e le altre fedi si fondano invece sul riconoscimento reciproco, come stabilito dal Concilio Vaticano II.[48] Ciò significa che il cristiano ammette l’autenticità dell’esperienza religiosa altrui senza essere costretto a riconoscere in essa una verità assoluta. Il riconoscimento reciproco è senza dubbio il terreno fertile su cui innestare i rapporti interreligiosi, ma a tre condizioni: 1) la consapevolezza che la fonte delle religioni abramitiche è soltanto Dio; 2) la convinzione che nessuna religione possa pretendere di possedere la verità assoluta perché questa verità è Dio stesso; 3) la necessità per ciascuna religione di considerarsi una via e non una finalità, pena il rischio di cadere nel politeismo.[49]

 

Posto che il dialogo onesto e autentico con l’altro non può prescindere dal riconoscimento reciproco, la domanda è se tale dialogo contravvenga o meno alla dottrina cristiana dell’evangelizzazione e alla dottrina islamica della daʻwâ. Affrontando la questione dal punto di vista cristiano gli autori del libro ridefiniscono i concetti di “missione” e di “salvezza”. La missione del cristiano perde il suo senso se non apre la dottrina della salvezza a tutti. Il Cristianesimo non deve porre la missione e l’evangelizzazione come condizione per la salvezza perché la Chiesa non è il fine ma soltanto una nave che conduce al porto della salvezza. Se lo scopo di Dio è salvare tutti, questo deve essere anche lo scopo della missione; in questo caso Dio stesso diventa il fattore “apostolico” della missione e il suo regno di pace e giustizia si realizza su tutta la terra.[50] Che il dialogo sia uno strumento del piano divino per la salvezza degli uomini e una forma di evangelizzazione è del resto affermato chiaramente nel documento Dialogo e annuncio del 1991: «Il dialogo trova il suo posto all’interno della missione salvifica della Chiesa; per questo motivo esso è un dialogo di salvezza» (n. 39).

 

Riprendendo infine la “visione beduina della da’wâ”, gli autori spiegano come essa sia contraria alla testimonianza (shahâda) coranica, fondata sul riconoscimento delle Genti della Scrittura.[51] I musulmani, perciò, non sono chiamati a imporre agli altri l’Islam in quanto religione, ma a testimoniare l’unicità di Dio perché «l’altro è uno specchio di Dio, la via per mezzo della quale si può arrivare a Lui, poiché ciascun uomo porta in sé lo spirito o soffio di Dio (cfr. Cor. 38,72)».[52]

 

Conclusioni

Come si è visto, la nozione di “religioni abramitiche” è alla base di due diverse letture dei rapporti tra Cristianesimo e Islam. Nella proposta di Ziedan le religioni abramitiche sono tre diverse manifestazioni di una medesima verità. Benché il fine dell’autore sia placare le tensioni tra musulmani e cristiani in Egitto spiegando che alla base delle due religioni vi è un’unica sostanza, il suo metodo di analisi storico-dottrinale, la critica alla Chiesa copta, il fatto di considerare l’Islam come verità manifestatasi in maniera perfetta e il dogma trinitario come inculturazione del messaggio cristiano primitivo nella cultura greco-egiziana, lo collocano nel solco del pensiero musulmano tradizionale e lo rendono inviso ai cristiani mediorientali. Nella sua proposta la religione abramitica per eccellenza resta l’Islam. Questo approccio in realtà rivela una mancanza di esperienza in materia di dialogo interreligioso, oltreché assenza di realismo.

 

Il lavoro di Daou e Tabbara si concretizza invece in una vera proposta di teologia dell’altro fondata sulla Bibbia e sul Corano, che rivela tutta l’esperienza maturata dagli autori nell’ambito del dialogo interreligioso e il loro desiderio di comporre un manuale utile sia a livello scientifico sia nella vita quotidiana. Nella loro riflessione la nozione di “religioni abramitiche” conosce uno sviluppo notevole: essa è la fede nel Dio unico di Abramo, comune all’Ebraismo, al Cristianesimo e all’Islam. Dal punto di vista cristiano considerare l’Islam una religione abramitica significa ritenerlo portatore di una profezia teologicamente situabile prima di Cristo, simile cioè a quelle dell’Antico Testamento. In tal modo la proposta di Daou e Tabbara, partendo dalla conoscenza dell’altro, giunge a riconoscere nella religione altrui una forma di rivelazione divina al fine di creare una solidarietà spirituale tra i credenti. Questa è la strada che consente di trovare ospitalità nella teologia dell’altro.

 

 

Il testo completo è contenuto in "Raccontarsi e lasciarsi raccontare. Esperimenti di dialogo islamo-cristiano", realizzato nell'ambito del progetto di ricerca "Conoscere il meticciato, governare il cambiamento" con il contributo di Fondazione Cariplo.


 


[1] Traduzione francese: L’hospitalité divine. L’autre dans le dialogue des théologies chrétienne et musulmane, LIT Verlag, Berlin-Münster-Wien-Zürich-London 2014.

[2] Cfr. Lc 7,4-5.

[3] Cfr. Mt 15,21-28.

[4] Cfr. Gv 4,1-42.

[5] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 25-27.

[6] Ibi, pp. 31-33.

[7] Ibi, pp. 33-34.

[8] Ibi, p. 38.

[9] Ibi, pp. 43-44.

[10] Ibi, p. 46.

[11] Ibi, pp. 50-52.

[12] Cfr. Cor. 55,7-9; 57,25.

[13] Cfr. Cor. 26,181-183; 6,152-153; 5,42; 49,9.

[14] Cfr. Cor. 31,28.

[15] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 52-57.

[16] Ibi, p. 66.

[17] Ibi, pp. 110-111.

[18] Ibi, pp. 111-112.

[19] Ibi, pp. 123-126.

[20] Ibi, pp. 128-129.

[21] Ibi, pp. 131-133.

[22] Ibi, pp. 134-135.

[23] Cor. 2,101; 2,111-113; 2,120-121; soprattutto 2,135; 2,136-137.

[24] Questa idea trova fondamento in Corano 3,104. Cfr. Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, p. 143.

[25] Si vedano i versetti 3,55; 4, 51.54-55.156-159.171; 5,116; 6,1-4; 9,29-30.34; 33,25-26; 59,2-3; 63,2-3.5.

[26] Cor. 4,123-124.

[27] Cor. 22,17,34; 5,5-6.18.82; 48,68-69; 49,13; 60,4-9.

[28] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 57-58.

[29] Cor. 6,74-79.

[30] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 60-61. Su questo tema si veda ʻAlî Husnî al-Kharbûtî, Al-Hanafiyya wa-l-hunafâʼ mundh ʻahd Ibrâhîm hattâ zuhûr al-Islâm, Dâr l-‘ulûm li-l-tibâ‘a, al-Qâhira 1974.

[31] Etimologicamente il termine significa “inclinare”. Nel siriaco è l’inclinazione verso l’idolatria e l’allontanamento dalla verità, in ebraico è la deviazione dall’ortodossia verso l’eresia, nel Corano assume il significato di inclinazione dall’idolatria verso il monoteismo ossia verso l’ortodossia.

[32] Gli autori fondano la loro opinione su Cor. 2,135 e 39,3. Essi notano inoltre che in una recensione coranica diversa da quella canonica di ‘Uthmân si trova scritto che la vera religione è la Hanafiyya, cioè la sottomissione a Dio. Cfr. Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, p. 62, nota 12.

[33] Ibi, p. 74. L’idea fa rifermento a Gen 12,2-3.

[34] Ibi, pp. 74-75. L’intercessione per la città di Sodoma (Gen 18,16-33) rivela il carattere universale del patto di Abramo.

[35] Ibi, pp. 76-78.

[36] Cfr. Gen 16,13 e 22,14.

[37] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 78-80.

[38] Ibi, pp. 81-83.

[39] Ibi, pp. 84-85.

[40] Ibi, pp. 91-98.

[41] Ibi, pp. 104-105.

[42] Ibi, p. 109.

[43] Ibi, pp. 168-169.

[44] Ibi, pp. 170-171.

[45] Ibi, pp. 176-177. Questa idea si fonda sui versetti coranici 11,118 e 2,148.

[46] Ibi, pp. 210-211.

[47] Ibi, p. 215.

[48] Ibi, pp. 178-184.

[49] Ibi, pp. 191-193.

[50] Ibi, pp. 197-198.

[51] Fadi Daou e Nayla Tabbara, Al-Rahâba al-ilâhiyya, pp. 215-216. Si vedano Cor. 2,143; 41,33; 60,4.

[52] Ibi, p. 217. Gli autori istituiscono un parallelo tra l’antropologia coranica a quella dell’Antico Testamento, fondata sulla creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio.

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