Gamal al-Banna si autodefinisce come un «pensatore musulmano liberale» e un guardiano dell’arabità e dell’Islam in Egitto. Autore di oltre cento fra volumi e opuscoli e di una cartolina periodica sul quotidiano al-Masri al Yawm molto in voga, si è assunto un ruolo che nessuno, a suo giudizio, osa accollarsi. Si è impegnato a rinnovare le basi del «sapere istituzionale musulmano» in vigore, cioè il sapere costituito dal commento esegetico (tafsîr), dalla tradizione (hadîth) e dalla giurisprudenza (fiqh).
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:45
Gamal al-Banna dice di aver tratto la sua definizione dell’Islam dal fratello Hassam al-Banna, il fondatore del movimento dei Fratelli musulmani. La definizione è la seguente: «L’Islam è una concezione globale della vita comprendente l’economia, la società, la politica, la religione e la lingua». Insiste sul fatto che l’Islam è «verità dogmatica» (‘aqîda) e «legge generale» (sharî‘a). Il riferimento al fratello maggiore si ferma qui. La verità dogmatica significa «la fede in Dio, nei suoi angeli, nel suo profeta e nell’Ultimo giorno». Chiunque professi questa verità, afferma, è musulmano, è «al riparo dell’Islam», gode della speciale «virtù protettrice» dell’Islam.
Quanto al campo d’azione della legge generale (sharî‘a) , Gamal al Banna ritiene che sia lo strumento regolatore dei rapporti tra l’individuo e la comunità. Al-Banna spiega che questa legge è «secolarizzata» (dunîawyya), che non è affatto congelata ma, al contrario, è una sorta di quadro, ampio e flessibile, finalizzato a fissare principi generali. In materia politica, per esempio, essa rappresenta un potere buono e giusto, non trasmissibile per successione e fondato sulla «accettazione» (bay‘a), la «consultazione» (shûra) e la «democrazia». In materia economica essa mira al rifiuto dello «sfruttamento», fustiga «il lusso» e preconizza «la giustizia». Per ciò che concerne la società, il principio più importante è «l’uguaglianza tra gli individui». Secondo al-Banna, la legge generale così rappresentata a grandi linee trova per esempio un’applicazione in Svizzera – «paese che ha la croce sulla propria bandiera» – e non in Arabia saudita, nonostante che la sua bandiera rechi le parole: «non c’è altro Dio all’infuori di Dio, Maometto è l’inviato di Dio».
Per quel che riguarda i dettagli, la sharî‘a non precisa niente se non nel caso di situazioni molto ben definite, dette «limiti» (hudûd) i quali rappresentano soltanto una piccola parte del «diritto penale». E Gamal al-Banna si incarica di indebolire energicamente le interpretazioni di tipo letterale, nel senso di presentare come illecita, stante il mutamento di condizioni, un’applicazione uguale oggi a ciò che era lecito nel VII secolo. Egli ritorna all’epoca del califfo ‘Umar Ibn Khattâb per mostrare come la sharî‘a sia cambiata e abbia più volte vissuto una evoluzione a quell’epoca, a seconda del mutare delle situazioni. A proposito del hijâb egli afferma senza esitazioni che «non c’è niente che si chiami hijâb nell’Islam. Non è nient’ altro che una parola vuota», dopo di che si scaglia contro il niqâb definendolo «un’indegna sudiceria» e contro l’escissione che è «un crimine».
Molto critico nei confronti dei dotti musulmani, al-Banna li accusa di essersi istituiti come una «struttura», un’«istituzione», qualcosa di simile a una «Chiesa islamica». E a suo parere essi agiscono attraverso questa istanza che ha operato una intoccabile «schematizzazione dell’Islam». La chiusura della «porta dell’interpretazione»(bâb al-ijtihâd) nel V secolo dell’Egira ha portato al congelamento della ragione nell’Islam. La descrizione di al-Banna si fonda su ciò che egli chiama il «paradosso» dello scivolamento da una situazione di libertà effettiva in materia di interpretazione verso un effettivo congelamento. La spiegazione proposta è che i maggiorenti non cessavano di lamentarsi di questa condizione di libertà in quanto essa avrebbe provocato «disordine». Per tamponare la situazione, essi hanno sollecitato a «mettere in forma giuridica la sharî‘a». Di ciò hanno responsabilità anche i dotti come Ghazalî, il quale ha di fatto posto dei limiti al pensiero filosofico nel mondo musulmano mettendolo «al servizio delle scienze religiose».
Al-Banna estende la critica del patrimonio culturale musulmano fino alle sue origini. Mette in burla il procedimento di Ibn Hanbal che «ha raccolto migliaia e migliaia di ahâdîth!» e quello di al-Bukâhrî che ne ha raccolti a centinaia di migliaia. Tutto ciò non è razionale, dice al-Banna accennando alla sua opera Le crime de la tribu qui a pour nom “on nous a raconté” (Il delitto della tribù che si chiama “ci è stato narrato”): Maometto ovviamente non avrebbe mai potuto pronunciare tutto quello che gli viene attribuito; per giunta la comunità di Medina alla quale si rivolgeva era numericamente modesta, e alle prese con problemi e difficoltà circoscritti. È in seguito, in seno all’immenso impero che si era costituito, che sono apparsi problemi e “prove” delle quali i musulmani appartenenti alla comunità iniziale non avevano conoscenza. Il bisogno di prendere provvedimenti in materia di diritto a quel punto si è imposto e quei provvedimenti necessitavano di un punto di riferimento sia nel Corano, sia, nel caso che non vi si trovassero le specificazioni desiderate, nei “fatti e detti”, spingendosi fino a inventarli.
Respingendo la tradizionale qualificazione di autori “veridici”, al-Banna afferma senza mezzi termini: «Nessuna selezione, farla è impossibile. Bisogna abbandonare gli ahâdîth, o limitarsi quelli ahâdîth che sono in accordo con il Corano». Gli altri meritano solo l’oblio (cfr. l’opera Dépouillement des ahâdîth non necéssaires d’al-Bukhârî et de Muslim) perché derivano da una «storia erronea»e dalla «fantasia». Come sono nati? Dalla constatazione secondo la quale i musulmani nei primi tempi dell’impero si stavano allontanando dalla religione. In reazione a ciò, alcuni creatori di ahâdîth hanno preteso che a chi avesse letto una qualsiasi sura, «Dio avrebbe costruito una dimora in Paradiso», e che lo stesso sarebbe avvenuto per i «fatti» o i «detti». Gli uomini dell’epoca non erano stupidi, ma quando chiedevano: «Perché mentite contro il Profeta?» quelli rispondevano che non mentivano contro di lui ma in suo nome. E al Banna aggiunge ridendo: «ecco che la menzogna si trasforma in virtù».
Questo senso della storicità, al-Banna lo applica alle formulazioni adottate e diffuse dai giuristi (fuqahâ') in campo religioso, in particolare alla classificazione dei popoli in base alla loro fede: «casa dell’Islam» (dâr al islâm), «casa dell’incredulità» (dâr al-kufr), «casa della guerra»(dâr al-harb)… tutte espressioni che non hanno motivo di esistere nella situazione odierna. Egli giudica «ingenuo» ogni tentativo mirante a far emergere un’autorità o un punto di riferimento religioso particolare per i musulmani che vivono in Europa, del tipo di quella del dotto andaluso Shâtibî, promossa in qualche modo dai fratelli Hani e da Tariq Ramadan. Lo stesso approccio viene utilizzato a proposito della «lingua araba»: lingua degli «indovini» e della poesia, soprattutto quella delle Mu‘allaqt, l’arabo è stato rinnovato dal Corano tanto nello stile quanto nel lessico, così che questo testo è diventato un «fondamento» della lingua Ma, precisa al-Banna, la lingua deve restare parte vivente della comunità, il che significa che occorre «svilupparla» perché sia adeguata ai tempi: i musulmani non devono sacralizzare la lingua al posto della religione.
Come intellettuale e come musulmano, al-Banna difende il carattere «assoluto» della «libertà di pensare» e della «libertà di coscienza» che sono inseparabili: «Chi lo vuole, sia credente; chi lo vuole, rinunci alla fede». Maometto non è mai stato incaricato di guidare la condotta morale, precisa, bensì soltanto della «trasmissione»: anche se «l’Islam invita alla fede in Dio», niente va imposto a colui che vuole essere ateo – è una faccenda tra lui e Dio - poiché il Corano, benché consideri frequentemente la questione dell’«abiura», non stabilisce alcuna «pena». Il fatto di «credere o di non credere è una questione che riguarda l’individuo, non la comunità». Quanto alla nozione di «inneità» (fitra) conosciuta nella tradizione musulmana come modo di definire l’essenza naturale dell’uomo rivolto a Dio, al Banna la interpreta così: «tutte le religioni sono “Islam”, Abramo, Mosè, Gesù erano musulmani nel senso che sottomettevano il loro cuore a Dio». In altri termini, si tratta di un tipo di rapporto con Dio che è «la quintessenza di tutte le religioni».
Da questa centralità accordata all’«individuo e non alla comunità» deriva una concezione dello Stato diversa da quella che tenta di fare dell’Islam un sostegno del medesimo, o qualcosa che non gli nuoccia o un fattore di condizionamento. Lo Stato, secondo Al-Banna, deve dedicarsi unicamente al «governo dei corpi», mentre l’Islam è un «invito rivolto ai cuori». «Può uno Stato, in un modo o in un altro, costringere qualcuno alla fede?» No, è la risposta, il potere è un’autorità e questa nulla può fare per il progresso dell’Islam, ciò che le compete è la soppressione della strumentalizzazione della religione: bisogna instaurare la «separazione tra lo Stato e l’Islam», qualunque tentativo di istituire uno Stato «religioso», «islamico» o «cristiano», porta al fallimento.
Al-Banna è d’accordo, in senso generale, con la laicità. Tuttavia nei suoi confronti manifesta un pregiudizio nel senso che, secondo lui, «laicità» significa anche limitazione all’orizzonte mondano, come se non ci fosse posto per qualcosa che si chiama «religione», o «resurrezione finale», o «vita eterna». «Si vive, si muore, tutto sta in questo lasso di tempo oscuro, e niente più». Nessuna religione può accettare questa concezione che limita «la vita alla sua dimensione mondana e non reca traccia «né della religione né di Dio». Se la «laicità» ha potuto prodursi in Europa, dice ancora al-Banna, è perché l’Europa non ha mai cessato di essere attraversata dal paganesimo, dai Greci fino ai tempi moderni passando per i Romani. «L’uomo è colui che crea Dio, [mentre in Oriente] è Dio a creare l’uomo». Si tratta di una «partizione divina»: qui i paesi del paganesimo, della poesia, della prosa, della filosofia; di là, la «culla delle religioni».
Al-Banna afferma che la «civiltà europea» è «la migliore», attualmente. Non trae da ciò alcun complesso di inferiorità e tenta di iscrivere la sua definizione dell’Islam in questa concezione del mondo. Intellettuale «musulmano liberale», esorta i suoi contemporanei – a partire dai suoi correligionari – a cogliere il «bene» là dove si pensa di poterlo trovare e a riconoscere che, malgrado le apparenze e malgrado i discorsi dei detentori di qualche autorità, tutte le società sono di fatto pluraliste.
* Il Cairo, 5 maggio 2011, colloquio a cura di:
Dominique Avon, Professore di Storia all’Università del Maine
Amin Elias, Dottorando in Storia all’Università del Maine