In Libano i giovani desiderano il cambiamento, ma la tradizione pone degli ostacoli

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Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 10:02:08

Mentre da una minoranza giovane e poliglotta emerge il desiderio di cambiare il quadro che ha retto il Paese dei Cedri, la tradizione, il timore della destabilizzazione, la forza attraente delle comunità religiose bloccano la transizione possibile.

Il termine laico presenta due particolarità nel mondo arabo a maggioranza musulmana. La sua trascrizione fonetica (layyikî) è rimasta minoritaria e in generale confinata al Maghreb; il suo significato ha invece penetrato un termine plurisecolare (‘almânî) menzionato per la prima volta, per quanto ne sappiamo, in un documento del Patriarcato maronita della fine del XVII secolo per determinare la natura di un testo allontanatosi dalla sua vocazione religiosa iniziale.[1] Peraltro questo termine si distingue da altri tre aggettivi che significano rispettivamente “secolarizzato” (dunyawî), “civico” (madanî) e “temporale” (dahrî), in contrapposizione a un oggetto “religioso” (dînî) o “confessionale” (tâ’ifî).[2]

Il patto nazionale del '43 conferisce al confessionalismo un carattere perenne L’accenno a questa realtà linguistica testimonia forme di analogia e connivenza tra il pensiero di lingua francese e quello di lingua araba. Ciò si spiega in parte con la formazione delle élite fino alla metà del XX secolo nelle facoltà di Lettere, di Scienze umane e di Diritto, sulle due sponde del Mediterraneo. In Libano il fenomeno è rafforzato, nel 1920, dall’istituzione di un Mandato, categoria inedita definita nel quadro della nuova Società delle Nazioni.

Gli alti commissari che si avvicendano in Libano sono l’immagine della tensione tra la Francia laica e la Francia cattolica. La carta del Mandato sulla Siria e sul Libano, adottata il 24 luglio 1922, entra in vigore il 29 settembre 1923. La spartizione all’origine del Grande Libano ingloba tutta la Montagna a nord fino a Tripoli e a sud il territorio che comprende le città di Sidone (Saydâ’) e di Tiro (Sûr). Il Mandato regola, secondo l’influente gesuita Louis Jalabert, la questione siro-libanese e il problema cristiano, permettendo di conservare una maggioranza demografica «nonostante l’annessione di importanti elementi musulmani e drusi». Non compare alcun riferimento a un carattere laico del regime. La Costituzione del 1926, redatta da Michel Chiha ma in un quadro determinato dalla Francia, rappresentata da Henry de Jouvenel e dal suo consulente Paul Souchier, riprende i fondamenti di un «confessionalismo politico» già consacrato nel protocollo del 1861 della Mutasarrifiyya[3] – la ripartizione comunitaria delle funzioni e degli impieghi pubblici – attribuendovi un carattere transitorio, a condizione che ciò non nuoccia «al bene dello Stato» (art. 95).

Il patto nazionale del 1943, che ratifica la piena partecipazione dei sunniti alla vita politica nell’ambito dello Stato libanese, conferisce al confessionalismo un carattere perenne. Tale tratto è corroborato dalla dimensione comunitaria di una parte delle guerre che scuotono il paese a partire dal 1975. Al contrario, nel 1989, il Documento d’intesa per il Libano, meglio conosciuto sotto il nome di “Accordi di Tâ’if”, fissa come «primo obiettivo nazionale» l’abolizione del sistema confessionale, «realizzato a tappe, secondo un piano».

Vent’anni dopo, il dispositivo transitorio resta in vigore. Dal 2005 il Libano non si trova più sotto l’occupazione militare siriana grazie a una mobilitazione civile e alla pressione straniera, ma la situazione economica e finanziaria si è considerevolmente degradata. Il Paese è il primo della regione nelle classifiche di libertà d’espressione, ma la censura e l’auto-censura continuano a esercitarsi su un certo numero di argomenti. Le divisioni persistenti attraversano le appartenenze confessionali iscrivendosi nelle logiche regionali. Una minoranza, in generale giovane, poliglotta e con accesso all’insegnamento superiore, manifesta il desiderio di liberarsi dal quadro esistente, tanto nel campo politico quanto in quello sociale, ma si scontra con il corpo politico, con le gerarchie religiose e fondamentalmente con un’opinione maggioritaria che vede in questo desiderio la trasposizione di un modello occidentale. Gli intellettuali dal canto loro manifestano il loro dissenso.

 

Botta e risposta tra intellettuali

È un articolo di Georges Corm, pubblicato su Le monde diplomatique nel marzo 2010, ad essere all’origine di un rinnovato interesse della stampa libanese intorno alla laicità. Giurista di formazione, ex-ministro (1998-2000) e saggista appassionato di storia, Corm riprende nell’articolo i termini principali di un intervento da lui proposto in occasione di un convegno organizzato all’Université du Saint Esprit de Kaslik (USEK) su questo tema. Concetti e paradigmi utilizzati dagli specialisti di scienze umane e sociali per pensare tale categoria – egli afferma – non sono adatti alla realtà delle società musulmane. Puntando il dito contro una forma di «pigrizia intellettuale», egli fonda la sua dimostrazione su un duplice argomento: i monoteismi hanno una specificità che li rende più esclusivisti dei paganesimi; la storia «musulmana» non può essere valutata nei termini della storia «europea». In quest’ultimo caso, la liberazione del pensiero ha richiesto la liberazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica, a cominciare da quella della Chiesa romana. Nel caso musulmano invece il potere è sempre stato nelle mani di uomini di Stato «civili» (madaniyyûn) e solo la chiusura della «porta dell’interpretazione» (bâb al-ta’wîl) nel X secolo ha impedito una «laicità» definita come assenza di strumentalizzazione reciproca tra politica e religione.

Le divisioni persistenti attraversano le appartenenze confessionali iscrivendosi nelle logiche regionali La replica arriva da Michel Kilo, intellettuale siriano, co-redattore del Manifesto di Damasco (I‘lân Dimashq, ottobre 2005). Nel quotidiano Al-Safîr, il presidente dell’associazione Al-Hurriyya sintetizza la storia dei rapporti della Chiesa con l’ambiente, dall’apostolo Paolo fino a Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino, passando per Costantino, Augusto, Carlo Magno e Gregorio Magno: “fonte divina del potere”, “teoria delle due spade”… dopo una fase di elaborazione, queste nozioni hanno conosciuto un lungo processo di decostruzione, sfociato nel famoso gesto con cui Napoleone si mise sul capo la corona imperiale davanti a Papa Pio VI. Nello stesso periodo un «gelo dogmatico» veniva imposto nel mondo a maggioranza musulmana dove il pensiero filosofico era presentato come «un pericolo per la fede religiosa». Kilo confuta la nozione di «potere politico civile» in questo contesto, mostrando che il «regime islamico» o il «modello islamico immutabile» consiste nel collocare il credente [musulmano] al principio del legame sociale, ciò che produce disuguaglianza. Solo la laicità così come si è cristallizzata in Europa – prosegue – instaura una vera separazione tra temporale e spirituale, politico e religioso poiché colloca l’uomo al centro, lo lascia libero di stabilire o meno un legame con Dio e garantisce una vera uguaglianza. La definizione secondo la quale l’uomo è «essenza libera e degna della libertà» (Dhât hurra tastahiqqu al-huriyya) risale ad Aristotele. È qui che Kilo situa la sua controversia con Corm: troppo spesso considerata superficialmente, la laicità non è innanzitutto una concezione politica ma un problema filosofico con risvolti rivoluzionari nel campo del pensiero.

Nella sua risposta Corm prende di mira gli intellettuali arabi che cercano di trasporre la cultura europea in un contesto arabo e musulmano proprio mentre, parallelamente, si sviluppano tendenze salafite. Inoltre – egli aggiunge – la laicizzazione europea è a geometria variabile poiché è suscettibile di attribuire a se stessa un riferimento a «radici giudeo-cristiane». Corm afferma che la Chiesa cattolica ha sostenuto l’«aggressione» contro i paesi a sud dell’Europa fino alla metà del XX secolo, che la guerra fredda è stata l’occasione per combattere qualunque forma di «nazione araba laica» e che lo sviluppo dei «movimenti politico-religiosi» nel mondo arabo e musulmano altro non è che la conseguenza dell’entrata dei regimi arabi nel gioco degli americani e dei sionisti. Il futuro – conclude appoggiandosi sull’esempio di Hezbollah – appartiene ai movimenti di «resistenza» a questo progetto.

Così facendo, Corm radicalizza un orientamento di padre Yûâkîm Mubârak, di cui ha promosso il pensiero, affermando che «non vi sono valori comuni tra l’Ebraismo e il Cristianesimo». Il religioso maronita, discepolo dell’orientalista Louis Massignon e al tempo stesso uno dei maggiori protagonisti del ravvicinamento islamo-cristiano tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del XX secolo, serve precisamente come punto di partenza per una serie di articoli pubblicati da Antoine Flayfel in Al-Akhbâr tra febbraio e giugno 2010. Ad essere in gioco è la definizione dell’Islam come «religione» e «Stato» Nel primo la distinzione tra la «città sacra» (al-madîna al-muqaddasa) e la «città umana» (al-madîna al-bashariyya) è presentata come chiave per fondare un «regime laico locale orientale» che permetterebbe di risolvere sia il problema confessionale in Libano sia il conflitto arabo-israeliano. Amîn Elias esprime il suo disaccordo con questa interpretazione dimostrando, documenti alla mano, che, sulla scia del pensiero dei filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, Yûâkîm Mubârak cercava di promuovere una “distinzione” e non una “separazione” tra temporale e spirituale, nella misura in cui le finalità del primo ambito dovevano rimanere subordinate ai fini ultimi intesi nel senso di vita eterna.

Se negli scritti del padre maronita Michel Hâyik Flayfel non vede altro che le premesse di una «timida tendenza laica», egli trova nel pensiero di Mushîr ‘Aoun, professore di filosofia, la promozione di una laicità opposta agli orientamenti che conducono all’ateismo e suscettibile di informare una nuova «teologia politica cristiana orientale».  Allo stesso modo Bûlus Al-Khûrî confratello di Mushîr ‘Aoun all’Università libanese, distingue una «laicità estremista» ‒ perché antireligiosa e atea – e una «laicità moderata» che accetta di lasciare alla religione, liberata dalle pastoie della politica, la possibilità di esprimere un senso per l’uomo in una «società orientale moderna laica basata sull’umanesimo». Questa preoccupazione fa eco ai lavori del teologo greco-ortodosso Georges Khodr per il quale il modello bizantino può servire da matrice contemporanea per un «governo civile» (hukm madanî), opposto al «confessionalismo» (tâ’ifiyya) ma in armonia con un panorama religioso plurale. Tali letture non sono accolte all’unanimità neppure nelle comunità cristiane del Libano. I contributi e i dibattiti formulati nel dicembre 2009 in occasione del convegno dell’USEK sulla «nuova laicità» ne hanno offerto un’illustrazione.

Le grandi manifestazioni della primavera del 2005 sono un momento d’affermazione della società civileNel contesto musulmano, il disaccordo più notevole vede il dottor Muhammad ‘Amâra, autore di studi su ‘Abd al-Rahmân Kawâkibî,[4] opporsi al giornalista libanese Jean Daya. Quest’ultimo, cronista di Al-Safîr, evidenzia incoerenze e contraddizioni nell’analisi dell’universitario egiziano, che lo conducono ad affermare con un tour de force esegetico che il «riformista» Kawâkibî era «laico nel nostro pensiero moderno» e, allo stesso tempo, «fonte d’ispirazione per la formulazione dei principi costituzionali degli Stati islamici». Non potendo ignorare l’accusa di abiura contro Kawâkibî lanciata dal direttore di Al-Manâr, Rashid Ridâ, ‘Amâra riconduce la questione a una controversia circa il rapporto tra il califfato musulmano arabo e il potere ottomano. Jean Daya respinge questa lettura citando Ridâ in Al-Manâr :

 

«Noi [Ridâ] concordiamo con lui [Kawâkibî] su numerose problematiche della riforma, [...] ma forse [dobbiamo] fare allusione alle problematiche che ci oppongono al defunto, la più importante delle quali, in margine al libro che egli ha pubblicato [La nozione dell’ospitalità], è la separazione (fasl) tra le autorità religiose e politiche»

A monte, ad essere in gioco è la questione largamente dibattuta a partire da ‘Alî ‘Abd al-Râziq della definizione dell’Islam come «religione» (dîn) e «Stato» (dawla). Lo dimostra il discorso dello shaykh Maher Hammûd per il quale lo «Stato civico» non è che una soluzione di ripiego nell’attesa di fondare uno «Stato religioso», o quello del professore Wajîh Qânsuh legato a una tradizione propria di Najaf che separa due istituzioni, una religiosa e l’altra politica, ma entrambe presiedute da sciiti.

 

Tra Stato religioso e Stato civile

La sinistra laica libanese ha conosciuto il suo momento di gloria subito dopo l’indipendenza. Kamal Joumblatt fa parte di quanti l’hanno incarnata. In una dichiarazione d’intenti formulata dopo il 1948 il deputato dello Chouf affermava:

«Il Libano che noi vogliamo è il Libano arabo, democratico, laico [...] e non il Libano confessionale»

Prima del loro crollo, il Partito comunista, il Partito progressista socialista e il Partito nazionale siriano hanno accolto questa posizione senza però riuscire a laicizzare la società. Nelle sue Indicazioni testamentarie, pubblicate nei primi anni del 2000, l’Imam Shamseddin dichiara il fallimento, politico e sociale, dell’azione degli sciiti in questi partiti. Certo, egli si oppone al «regime confessionale politico» ma senza offrire un contenuto strutturale a un sistema a riferimento islamico suscettibile di sostituirsi ad esso nel mondo arabo. Lo shaykh Fadlallah, con il quale a suo tempo Shamseddin propose una “costituzione islamica”, fissa ulteriormente gli elementi che strutturano il paesaggio politico nel campo religioso. Se dopo la morte dell’ayatollah Khomeini nel 1989 Fadlallah cessa di far riferimento all’“autorità del giurista-teologo” (wilâyat al-faqîh), egli rifiuta di prendere in considerazione il principio di separazione e l’eventualità di un potere che non sia musulmano e le cui regole non rispettino l’Islam. Così facendo, egli non respinge la realtà di «istituzioni civili» suscettibili di partecipare al miglioramento della vita quotidiana dei cittadini.

Lo shaykh Husayn Fadlallah è stato l’eminenza grigia di Hezbollah durante il periodo in cui veniva elaborato il primo documento dottrinale di questo partito, la Lettera aperta del 1985:

«Noi non vogliamo che l’Islam governi in Libano con la forza, come fa il maronitismo politico [...]. Tuttavia, crediamo nel dogma e nel governo dell’Islam, nel suo spirito e nella sua autorità. […] Se al nostro popolo sarà dato di scegliere liberamente la forma del suo regime politico in Libano, non potrà che scommettere sull’Islam»

Il rifiuto degli Accordi di Tâ’if da parte di Hezbollah avviene in nome della fondazione di una «Repubblica islamica». Vent’anni più tardi, la Carta del novembre 2009 contiene solo un’allusione al “giurista-teologo” (iraniano) in politica estera e l’aggettivo islamico non è mai associato alla definizione dello Stato: il regime dev’essere fondato sulla «democrazia consensuale» senza riferimento al «confessionalismo politico». Al prezzo di forti tensioni interne si è dunque imposto un accomodamento, basato su due elementi: il riconoscimento pratico di una pluralità confessionale nella società libanese e lo slittamento teorico dal discorso della «Rivoluzione» al discorso della «Resistenza» (islamica, patriottica, araba).

Il panorama cristiano presenta analogie con quello sunnita La Corrente del Futuro (Mustaqbal) intende presentare un’alternativa politica alla potenza di Hezbollah. In un contesto regionale marcato da tensioni sempre più forti tra sunniti e sciiti, la tacita divisione delle sfere d’influenza in un Libano sotto il dominio siriano (territorio, politica estera, posti di responsabilità, finanze) si è trasformata dopo l’assassinio di Rafiq Hariri (14 febbraio 2005) in antagonismo crescente e nel maggio 2008 in confronto aperto, nel corso del quale la milizia sunnita del Mustaqbal è stata umiliata. La risposta politica prende la forma di un Documento che incoraggia la fondazione di uno «Stato civico», capace di riconciliare la dimensione individuale e quella collettiva, riecheggiando l’espressione utilizzata in occasione del Sinodo della Chiesa maronita (2006). Inscrivendosi nel prolungamento dell’esperienza trasmessa dal Primo Ministro Rafiq Hariri e degli Accordi di Tâ’if, i responsabili intendono costruire, in un ambiente arabo più solidale, uno «Stato moderno» fondato sulle libertà generali, la buona gestione, la parità tra musulmani e cristiani, l’uguaglianza e la democrazia.

Viene evocata, ma senza precisarne i contenuti, una distinzione tra la «vecchia laicità», venuta dall’Occidente, e una «nuova laicità». Il tipo di relazione – separazione, distinzione, assimilazione – tra lo Stato e la religione non è specificato e ciò lascia la porta aperta a configurazioni differenti. La crisi di governo del gennaio 2011 e la nomina di Najib Mikati come successore di Saad Hariri alla Presidenza del Consiglio determina la riunione di tutti i capi politici e religiosi sunniti a Dâr al-Fatwa [la maggiore istituzione sunnita libanese – N.d.R.] per la prima volta dal 1983, senz’altro esito che quello di una dichiarazione di principi.

 

L’approccio dei cristiani

Il panorama cristiano, principalmente maronita, presenta un certo numero di analogie con quello sunnita. Il programma delle Falangi, organizzazione fondata da Pierre Gemayel, era intriso di elementi culturali prodotti nella Francia della Terza Repubblica e ampliato con elementi tratti da regimi autoritari e addirittura totalitari. Quello delle Forze libanesi, sotto la guida di Bashir Gemayel sostenuto da Charles Malik o da Karîm Pakradûnî, prolungava questa tendenza manifestando, di tanto in tanto, una forte indipendenza nei confronti degli appelli, dei consigli pressanti o degli avvertimenti della gerarchia ecclesiastica. È comunque vero che i membri di questo gruppo continuavano a svolgere un ruolo essenziale. Tuttavia, le tracce lasciate dalla campagna “unification du fusil chrétien”, la guerra dei capi (Geagea-Hobeika) e poi lo scontro tra le Forze libanesi e l’Armata libanese condotta dal generale Aoun hanno creato fratture durature in seno a questa comunità. Una delle conseguenze è la tensione tra le Forze libanesi (FL) e la Corrente patriottica libera (CPL) talvolta associata alla Brigata Marada.

Nel corso degli anni 2005-2010, la coppia Aoun-Frangié avanza a più riprese critiche aperte nei confronti dei discorsi pronunciati dal Patriarca maronita. La posizione trova una caratterizzazione regionale alla luce di un ravvicinamento delle minoranze in un mondo arabo a maggioranza sunnita: tale opzione spiega in parte l’atteggiamento del generale Aoun nei confronti del regime siriano dopo il suo ritorno in Libano, nel maggio 2005, il documento d’intesa con Hezbollah, nel febbraio 2006, e i discorsi in favore di quest’ultimo all’indomani degli scontri del maggio 2008. Quest’analisi strategica, contestata dalle Forze libanesi che la considerano una forma di fedeltà da dhimmî al potente del momento, si accompagna a una scelta ideologica esplicita. Dopo aver affermato la volontà di stabilire uno Stato libanese perenne e animato dalla democrazia, i redattori della Carta del CPL fissano come quarto obiettivo quello di «educare le generazioni future alla cittadinanza per consacrare l’uguaglianza tra i libanesi. Adottare una legge civile opzionale per lo statuto personale e separare politica e religione in vista dell’accesso allo Stato laico». Il riconoscimento del «cittadino» come «un valore in sé» nella Carta di Hezbollah è un prestito diretto dalla Corrente patriottica libera del generale Aoun. Ma se il sito www.tayyar.org dà il tono, esso non riesce a superare la contraddizione tra strategia (difesa delle minoranze) e ideologia (laicità).

Le grandi manifestazioni della primavera del 2005, che vedono opporsi due campi, sono un momento d’affermazione della società civile. La sua promozione non è tuttavia presentata, tranne eccezioni, come parola d’ordine prioritaria: così Samir Kassir, assassinato nel giugno di quell’anno, discute pubblicamente del tema del matrimonio civile. La minaccia esterna, rafforzata dalla guerra del 2006, e le tensioni interne, che sfociano negli scontri del maggio 2008, radicalizzano i comportamenti. In posizione marginale il mufti di Tiro, ‘Alî al-Amîn, teme che «la situazione attuale conduca il popolo al parossismo». Dopo un tentativo nel 2007 bisognerà aspettare la primavera araba del 2011 perché una certa gioventù libanese, sostenuta dai partiti di sinistra come il PCL di Khalid Hdidi, organizzi delle manifestazioni. Le canzoni e gli slogan di cittadini e cittadine vogliono essere rivoluzionari: «Basta», «Né 8 marzo né 14 marzo».

Lo slogan ricorrente è l’«abolizione del regime confessionale» e dei suoi «simboli». Si aggiungono la soppressione del regime delle quote e della patrimonializzazione politica, la lotta contro le guerre civili, contro lo sfruttamento della società, contro il regime dei capi: «La tua confessione non è ciò che ti caratterizza», «Fatima ama Tony», «Abbasso il confessionalismo e la corruzione», una «Patria, niente sfruttamento», «Stato di diritto», «Stato laico, civile, democratico garante della giustizia sociale, dell’uguaglianza e garante del diritto a una vita rispettabile», «Costruzione di una patria laica [che dia] pane, lavoro e libertà», «Il sogno del Libano: libertà, nessuna confessione, regime civile»; un sistema elettorale proporzionale; un codice civile dello statuto personale, il matrimonio civile.

La mobilitazione è modesta, ma rilanciata da manifestazioni della diaspora libanese in Europa e in America settentrionale; fa comunque abbastanza rumore perché alcune personalità vi accorrano e alcuni oppositori si esprimano in proposito. Tra questi ultimi figura Hizb al-Tahrîr, che organizza una conferenza del professor Ahmad Al-Qissas per denunciare un regime la cui politica è «lontana dalla religione» e rivendicare lo ristabilimento del Califfato.

L’intreccio dei magisteri religiosi e delle forze politiche, anche in seno alle comunità demograficamente deboli, si accompagna a questioni di potere personale e a interessi economici e finanziari che limitano lo sviluppo dei partiti interconfessionali, come il Raggruppamento per la democrazia e la laicità. La forza della tradizione, il timore della destabilizzazione del Paese, la difesa di un modello libanese che garantisce un posto ai rappresentanti di ogni comunità, oltre all’auspicio ampiamente condiviso di continuare a mantenere il rapporto tra fede e vita, caratterizzano i dati sullo stato/Stato attuale. Alcuni tentano di situare la propria società in un momento di post-secolarizzazione per superare l’antagonismo dei termini (religioso e civile o laico; neutralità aperta e neutralità distante). Ma se la laicità è un desiderio minoritario, la definizione di uno “Stato civico a riferimento islamico” non riscuote più consensi di quanti ne riscuotesse la definizione di uno “Stato a ispirazione cristiana” nell’Europa tra le due guerre o la definizione di uno “Stato ebraico” o per gli ebrei.

 

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Fonti e bibliografia scelta

 

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[1] Dominique Avon e Amin Elias, Laïcité. Navigation d’un concept autour de la Méditerranée, «Droits de cités» (3 gennaio 2011), disponibile su: http://droitdecites.org/2011/01/03/religions-secularisation-et-laicite-des-concepts-en-mouvement-dcie/#more-9529 [consultato il 01-10-2011].
[2] Cfr. la definizione del termine dunyawî fornita dal Munjîd (Dâr al-Mashrîq, Beirut 2007, 226). Da notare che nell’Islam e i fondamenti del potere (1925) ‘Alî ‘Abd al-Razîq utilizza l’espressione al-lâ-dînî e non ‘almânî.
[3] Con questo termine si designa la regione autonoma creata nel 1861 nel Monte Libano (N.d.R.).
[4] Al-Kawâkibî fu un riformista musulmano siriano della fine del XIX secolo. Rashîd Ridâ, anch’egli di origine siriana, è uno dei più celebri riformisti musulmani della prima metà del XX secolo, per molti anni alla guida della rivista al-Manâr. Anche ‘Alî ‘Abd al-Râziq fu un esponente di spicco del movimento riformista in Egitto, mentre Najaf è un celebre centro religioso sciita in Iraq (N.d.R.)

 

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