Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:34:50

A meno di due anni dallo stabilimento di relazioni diplomatiche ufficiali con Israele, gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il primo Paese arabo a firmare un accordo completo di libero scambio con lo Stato ebraico. Israele ne ha infatti già siglato uno parziale con la Giordania, ma come ha scritto il Jerusalem Post l’accordo con Amman non raggiunge il livello di quello siglato con Abu Dhabi, che assomiglia piuttosto a quelli firmati con Stati Uniti e Unione Europea. Secondo le stime riportate dal Wall Street Journal il commercio bilaterale tra i due Stati dovrebbe passare da un miliardo di dollari all’anno a circa 10 entro cinque anni. È significativo che i negoziati, come affermato direttamente dal ministro dell’Economia israeliano, siano durati da novembre dell’anno scorso ad aprile 2022: ciò significa che le violenze scoppiate in questi ultimi mesi tra israeliani e palestinesi non hanno bloccato le trattative. Gli Emirati non sembrano provare particolare imbarazzo anche nei momenti di maggiore tensione tra israeliani e palestinesi, persino quando gli scontri riguardano il complesso di Al-Aqsa, come testimoniato dalla semplice condanna verbale espressa dal ministro degli Esteri emiratino in seguito alla marcia delle bandiere di domenica scorsa.

 

Il nuovo accordo permetterà al commercio tra Israele ed Emirati di estendersi in settori diversi da quello dei diamanti (che finora ha costituito più della metà del valore degli interscambi) per includerne altri come quelli alimentare, tecnologico, cosmetico e chimico. Come riportato dal Financial Times l’accordo di libero scambio firmato a Dubai porterà alla cancellazione del 96% delle tariffe doganali finora in vigore. «Il patto con Israele creerà un nuovo paradigma per la regione, accelererà la crescita e sottolinea la convinzione comune che l’unico modo per costruire economie resilienti e sostenibili in un mondo complesso è farlo insieme», ha affermato Abdulla bin Touq, ministro dell’Economia emiratino.

 

L’interesse israeliano verso relazioni sempre più strette con gli Emirati si deve anche alla convinzione del disimpegno americano dalla regione mediorientale e dal timore per le attività iraniane, ha scritto Simeon Kerr. In quest’ottica si leggono anche le dichiarazioni di Yair Lapid, il quale ha affermato che è nell’interesse di Israele la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita.

 

Intanto, dopo le forti pressioni americane iniziate con l’invasione russa dell’Ucraina, l’OPEC ha acconsentito ad aumentare la produzione di petrolio a un ritmo superiore rispetto ai 400.000 barili al giorno stabiliti precedentemente di comune accordo con la Russia. L’effetto sul prezzo del petrolio è stato limitato, perché i reali incrementi della produzione sembrano essere molto inferiori rispetto a quelli annunciati. Restano però due fatti politicamente significativi: il primo è che l’Arabia Saudita accoglie finalmente le richieste americane, e lo fa subito dopo che il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, nel corso del suo soggiorno a Riyad, aveva ribadito l’importanza del coordinamento tra Arabia Saudita e Russia in seno all’OPEC+. Il secondo è che il Paese guidato da Mohammed bin Salman mostra la sua «disponibilità a riprendere il ruolo di “banca centrale del petrolio”». Inoltre, stando a quanto fatto filtrare da alcuni funzionari sauditi, Riyad potrebbe considerare di aumentare la produzione ulteriormente nel caso in cui continuasse il declino delle esportazioni russe, ma questa decisione «dipende anche dalla potenziale visita di Biden» che, ufficialmente, non è ancora stata confermata.

 

Secondo quanto scritto da Felicia Schwartz e Derek Brower sul Financial Times l’annunciato aumento della produzione dell’OPEC è frutto del lavoro diplomatico svolto da Brett McGurk e Amos Hochstein. Sul tavolo ci sarebbe secondo i due giornalisti un accordo più ampio sulla sicurezza energetica e un «reset» dell’intesa sulla sicurezza regionale. In quest’ottica è opportuno segnalare che i colloqui tra il Segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan hanno portato all’estensione della tregua in Yemen e alla cooperazione per scongiurare il disastro ambientale che potrebbe verificarsi al largo di Hodeida.

 

Queste positive evoluzioni nelle relazioni tra Washington e gli alleati del Golfo non devono però far dimenticare che la tensione creatasi a partire dall’elezione di Joe Biden ha fornito a Pechino l’opportunità per aumentare la propria influenza, come ha fatto notare il giornale cinese South China Morning Post. Non a caso Faisal bin Farhan ha definito la Cina il più importante partner economico dell’Arabia Saudita. Gli interessi cinesi nella regione sono soprattutto legati all’approvvigionamento energetico e Pechino necessita di un mercato petrolifero stabile: per questo, nota sempre il quotidiano cinese, al momento anche la Cina figura tra i beneficiari dell’ombrello securitario che gli Stati Uniti estendono sulle capitali delle petromonarchie.

 

Se MbS e Biden sembrano intenzionati a scendere a patti in forza del pragmatismo, di certo non farà piacere al presidente americano (e ai leader europei) notare ancora una volta che gli Emirati sono diventati un rifugio per gli oligarchi russi e i loro capitali. A questo riguardo la notizia della settimana è la presenza a Ras al-Khaimah (uno dei sette Emirati che compongono la federazione) dell’enorme yacht di Andrey Melnichenko, oligarca sanzionato per la sua vicinanza a Putin (un’altra sua imbarcazione è stata sequestrata in Italia).

 

Proseguono le proteste in Iran

 

Dopo il crollo del palazzo Metropol ad Abadan, in cui hanno perso la vita 34 persone, in Iran sono scoppiate nuove proteste contro la corruzione. I manifestanti sostengono che grazie alle entrature del proprietario del Metropol, Hossein Abdol-Baghi, nel sistema della Repubblica islamica sia stato possibile costruire l’edificio senza rispettare gli standard minimi di sicurezza. Le stesse entrature avrebbero permesso ad Abdol-Baghi di inscenare la sua morte nell’incidente, per potersi poi rifugiare all’estero. Come ha scritto Najmeh Bozorgmehr sul Financial Times, la diffusione dell’idea che Abdol-Baghi abbia simulato la sua morte, coperto dalle autorità politiche, «mostra il livello di rabbia [della popolazione] nei confronti della corruzione nella Repubblica islamica». Le proteste sono iniziate nel luogo del crollo in Khuzestan, regione ricca di petrolio e già teatro di violente manifestazioni contro il governo per la malagestione delle risorse idriche e il mancato sviluppo. Come però riporta Reuters, le manifestazioni si sono estese a Teheran e in altre zone del Paese, e sono state scandite da slogan proibiti come «morte a Khamenei». La Guida suprema è stata criticata anche per aver atteso tre giorni prima di diramare un messaggio in merito all’accaduto. Quando poi l’Ayatollah Mohsen Heidari AleKasir è stato inviato ad Abadan per tenere un discorso nei pressi del palazzo crollato, la folla gli ha impedito di prendere la parola, obbligando le televisioni di Stato che riprendevano la scena a interrompere il collegamento.

 

Le proteste contro la corruzione innescate dalla tragedia di Abadan si saldano con quelle dovute alla crisi economica e al rialzo dei prezzi, dovuti sia alla guerra in Ucraina che alla rimozione di alcuni sussidi da parte del governo di Ebrahim Raisi.

 

Un miglioramento delle condizioni economiche degli iraniani potrebbe passare attraverso la rimozione delle sanzioni che seguirebbe la firma di un nuovo accordo sul nucleare. Questa settimana però, dopo un brevissimo momento di ottimismo, i segnali tornano a essere negativi. La tensione si è di nuovo alzata dopo che i Guardiani della Rivoluzione hanno sequestrato due petroliere greche nel Golfo Persico, ma soprattutto, dopo che un report pubblicato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), l’Iran non sarebbe stato in grado di motivare l’origine del materiale radioattivo trovato nei tre siti di Marivan, Varamin e Turquzabad, precedentemente non dichiarati da Teheran. Inoltre, Teheran avrebbe a disposizione ormai abbastanza uranio arricchito per realizzare una bomba atomica. Le reazioni non si sono fatte attendere. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha dichiarato che il report dell’IAEA non è «imparziale» perché la «pressione esercitata dal regime sionista [Israele] e da alcuni altri attori ha fatto sì che il report dell’agenzia divenisse politico anziché tecnico». Al contrario, il premier israeliano Naftali Bennett ha affermato che «l’Iran ha mentito al mondo e sta continuando a farlo anche adesso».

 

Tra grano e debito, i problemi dell’Egitto

 

La guerra in Ucraina ha posto al centro dell’attenzione mondiale il dibattito sulla sicurezza energetica e alimentare. Da questo punto di vista, uno degli osservati speciali è l’Egitto. È in particolare nel porto di Damietta che è possibile scorgere il doppio impatto, alimentare ed energetico, provocato dalla guerra in Ucraina. Qui infatti, ha scritto Bloomberg, il mancato riempimento dei silos per lo stoccaggio del grano testimonia le conseguenze del blocco delle esportazioni attraverso il Mar Nero, e sempre qui si trova uno dei due terminali egiziani per la gestione del gas naturale liquefatto, una nascente industria che «innalza l’interesse» dei Paesi stranieri verso il Cairo. Il timore è che l’aumento dei prezzi e la mancanza di materie prime causino proteste e manifestazioni nel Paese. Tuttavia, l’Egitto è «too big to fail», ha affermato Riccardo Fabiani del Crisis Group, e nessuno vuole che si verifichi un periodo di instabilità nel più popoloso Paese arabo. Per questo nell’ultimo periodo i vertici egiziani hanno avuto colloqui con le controparti del Golfo, dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e persino di Israele, che hanno promesso aiuti di vario genere.

 

Come ha però ricordato Ahmed Elleithy su Al-Monitor, i problemi per l’Egitto non finiscono qui: l’inflazione ha raggiunto in aprile il 13,1%, in rialzo dal 10,5% del mese precedente, e per farvi fronte la Banca centrale egiziana ha stabilito pochi giorni fa un aumento del 2% dei tassi d’interesse, che fa seguito a quello del 3% avvenuto in marzo. Il pericolo, si legge, è che questi incrementi obbligheranno l’Egitto a pagare spese più elevate per rimborsare i titoli di Stato emessi, causando ulteriore tensione sulla situazione debitoria del Paese.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino e Mauro Primavera

L’accordo di libero scambio galvanizza gli Emirati e indigna gli altri Paesi arabi

 

Martedì scorso è stata un’altra giornata storica per gli Emirati e Israele che, al termine di una serie di incontri andati avanti per mesi, hanno siglato l’Accordo di partenariato economico globale (CEPA). All’inizio dell’anno il governo emiratino aveva già annunciato questo patto come parte degli accordi di Abramo, e il ministro del Commercio estero Thani bin Ahmad al-Zawaydi si era detto fiducioso sulla conclusione dei colloqui entro il mese di marzo. In attesa della ratifica ufficiale, i due governi avevano sottoscritto ad aprile un memorandum di intesa sul trasporto e gli scambi marittimi, che prevede, fra le altre cose, il miglioramento dell’organizzazione logistica e delle infrastrutture portuali.

 

Com’era prevedibile, la stampa emiratina ha celebrato la firma dell’accordo con molta enfasi, contrariamente ai media da sempre ostili alla normalizzazione tra i due Paesi, che hanno visto in esso l’ennesimo tradimento. Il ministro dell’Economia emiratino Abdullah bin Touq al-Marri ha dichiarato ad al-‘Ayn al-Ikhbariyya che «la partnership commerciale di libero scambio costituisce un significativo passo in avanti per la crescita economica della nazione e aumenta l’importanza del Paese come centro mondiale del commercio, degli investimenti e delle industrie del futuro, in accordo con la visione lungimirante della “leadership ben guidata” e con il “Progetto dei 50”». Nell’intervista, al-Marri ha sottolineato il valore politico dell’accordo nella misura in cui esso «contribuisce a rafforzare la cooperazione e il dialogo, trasformando le sfide in opportunità». Inoltre, in un articolo per al-Ittihād a sua firma, il ministro ha sottolineato come il libero scambio sia pensato principalmente per i giovani e come questo porterà enormi benefici in ambito tecnologico – dall’industria aerospaziale alle start-up, un settore in cui Israele è leader mondiale. Questa prospettiva è stata condivisa anche dal ministro del Commercio estero al-Zawaydi, secondo il quale l’accordo segna l’inizio di una «nuova era nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi».

 

Come spiega su al-Hurra Samih Rashid, analista del Centro di Studi strategici al-Ahram del Cairo, i vantaggi economici per Abu Dhabi sono innegabili, considerato che il volume degli scambi con Tel Aviv è, già adesso, tre volte superiore di quello con l’Egitto (900 milioni di dollari contro 300). Non si tratta però solo di una questione di numeri e proventi: Tel Aviv, ha scritto Rashid, gode di un vantaggio enorme rispetto alla concorrenza araba per quanto riguarda la tipologia e la qualità delle merci esportate.

 

Ed è proprio la questione delle merci esportate a preoccupare maggiormente il giornalista egiziano Mustafa ‘Abd al-Salem, che su al-‘Arabī al-Jadīd ha commentato come «l’aspetto più pericoloso [dell’accordo] sia il tentativo di immettere merci e prodotti israeliani nei mercati e nelle case arabe, oltre che nello stomaco e nell’intestino del cittadino arabo, senza che quest’ultimo senta alcun rimorso né senta di tradire migliaia di martiri». «Sfortunatamente – ha scritto ancora al-Salem – lo Stato occupante è riuscito a compiere un notevole passo in avanti nella normalizzazione economica con i Paesi arabi. Ha indebolito l’arma del boicottaggio e ha persino cercato di convincere i boicottatori e quanti rifiutano la normalizzazione che il boicottaggio è ormai parte del passato e che tutti, popoli compresi, devono accettare il fatto compiuto e stringere partnership economiche, commerciali, finanziarie, agricole, industriali, turistiche e tecniche [con Israele]».

 

Al-Quds ha titolato provocatoriamente “La Giordania contro lo ‘Stato dei coloni’” un articolo del giornalista Bassam al-Badarin, che ha espresso la convinzione che Israele rappresenti sempre più un pericolo per gli interessi del governo e del popolo giordano. «Il processo di ebraizzazione di Gerusalemme inizia con l’indebolimento della tutela hashemita», ha scritto il giornalista in riferimento alla protezione esercitata storicamente dalla dinastia hashemita giordana dei luoghi santi di Gerusalemme, affinché cristiani e musulmani possano praticare liberamente il proprio culto senza subire intimidazioni. Il grande rammarico di al-Badarin è che oggi l’unico Paese a riconoscere «il reato di normalizzazione» sia l’Iraq.

 

L’Algeria mette in guardia Saied

 

La visita in Italia del presidente della repubblica algerino Abdelmajid Tebboune è stata importante non solo per accordi energetici e forniture di idrocarburi, ma anche per altri settori strategici come il turismo e il commercio. Inoltre, stando a quanto riferito dall’agenzia Algérie Press Service, l’incontro ha posto le basi per una cooperazione sicuritaria che comprende tanto il contrasto alla criminalità organizzata quanto la stabilità del Mediterraneo meridionale, in particolar modo della Libia, impegnata nella ripresa dell’iter elettorale dopo lo stop dello scorso dicembre. Il capo di Stato, nel corso della conferenza stampa congiunta con il premier Mario Draghi, ha menzionato anche la Tunisia, dove il progetto di riforma costituzionale sta suscitando parecchi malumori tra le fila dell’opposizione e all’interno dell’UGTT, il sindacato dei lavoratori che ha indetto per il 16 giugno uno sciopero generale. Di fronte a questi eventi Tebboune ha espresso viva preoccupazione, affermando che Algeria e Italia hanno approvato un piano di aiuti economici «per far uscire il Paese dallo stallo in cui si ritrova al momento, in modo da riportarlo sulla via della democrazia». Secondo al-Sharq al-Awsat, una parte della classe politica tunisina ha visto in quest’ultima affermazione un atto di interferenza politica. A tal proposito Algeri ha diramato una nota ufficiale per smentire i presunti tentativi di ingerenza, sottolineando come i due Stati arabi confinanti siano uniti da vincoli fraterni. Comunque, stando a quanto riportato da al-‘Arabī al-Jadīd e al-Quds al-‘Arabī, è un dato di fatto che Tebboune nelle ultime settimane abbia riconsiderato la politiche adottate nell’ultimo anno dal presidente tunisino, passando dalla «comprensione delle misure eccezionali adottate da Kais Saied» a una posizione più critica.

 

Nel frattempo, in Tunisia continua il processo di epurazione della magistratura. In questi giorni Saied ha rimosso dall’incarico 57 giudici sospettati di corruzione, una decisione basata su un decreto che viola il principio della separazione dei poteri – ha commentato al-Jazeera. In risposta, il Fronte di salvezza nazionale tunisino ha emesso un comunicato in cui ha definito l’ingerenza di Saied nella magistratura «uno strumento di persecuzione» e una decisione che aggrava la crisi politica «spingendo allo scontro Stato, partiti politici e sindacati».

 

Il quotidiano filo-islamista ‘Arabī21 ha parlato di una «strage della magistratura» e ha divulgato la notizia per cui cinque partiti tunisini hanno lanciato una campagna per boicottare il referendum previsto il prossimo 25 luglio che sottoporrà al voto dei cittadini la nuova bozza di Costituzione alla quale sta lavorando in queste settimane la Commissione nominata da Saied.  

 

In Iraq è vietato criticare la magistratura

 

Problemi legati alla magistratura, seppure di ordine diverso, questa settimana si sono verificati anche in Iraq, come ha raccontato al-‘Arabī al-Jadīd. Mercoledì sera, durante un talk show trasmesso dalla tv di Stato irachena, lo scrittore Sarmad al-Taei ha espresso alcuni pareri negativi nei confronti della Guida suprema dell’Iran Ali Khamenei, del generale Qassem Soleimani, ex capo della Nīrū-ye Qods dei Guardiani della Rivoluzione iraniana, e del capo del Consiglio superiore della magistratura iracheno, Faiq Zaidan. Tra i commenti incriminati, quello in cui al-Taei dice che «chiunque oggi si opponga al ruolo della magistratura è in arresto al punto che la situazione è diventata sempre più pericolosa», e l’accusa rivolta a Zaidan di «voler tentare un colpo di Stato politico e sicuritario». Questi commenti sono valsi allo scrittore il divieto di apparire ancora in televisione, e gli attacchi dei media e delle fazioni filo-iraniane, che hanno accusato la tv di Stato irachena di parzialità.

Al-Quds al-‘Arabī ha sollevato il problema della libertà di espressione dei media iracheni, denunciato l’incostituzionalità del mandato di cattura emesso nei confronti di Sarmad al-Taei e criticato la posizione assunta dalla tv di Stato che, dopo l’accaduto, ha elogiato la magistratura definendola «l’ultimo baluardo della democrazia in Iraq».    

 

In breve

 

Il parlamento libanese ha rieletto Nabih Berri nel ruolo di speaker (France 24).

 

La Russia ha intimato alla Turchia di non intraprendere una nuova operazione militare contro i curdi in Siria (al-Jazeera).


L’ONU ha accettato la richiesta turca di cambiare il nome della nazione in inglese da Turkey a Türkiye (Washington Post).

 

Secondo Macky Sall, presidente senegalese e dell’Unione Africana, le sanzioni europee contro le banche russe impediscono agli Stati africani di acquistare da Mosca i beni alimentari di cui necessitano (Financial Times).

 

 

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