Analisti e policy makers sono preoccupati dagli effetti della crisi alimentare in Medio Oriente e Nord Africa. Ma prima ancora della guerra in Ucraina, decenni di politiche scellerate e i cambiamenti climatici hanno reso vulnerabili le società della regione
Ultimo aggiornamento: 06/06/2022 11:34:38
È talmente importante che dall’Ucraina riprendano le esportazioni di grano e cereali che si è arrivati a ipotizzare un “patto del grano”: un accordo tra Russia, Ucraina e Paesi europei per permettere alle navi cargo di lasciare il Mar Nero e raggiungere le loro destinazioni. Finora però nulla è stato concluso (Lavrov dovrebbe raggiungere la Turchia l’8 giugno per parlarne) e l’aumento dei prezzi dovuto alla guerra ha già provocato numerose proteste. In Medio Oriente il caso più recente è quello dell’Iran, ma all’inizio di marzo si sono verificati episodi simili anche in Iraq. Il timore è che Paesi come Libano, Egitto (ne parla qui Chiara Pellegrino), Tunisia siano destinati a una sorte simile se non peggiore, a causa della mancanza di materia prima a prezzi abbordabili. Diversi Paesi mediorientali dipendono in larga misura dal grano importato dall’estero, gran parte del quale arriva proprio dall’Ucraina. Tuttavia, ora che il grano ucraino è bloccato nei porti di Odessa e Mariupol, una così marcata dipendenza dall’estero mostra tutta la sua problematicità, ricalcando una dinamica simile a quella dell’Europa col gas russo. La situazione critica che si verifica in questi Paesi ha però un’origine più profonda. Infatti, cambiamenti climatici e anni di malagestione (delle risorse idriche o del ciclo dei rifiuti, per fare solo due esempi) rendono sempre più difficile la produzione delle risorse alimentari di cui la popolazione necessita.
Per cercare di comprendere come Nord Africa e Medio Oriente saranno colpiti dalla crisi alimentare occorre perciò partire da una valutazione del modo in cui guerre, politiche scellerate e cambiamenti climatici abbiano reso la popolazione più vulnerabile.
Il primo dato a saltare all’occhio è che il Medio Oriente è una delle regioni più colpite dai cambiamenti climatici. Per limitarci alla più superficiale delle rilevazioni è sufficiente notare che le temperature massime estive nel Golfo Persico arrivano a superare i 50 gradi. Tuttavia, l’aumento della temperatura è solo uno degli aspetti di una più ampia crisi ecologica che caratterizza la regione: un fenomeno profondo che riguarda, in ultima analisi, il rapporto dell’uomo con il creato. Rientrano nell’ambito della crisi ecologica aspetti disparati come la gestione dei rifiuti, il consumo del suolo, l’uso delle risorse idriche, i metodi di produzione e impiego dell’energia. La crisi non riguarda solo i Paesi poveri o segnati dai conflitti, ma anche quelli ricchi come le monarchie del Golfo: è un sintomo di questa crisi il fatto che in zone tipicamente aride come la Penisola arabica il consumo d’acqua pro capite sia estremamente più elevato di quello di un cittadino britannico, o che un grattacielo come il Burj Khalifa consumi così tanta elettricità da avere bisogno di una centrale elettrica dedicata al 150esimo piano, come ricordato da Jim Krane nel suo ultimo libro.
Perché tutto questo dovrebbe interessarci? Se è semplicistico dire che il cambiamento climatico può provocare le guerre, è però chiaro che la crisi ecologica può acuire quelle in atto e innescare un circolo vizioso in cui le persone colpite dai conflitti sono più esposte agli effetti dannosi sia della crisi ecologica che dei cambiamenti climatici. Inoltre, i conflitti impediscono ai governi di elaborare le strategie di lungo periodo necessarie per fermare o rallentare il cambiamento climatico – o quantomeno rendono molto più difficile sia reperire le risorse necessarie che scegliere di destinare a questo problema le poche disponibili. In presenza di scarsità di risorse, infatti, è ragionevole aspettarsi che i governi utilizzino quelle di cui dispongono per politiche con un impatto immediato sulla popolazione. È qui che scatta il circolo vizioso, perché così facendo i cambiamenti climatici colpiranno in maniera ancora più pesante in futuro.
È importante sottolineare che ciò che abbiamo appena descritto non è una previsione del futuro, ma un’osservazione della realtà attuale. Gli effetti di questo circolo vizioso sono infatti già visibili. Sono sufficienti tre esempi per comprendere come, mentre cerchiamo (giustamente) di trovare fonti energetiche alternative a quelle fossili, sia necessario elaborare un approccio globale alla crisi ecologica.
Il primo caso riguarda la Siria. È stato scritto che i cambiamenti climatici hanno provocato la rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad nel 2011. In realtà non è possibile stabilire un nesso causale diretto tra i due fenomeni (ricercarlo servirebbe quasi ad assolvere il dittatore siriano dalle sue colpe) ed è opportuno analizzare nel dettaglio le insostenibili politiche agricole e idriche del regime siriano, come ha spiegato nel suo recente libro Marwa Daoudy. Al tempo stesso è vero che i cambiamenti climatici hanno svolto un ruolo importante nel causare la siccità che ha colpito la Mezzaluna Fertile prima del 2011. In ultima istanza, ciò ha privato buona parte della popolazione locale dei propri mezzi di sostentamento e l’ha costretta a migrare verso le città in cerca di un’occupazione (che spesso non ha trovato). Di conseguenza la popolazione urbana è aumentata rapidamente creando una delle condizioni favorevoli all’esplosione delle proteste, ovvero la presenza di una massa (ora urbana) scontenta.
La Siria è un caso paradigmatico anche perché mostra come funziona il circolo vizioso che abbiamo menzionato: oggi, infatti, la situazione nel Paese è decisamente peggiorata sia – naturalmente – per effetto degli undici anni di guerra civile, sia perché le pratiche di malagestione e i cambiamenti climatici continuano a farsi sentire. La siccità, infatti, sta di nuovo colpendo la zona nordorientale della Siria e la situazione è aggravata dal fatto che alle scarse precipitazioni si somma la riduzione del flusso del principale fiume della regione (il Khabur, più importante immissario dell’Eufrate), dovuta al controllo dei flussi a nord da parte delle forze alleate della Turchia. Le conseguenze sono paradossali: il fiume viene utilizzato per l’irrigazione dei campi ma il basso livello dell’acqua obbliga gli agricoltori a far funzionare più a lungo le pompe d’acqua alimentate a diesel (il cui prezzo è anch’esso aumentato). Ciò innalza i costi della coltivazione tanto che in alcuni casi i contadini scelgono di lasciare incolti i campi, perché i costi della produzione sarebbero più alti di quanto si potrebbe ricavare vendendo la merce.
Il secondo esempio permette di cogliere quali possano essere le conseguenze della crisi ecologica. Per farlo rivolgiamo lo sguardo più a sud, al largo dello Yemen, nel Mar Rosso: qui si trova la FSO Safer, una superpetroliera con a bordo più di un milione di barili di petrolio che dallo scoppio della guerra è abbandonata al largo del porto di Hodeida con il suo preziosissimo carico. A causa del conflitto tra i ribelli houthi che controllano la zona e le forze sostenute da Emirati Arabi ed Arabia Saudita la nave non è stata manutenuta. Ciò l’ha esposta agli agenti meteorologici che l’hanno danneggiata fino a rendere probabile, in un futuro purtroppo prossimo, un’esplosione o una fuoriuscita del suo carico. Le conseguenze del riversamento in mare sarebbero peggiori di quelle del disastro della Exxon Valdez in Alaska (1989) e devastanti non soltanto per l’ecosistema marino. Con ogni probabilità verrebbe chiuso temporaneamente lo stretto di Bab el-Mandeb, cioè lo sbocco meridionale attraverso cui transitano le imbarcazioni che provengono dal canale di Suez dirette verso l’Oceano Indiano (e viceversa), mentre certamente sarebbe necessario chiudere alcuni impianti di desalinizzazione dell’acqua in Yemen, ciò che aggreverebbe una situazione umanitaria già disastrosa. Complessivamente, se dovesse succedere quello che tutti si augurano non avvenga, si stima che dall’oggi al domani 200.000 persone non avrebbero più accesso ai propri mezzi di sostentamento. In questo caso sarebbero quindi la guerra e l’incuria le cause di un enorme danno ambientale che avrebbe conseguenze pesantissime anche sulla vita delle persone di quest’area.
L’ultimo esempio di cui parliamo evidenzia come comportamenti apparentemente irrilevanti in una zona del mondo possano causare gravi problemi ambientali e conseguentemente sociali ed economici in un’altra area. Il caso è quello descritto dettagliatamente da Harry Verhoeven nell’ultimo numero della rivista Oasis e riguarda le relazioni commerciali tra i ricchi Paesi del Golfo e quelli del Corno d’Africa. Il punto di partenza è un dato singolare: negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita il legno di acacia e quello di mango sono ampiamente utilizzati per produrre la brace necessaria sia per grigliare i cibi che per fumare il narghilè. In particolare in Somalia, a seguito della crisi economica e della guerra che in forme diverse ha investito il Paese dal 1986, la popolazione locale ha trovato conveniente per il proprio sostentamento abbattere questi alberi, il cui legno è peraltro leggero, ciò che ne favorisce il trasporto verso le città costiere di Mogadiscio e Chisimaio, dove viene imbarcato e venduto ai Paesi del Golfo. Questo commercio, dall’entità economica tutto sommato contenuta, ha però almeno tre gravi effetti sulla Somalia: il primo è che in assenza di uno Stato in grado di imporre il proprio controllo sul territorio, il legname viene ripetutamente tassato nel tragitto dalle foreste situate nell’entroterra alle città costiere, non da ultimo dal gruppo jihadista di al-Shahbab, che in questo modo si arricchisce. In secondo luogo, l’esportazione di questo legname tradizionalmente utilizzato per la combustione ha aumentato la povertà energetica locale. Questo “cambio di destinazione d’uso” causa un aumento del prezzo della materia prima che la popolazione locale deve acquistare per scopi domestici. Infine, la deforestazione indotta da questo utilizzo del legname contribuisce all’aumento della temperatura e all’inaridimento del suolo, con l’effetto di rendere più esposte le popolazioni locali sia ai periodi di estrema siccità che al rischio di inondazioni quando dovesse – finalmente – piovere.
Si potrebbero fare moltissimi esempi di questo tipo per diversi Paesi, dall’Algeria all’Iraq, passando per la Turchia e l’Egitto. Tutti mostrano quale sia il contesto nel quale si verificheranno gli “effetti collaterali” della guerra in Ucraina.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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