Interpretare l’attività economica come un insieme di pratiche egoistiche è una riduzione dell’esperienza integrale dell’uomo, del suo “abitare” ed essere “abitato”. Di fronte all’altro i conti vanno fatti con giustizia.
Ultimo aggiornamento: 19/12/2024 09:42:20
Come per ogni altra vicenda umana, anche l’attività economica deve essere collocata, letta ed interpretata all’interno di quella che Cassirer, con felice espressione, definisce «l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza»[1]. Quasi certamente una simile trama non sarà mai del tutto dipanata («L’uomo è un mistero», si continua a ripetere non senza ragione), tuttavia questo non toglie che si debba fare ogni sforzo per tentare di fare chiarezza, un po’ di chiarezza, in un campo che sarebbe un grave errore lasciare nell’ombra dell’approssimazione e del “si dice”. Rispetto al nostro tema un simile rischio è quello che si corre quando ci si abbandona al luogo comune che concepisce l’economia, tutta l’economia ed ogni economia, sempre e solo come l’insieme delle pratiche soggettive di autoaffermazione finalizzate esclusivamente al proprio utile. All’interno di questa visione non è difficile comprendere come “economico” finisca inevitabilmente per trasformarsi in un puro e semplice sinonimo di “egoistico”; come spesso si afferma, l’uomo è per sua natura egoista e l’economia non è nient’altro che la manifestazione sociale di tale evidenza. La verità dell’economia sarebbe pertanto semplicemente l’egoismo.
È un fatto che l’attività economica si metta in azione a partire dal limite e all’interno di una situazione di carenza. Come è noto, il termine italiano “economia” viene dal latino oeconomia, che a sua volta deriva dal greco oiko-nomia, composto di oȋkos (casa, dimora, riparo), e nómos (regolamentazione, norma, legge): l’economia sarebbe la “legge della casa”, quella particolare forma dell’amministrazione che si esercita all’interno di una “casa”. È bene fare attenzione al fatto che qui non partiamo da una definizione ma da una parola, per porci poi la seguente questione: quale esperienza si coagula in questo termine, quale esperienza parla in esso? Iniziamo da nómos; al riguardo non sembra che ci siano dubbi: il termine è l’astratto derivato da némo, “io governo, amministro”; in proposito Benveniste afferma:
La nozione che noi mettiamo qui in luce è quella della spartizione legale, una spartizione esclusivamente codificata dalla legge, dal costume o dalla convenienza, non da una decisione arbitraria. Altri termini in greco significano «dividere»: per esempio datéomai; ma la differenza sta in questo: némō è «dividere secondo la convenienza o la legge». Per questo un pascolo spartito secondo il diritto basato sul costume si chiamerà nomós. Il senso di nómos «la legge» si riporta all’«attribuzione legale». Così némō si definisce in greco come «dividere legalmente» e anche «ottenere legalmente una spartizione» (questo senso persino all’attivo)[2].
Questa interpretazione è preziosa perché subito intreccia la spartizione con l’altro termine in questione, la casa: la spartizione, la suddivisione, la regolamentazione, la divisione, non è qui, in economia, un atto meccanico, naturale, l’esito del caso, della sorte, di un intervento divino, e neppure è il frutto di un atto di forza o di una mera decisione arbitraria, ma è espressione di una «convenienza», di quel «convenire» della «casa» che fin dal principio prende le distanze dalla rigidità e dall’automatismo propri del mondo animale. Prima di approfondire l’esame della natura di una simile «convenienza» soffermiamoci sull’atto del dividere. Quest’ultimo, come già si accennava, si impone sempre in una situazione di carenza. La preda è una mentre i predatori, che insieme l’hanno catturata, sono molti: l’unica preda deve dunque essere suddivisa tra i molti predatori. Inoltre non sempre la preda è a disposizione dei predatori; vi sono dei periodi in cui il cibo è abbondante ed altri in cui è carente: è necessario pertanto, quando il cibo è disponibile, dividerlo e non consumarlo tutto, una parte è bene conservarla per i periodi meno fortunati. Solo un essere finito divide; analogamente solo un bene finito sollecita la divisione: di fronte a un eventuale bene sempre disponibile e disponibile sempre in abbondanza non vi è alcuna necessità di dividere. Anche gli animali dividono e conservano, anch’essi con intelligenza cercano di fare “economia” dei beni, sempre carenti, presenti all’interno del loro ambiente.
La consapevolezza del limite
Emerge tuttavia a questo livello, precisamente all’interno dell’atto generale del dividere, una prima differenza essenziale tra quel vivente particolare che è l’uomo e tutti gli altri viventi. In effetti, ogni vivente è finito e mortale, ma solo l’uomo sa con estrema lucidità di esserlo. Ora, il profondo e drammatico sapere umano relativamente al limite è proprio ciò che attiva una delle sue attività più specifiche e intense: il misurare, il calcolare, il progettare, il pianificare, l’organizzare, l’ottimizzare, l’amministrare, per l’appunto il “fare economia”. È perché l’uomo sa con chiarezza di essere finito e mortale, è perché questo sapere non lo abbandona mai un istante, è perché esso appartiene drammaticamente al suo stesso modo d’essere, ch’egli si trova coinvolto, con una forza e una determinazione senza pari, in quel dividere che si esprime nel misurare e nel calcolare. L’uomo, dunque, per sua natura misura e calcola. Misurare/calcolare è il senso originario di ratio:
Nelle civiltà classiche, questa operazione [l’addizione] è condotta secondo un modello diverso dal nostro. Si faceva il conto dei numeri sovrapposti non come facciamo noi dall’alto in basso, ma dal basso in alto, fino ad ottenere quella che si chiamava la summa, cioè la “cifra che sta sopra”. Ecco perché diciamo ancora la somma per indicare il totale. In sumptus ducere abbiamo dunque questa rappresentazione e ducere ha il suo significato originario di “tirare”. Si “tira” la serie delle cifre dal basso in alto fino a raggiungere il totale. Questo è confermato da un’espressione del tutto classica: rationem ducere “fare un conto”. Ratio è il termine tecnico per “conto, calcolo”. Abbiamo quindi un punto di partenza: è l’atto di contare come lo si praticava materialmente e per iscritto. Non è necessario che una civiltà giunga a uno stadio molto avanzato perché questi termini assumano importanza: anche in una civiltà rurale, i conti del proprietario sono un elemento essenziale dell’amministrazione […]. La computazione stessa, il calcolo, è un’operazione che condiziona in generale le operazioni del pensiero[3].
L’uomo come calcolo e misura
Siamo qui in presenza di uno degli snodi essenziali della «aggrovigliata trama dell’umana esperienza»: l’uomo divide, calcola e misura, intensamente, continuamente, investendo ogni ambito della sua vita e di quella degli altri, proprio perché vive con altrettanta intensità, talvolta persino in modo esasperato, il limite che affligge tutto ciò che esiste. È questo il primo tratto fondamentale che bisogna trattenere: l’uomo è in sé calcolo e misura, egli è in sé un essere economico. È pertanto un’autentica ingenuità credere che l’economia abbia a che fare solo con i cosiddetti “beni materiali”, mentre quelli cosiddetti “spirituali” godrebbero, per il fatto stesso di essere tali, della superiore proprietà della gratuità. Ha pertanto assolutamente ragione Benveniste quando, chiudendo la sua analisi dei termini relativi al mondo dell’economia, afferma:
Quando si pensa che le nozioni economiche siano nate da bisogni materiali che bisognava soddisfare, e che i termini che rendono queste nozioni non possono avere che un senso materiale, ci si sbaglia grossolanamente. Tutto ciò che si riferisce a nozioni economiche è legato a rappresentazioni molto più vaste che mettono in gioco l’insieme delle relazioni umane o delle relazioni con la divinità; relazioni complesse, difficili, di cui le due parti sono sempre implicate[4].
È necessario compiere ora un secondo passo. Si tratta infatti di far emergere la specificità del «dividere» che qualifica il gesto economico. Benveniste ha sottolineato che «némō è “dividere secondo la convenienza o la legge”». Di quale «convenienza» si tratta? A tale interrogativo bisogna rispondere: di quella relativa alla casa, della divisione che con-viene, che si allinea, che converge, che si adegua, che si conforma all’ordine e alla ratio della casa. E quale sarebbe una simile ratio? Benveniste osserva che il senso del greco oȋkos, l’altro termine di cui è composta la parola economia, pare essere ben espresso dal latino domus che soprattutto in questo caso, per l’appunto in economia, deve essere chiaramente distinto dal greco domos:
Se esaminiamo il nome della «casa», non tardiamo ad osservare che domus in latino e domos in greco, che sembrano, se si eccettua la differenza morfologica dei temi (lat. -u- gr. -o-) coincidere completamente, sono per molti aspetti diversi nei loro usi lessicali. In Omero, domos è accompagnato da epiteti descrittivi; la casa è «grande, alta, ben costruita, larga»; il domos comporta un vestibolo che è chiamato prodomos «parte anteriore del domos». Niente di simile in latino in cui domus non ammette nessuna qualificazione materiale e non designa mai un edificio. Inversamente, domus significa sempre «casa» nel senso di «famiglia», il che è completamente estraneo al greco domos. […] Tutti questi tratti caratterizzano domus come nozione familiare, sociale, morale, per nulla materiale […]. L’oȋkos è costituito dal condividere ogni giorno nutrimento e culto[5].
Evidentemente è necessario non cadere nella trappola di trasformare il riferimento alla «famiglia» in una sorta di formula magica capace di dissolvere ogni mistero sulla natura dell’attività economica. Sarebbe infatti un grave errore credere di poter stabilire una perfetta sovrapposizione tra le questioni pubbliche relative all’economia e le questioni private relative alla famiglia. D’altra parte, pur riconoscendo la legittimità di tale perplessità, sarebbe un grave errore lasciarsi sfuggire il senso a cui con insistenza la «famiglia» allude proprio in merito al particolare tipo di divisione e calcolo (ratio) di cui la «casa» sarebbe il luogo. Non si tratta, dunque, di sacralizzare una certa istituzione, o di proiettare nell’assoluto una determinata esperienza storica, ma di tentare di leggere e interpretare il tipo di relazione messa in scena nella famiglia e come famiglia. Ora a me sembra che quest’ultima si configuri con chiarezza come la scena all’interno della quale si celebra un dramma che ha sempre a che fare con l’alterità (con l’unicità dell’altro) e con la giustizia (come comportarsi con l’unico e con la molteplicità degli unici?). Seguiamo dunque l’insistente rinvio che dalla “casa” conduce al “sociale”, al “morale” e al “religioso”. La nostra questione, quella filosofica per eccellenza, è pertanto la seguente: quale è la ratio della “casa”? O anche: di quale ratio, di quale divisione, calcolo e misura, ci parla una “casa”? Per tentare di rispondere a tali interrogativi è necessario che la riflessione rischi ora un passo che non può più essere dettato dalla mera indagine etimologica.
La tesi che vorrei sostenere è la seguente: il rinvio al sociale, al morale e al religioso non è comprensibile al di fuori dell’esperienza umana, che è sempre una «esperienza d’alterità». In estrema sintesi: tutto ciò che esiste è in relazione con l’altro, ma solo l’uomo fa «esperienza dell’altro» come altro, vale a dire come ciò che non è riducibile a sé, come l’eccedente rispetto a sé, come ciò che si sottrae a ogni relazione di potere e di sapere che il singolo soggetto è in grado di mettere in atto nei confronti di tutto ciò che incontra. L’uomo non è semplicemente un vivente “molto intelligente”, ma è quel vivente dotato di un’intelligenza dell’“altro”, non solo problem solving, quell’“altra” intelligenza che è la ragione stessa.
L’uomo come abitante abitato
Si può ora precisare che l’uomo abita nella “casa”; o meglio: che la “casa” è il luogo in cui egli «coltiva e custodisce»[6], non l’esistenza o la vita in generale, ma la sua stessa esperienza in quanto esperienza d’alterità: la “casa”, pertanto, è il luogo antropologico per eccellenza. In conclusione: se, come afferma Heidegger, «il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Bauen, l’abitare», se l’uomo in quanto uomo «è in quanto abita»[7], allora l’uomo abita in quanto è fin dal principio abitato: l’uomo è un abitante abitato[8].
Il riferimento alla famiglia e alla “casa”, e più in generale all’abitare secondo la forma dell’abitante/abitato, è ciò che ci permette di comprendere come il soggetto si prenda cura di sé e dell’esistenza in generale cercando in ogni modo di governare l’equilibrio tra la determinazione del “qui” e l’indeterminabilità del “là” che convivono all’interno della sua stessa esperienza. È precisamente in un simile governo che bisogna riconoscere la “legge della casa” (oiko-nomia) alla quale il soggetto obbedisce sia ordinando (la ricerca dell’equilibrio esige il calcolo e la misura, la comparazione e la suddivisione, cioè l’amministrazione), sia approfondendo la consapevolezza secondo la quale egli non potrà mai concretamente ordinare se non a partire dal riconoscimento di quella alterità che, restando irriducibilmente altra, sfugge ad ogni calcolo e ad ogni sapere imponendosi sempre come un irriducibile disordine. Dunque – ecco l’aprirsi della drammatica scena umana – c’è altro, c’è dell’altro, c’è dell’incalcolabile. L’uomo è così chiamato dal suo stesso modo d’essere a tener conto di ciò che sfugge a ogni conto.
Al sapersi finito e mortale più sopra sottolineato bisogna così aggiungere – si tratta del secondo nodo fondamentale che si trova lungo il filo dell’economia – il sapere di non sapere. Questi due saperi sono all’origine di quel tipo di calcolo – lo ripeto: laddove si tratta sempre, e a un tempo, di misura e dismisura, di ordine e disordine (l’ordine dell’altro), e soprattutto dell’uno attraverso e con l’altro – che definisce la ratio stessa di ciò che si chiama economia. Questa è la verità dell’economia: c’è calcolo e misura, non si può evitare di calcolare e misurare, ma al tempo stesso l’uomo è chiamato a calcolare e misurare tenendo presente e vivo l’incalcolabile e l’innumerabile. L’esperienza umana, che è strutturalmente aperta all’altro, che fin dal principio è abitata e messa in disordine dall’eccedenza dell’altro, e che proprio per questa ragione è destinata all’economia, sollecita dunque una ratio capace di misurare e dividere secondo un “tutt’altro conto”.
A questo “tutt’altro conto”, quello a cui l’economico in quanto tale si trova destinato, non bisogna temere di dare il nome che merita: giustizia. Il “conto” in cui è impegnata la giustizia all’interno di una “casa” deve essere qualificato come “tutt’altro” proprio perché esso, pur tra mille difficoltà ed incertezze (si tratta sempre di un dramma), tenta di tener conto dell’altro, della molteplicità degli altri; o anche: ogni qualvolta il soggetto tenta di tener conto dell’altro e della molteplicità degli altri (delle loro esigenze, aspettative, ma anche dei loro sogni, limiti, debolezze, paure, ecc.) egli abita da uomo e calcola secondo giustizia.
Il calcolo economico, dunque, resta senza alcun dubbio un “calcolo” (mentre il dono, ad esempio, è per sua natura al di qua o al di là del calcolo), anche se poi in quanto “economico” esso non può mai essere semplicemente un mero calcolo. Ecco il punto essenziale, spesso misconosciuto: l’economia deve calcolare, non può e non deve evitare di calcolare, ma deve farlo non matematicamente, bensì economicamente, vale a dire in ordine ad una “giustizia” (come essere giusti con l’unico? Con la molteplicità degli unici?) che in quanto tale non può mai essere appiattita sulla legge e risolta nel rispetto di una norma generale.
Coltivare e custodire
L’obiezione che si è soliti rivolgere a quanto fin qui sostenuto è nota: l’economia reale non sarebbe quella descritta; in verità, come si è accennato all’inizio, l’economico si risolverebbe necessariamente nell’egoistico e in pratiche di mera appropriazione. Questa interpretazione è il frutto di una radicale semplificazione. Come è ovvio, essa ha le sue profonde ragioni. Riprendendo i termini più sopra introdotti, si deve riconoscere con la massima sincerità che l’uomo rischia costantemente di abitare non come abitante/abitato ma come semplice abitante, o anche: non come colui che è chiamato a «coltivare e custodire» ma come colui a cui conviene solo «coltivare». All’origine di una tale convinzione va posto proprio quel sapersi finito e mortale sul quale ho insistito fin dall’inizio. Un tale sapere, esclusivo dell’uomo, rischia infatti di compromettere l’esercizio stesso della sua ragione. La profonda consapevolezza del limite e della propria mortalità, rischia di ottenebrare il soggetto spingendolo, sotto il dominio della paura, a preoccuparsi solo di sé, a convincersi di doversi preoccupare solo della propria sopravvivenza ed eventualmente di quella dei più prossimi. Non è certo per caso che a questo livello, a livello umano e solo a livello umano, il dividere, calcolare e misurare rischino costantemente di trasformarsi in un’autentica passione, in una hybris del tutto cieca e alla fine distruttiva.
All’interno dell’attività economica tale trasformazione è quella che conduce a ciò che si deve definire business. Nel business il soggetto non si occupa più dell’abitare (giudicato un’inutile complicazione filosofica), si disinteressa della complessa articolazione della “casa” (dichiara di non vedere le alterità che la abitano) e di conseguenza rimane insensibile all’esigenza della giusta misura che si agita al fondo dell’economia. Il business perverte la natura della convenienza che muove l’economia ed evolve in un’attività compulsiva e frenetica che non ha più tempo e interesse per l’abitare in quanto tale: esso rompe il legame essenziale tra il coltivare ed il custodire che anima la cura dell’abitare, convogliando l’intera attività del soggetto solo sul coltivare (il guadagno) e rendendo il soggetto stesso sordo ed indifferente ad ogni altro e a tutti gli altri.
Bisogna affermarlo con forza: l’economia non è il business. L’uomo è infatti capace di non farsi schiacciare dal sapere di essere finito e mortale, è capace di non abbandonarsi alla paura che nasce con questo sapere. L’uomo, e in questo preciso senso solo lui, è dunque capace, certo pur tra mille difficoltà, incertezze ed errori, di «fare economia», nel suo doppio imperativo: misurare e calcolare (l’uomo non può mai procedere a caso: necessita di una ratio), ma al tempo stesso riconoscere che il proprio calcolo (la sua ratio) è destinato a misurarsi con l’incalcolabile.
[Questo articolo anticipa parte del volume Elogio dell’uomo economico di prossima pubblicazione per i tipi di Vita&Pensiero]