Rivoluzione, colpo di Stato o riforma: cosa c'è dietro Piazza Tahrir? La risposta non può prescindere da una valutazione del peso delle forze armate nella vita politica del Paese. Un ruolo giocato spesso nell'ombra.
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 09:51:52
Due sono le provenienze degli ufficiali dell’esercito egiziano prima del 1936: l’accademia militare, i cui criteri d’ammissione sono legati al censo e il cui accesso è ristretto e difficile, e la truppa. Gli ufficiali venuti dalla truppa sono spesso poco istruiti e di origini molto modeste. Le cose cambiano nel 1936, in seguito al trattato anglo-egiziano, quando viene intrapreso un grande sforzo di modernizzazione. L’accademia militare rende più democratiche le condizioni di ammissione, aprendo le porte ai diplomati provenienti dalle classi medie, senza naturalmente chiuderle a quelli appartenenti ai ceti superiori. Questa democratizzazione dell’accademia si accompagna a una diminuzione del fenomeno degli ufficiali provenienti dalla truppa. A partire dalla seconda metà degli anni ’40 il servizio militare obbligatorio diverrà universale. Un’importante minoranza dei cadetti che hanno beneficiato di questa serie di promozioni manifesterà un certo interesse per gli affari politici, interesse che si accrescerà dopo la disastrosa campagna di Palestina del 1948. Un’organizzazione semi-clandestina che riunisce ufficiali dalle sensibilità politiche differenti intorno a un programma comune prenderà il potere nel luglio 1952 e fonderà un nuovo regime autoritario.
Da quel momento tutti i presidenti – Naguib, Nasser, Sadat e Mubarak – provengono dall’esercito. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, sotto la presidenza di Nasser, la democratizzazione nell’ammissione all’accademia viene molto accentuata. Nasser crede che i giovani appartenenti alle classi svantaggiate siano più fedeli al regime a tendenze socialiste che egli dirige. Nonostante un reale sforzo da parte delle autorità, è comunque probabile che il corpo sia restato maggioritariamente espressione delle classi medie, caratterizzate da una migliore salute fisica, in possesso di un buon bagaglio culturale e di reti sociali influenti. Sotto Sadat e Mubarak si tentano di ristabilire dei “censi nascosti” – per esempio esigendo che i genitori del cadetto siano diplomati. Anche in questo caso l’inversione di tendenza nasseriana è relativizzata da altri fattori.
I regimi si susseguono e non si somigliano. Sotto Nasser predominano l’esercito e i militari: i settori chiave dell’apparato di Stato (inter alia presidenza, servizi di sicurezza, consiglio dei ministri, governatorati, assemblea legislativa, poteri locali, diplomazia, federazioni sportive, affari religiosi e, in misura inferiore, le imprese nazionalizzate) e del partito unico sono comandate da militari “in borghese”. L’esercito (in quanto istituzione) diventa invadente: prende in mano la gestione dei trasporti pubblici della capitale e crea la propria scuola di ingegneri e, più lentamente, la propria industria di armamenti e altre fabbriche di beni di consumo e di equipaggiamento.
La sconfitta del 1967, la guerra d’usura, l’accesso di Sadat alla presidenza e la denasserizzazione che ne consegue cambiano le carte in tavola. L’esercito deve tornare a concentrarsi sullo sforzo bellico. Poco a poco i militari a capo dell’esecutivo, della diplomazia e nel parlamento, pur senza sparire del tutto, si fanno più rari: nell’insieme sono una minoranza tra le altre, nonostante siano largamente presenti nei gabinetti ministeriali, tra i governatori e nel settore pubblico che gestisce le acque, i trasporti, i lavori pubblici, i media. I militari che abbandonano l’esercito possono intraprendere una carriera tanto nel settore privato in piena fioritura quanto in quello pubblico. Sadat, pur consolidando il suo monopolio sulla decisione politica, cura che il suo successore sia un militare, mantiene sempre il nesso con il corpo degli ufficiali moltiplicando gli incontri formali e informali con piccoli o grandi gruppi di ufficiali, autorizza lo sviluppo del “braccio economico” dell’esercito, dell’industria degli armamenti e migliora le condizioni materiali del corpo.
Queste tendenze si conservano o accentuano nei primi anni della presidenza di Mubarak, in particolare quando il popolare maresciallo ‘Abd al-Halîm Abû Ghazâla svolge le funzioni di ministro della Difesa (1981-89). Dopo il pensionamento di quest’ultimo, il dispositivo conosce qualche aggiustamento in seguito alle ristrettezze di bilancio della fine degli anni ’80 e alla priorità accordata allo sviluppo delle funzioni del Ministero dell’Interno. Fino ad alcuni anni fa gli ufficiali dell’esercito erano relativamente mal pagati (non crediamo che la situazione sia cambiata, ma non disponiamo di informazioni più recenti). Secondo le informazioni disponibili in internet[1], lo stipendio di un giovane ufficiale alla fine del 2007 oscillava tra le 700 e le 1000 lire egiziane: superiore a quello degli altri impiegati statali, ma pur sempre insoddisfacente. La progressione stipendiale era relativizzata da un ritmo di promozione ai gradi superiori più lento. La griglia salariale era tale che la differenza tra generale e brigadiere era immensa e quella tra brigadiere e colonnello notevole.
L’ultimo decennio di Mubarak
Mi sembra si possa affermare che, a partire da Sadat, i rapporti tra l’esercito e il capo dello Stato siano stati retti da una sorta di accordo collusivo. L’esercito accettava di restare dietro le quinte, di sottomettersi al potere civile, di essere l’esercito dello Stato (e non il contrario), fintantoché il vertice dell’esecutivo era occupato da un militare in borghese[2]. È a questo accordo collusivo che il Presidente Mubarak ha cercato di mettere fine con il tentativo di fare del figlio il candidato alla successione (le sue ultime smentite non devono indurre in errore su questo punto: questo progetto è stato esplicitamente pianificato e avviato a realizzazione).
Peggio ancora, il figlio di Mubarak, i suoi alleati e clienti hanno cominciato a smantellare il “modello economico-sociale” nasseriano[3] , che era stato oggetto solo di alcuni aggiustamenti da parte dei presidenti Sadat e Mubarak. Tale modello si proponeva quattro obiettivi: l’irrealizzabile sogno dell’autarchia, che avrebbe dovuto permettere all’Egitto di produrre di tutto, dall’«ago al missile», e che aveva per corollario o per conseguenza un dispositivo in cui gli introiti dei settori in attivo venivano prelevati per finanziare i settori in perdita considerati strategicamente necessari; mantenere i settori chiave dell’economia – definiti molto vagamente – nelle mani degli egiziani, evitando che finissero sotto il controllo del capitale straniero; produrre il maggior numero di beni di consumo e di attrezzature a prezzi moderati, accessibili al maggior numero possibile di egiziani; fornire posti di lavoro e reti di sicurezza a molti membri delle classi medie e della piccola borghesia. Questo dispositivo era stagnante, arcaico, minato da una bassa produttività, dalla corruzione e da una centralizzazione grottesca.
L’esercito aveva un interesse oggettivo a salvaguardarlo. Ai suoi occhi, tutti gli obiettivi e le funzioni di questo dispositivo erano cruciali. Ad esempio, gli ufficiali sono salariati che hanno bisogno di beni di consumo a prezzi moderati. Il desiderio di indipendenza economica è sempre vivo e la diffidenza verso il grande capitale ugualmente grande. È sempre difficile estrapolare considerazioni generali a partire da conversazioni a ruota libera con ufficiali, il più delle volte in pensione, tuttavia credo che il corpo degli ufficiali sapesse che questo modello doveva essere riformato e che si fosse rassegnato all’idea di un’economia a due o tre velocità, con settori dinamici sempre meno paralizzati da una “solidarietà” con quelli più statici. Non essendo un economista, non posso dire se quel modello potesse essere riformato – penso di no. Resta il fatto che è stato in gran parte smantellato e in condizioni scandalose. In un primo tempo l’esercito è restato a guardare dubbioso, domandandosi se le riforme avrebbero permesso una modernizzazione che auspicava, e a quale costo. Successivamente ha moltiplicato i gesti d’insofferenza, sempre più plateali dopo le modifiche costituzionali del 2007 che avevano, tra gli altri obiettivi, quello di privarlo di qualunque diritto di controllo sulla successione del Presidente.
L’esercito era considerato sicuro e i regimi arabi avevano la fama di aver acquisito una certa abilità nella prevenzione dei colpi di Stato. Il maresciallo Tantawi, in carica dal 1991, era stato incaricato di contrastare le eventuali infiltrazioni da parte di islamisti e jihadisti. Dopo il tentato assassinio di Mubarak presso la base aerea di Sidi Barrani all’inizio degli anni ’90, nulla lasciava pensare a un pericolo in seno ai ranghi militari. Le selezioni per l’ammissione all’accademia militare e la sorveglianza sul corpo degli ufficiali, in particolare sui gradi intermedi (comandanti e colonnelli), sono rigorose. Se un ufficiale o uno dei suoi parenti frequenta una moschea o una libreria sospetta, è immediatamente scartato. Il regime ha sempre fatto sapere ai Fratelli Musulmani che l’esercito è una linea rossa da non oltrepassare. Nello stesso senso, la guardia presidenziale era stata rafforzata e il Consiglio Supremo delle Forze Armate strutturato in modo da rendere difficile la cooperazione tra gli ufficiali di grado superiore (il Consiglio poteva riunirsi solo su convocazione del Presidente, è formato da una ventina di membri, buona parte dei generali non rispondono direttamente al capo di Stato maggiore etc.). Le norme che disciplinano il coordinamento delle truppe e la trasmissione delle istruzioni rendevano ancora più complicata la messa in campo delle truppe, e quattro organismi differenti ‒ Direzione delle informazioni, polizia militare, Mukhâbarât, sicurezza di Stato ‒ sorvegliavano vie e piazze strategici.
Il Presidente non si accontentò di questo dispositivo; dopo tutto si sapeva che il Consiglio Superiore delle Forze Armate avrebbe avuto, almeno temporaneamente, le “chiavi del regno” in caso di scomparsa improvvisa del Presidente[4] e de facto il diritto di veto su ogni candidato. Dall’inizio dell’ultimo decennio Mubarak ebbe cura di nominare ai posti chiave dei buoni professionisti, “i migliori dei migliori”, secondo una tabella di marcia che si può riassumere in una parola: innalzamento del livello di preparazione delle forze armate. Ufficiosamente, in seguito al fallimento del processo di pace e all’inizio della seconda Intifada, si temeva che il conflitto armato tra Gaza e Israele potesse estendersi anche al Sinai. La vera ragione tuttavia sembra condensarsi nel calcolo seguente: i buoni professionisti non s’interessano alla politica. Questo disinteressamento doveva contribuire ad aprire la via presidenziale a Gamal Mubarak. Quest’ultimo tentò di visitare delle unità e si fece invitare all’Accademia Nasser, dove fu accolto molto bene. Tuttavia oggi sappiamo che i suoi sforzi sono stati vani.
Il veto dei militari
Dal 2007 al 2010 la questione cruciale dell’atteggiamento dell’esercito e delle Mukhâbarât verso il “piano di trasmissione ereditaria del potere” tormenta cancellerie e ricercatori. Non si può non constatare che il comando dell’esercito accoglie molto male la politica di privatizzazione, almeno per come viene applicata, ma anche le riforme costituzionali del 2005 e del 2007 che lo escludono “definitivamente” dal gioco politico senza delineare un minimo progetto di transizione democratica. Soprattutto nel 2007 l’esercito moltiplica i segni di malumore.
Dall’inizio dell’estate 2010 le cose diventano più chiare. Le confidenze raccolte nei circoli politici e intellettuali così come quelle fatte a beneficio degli interlocutori stranieri lasciavano intendere che l’esercito avesse informato o si preparasse a informare il Presidente del “veto” sulla trasmissione del potere al figlio, sostenendo che la mossa sarebbe risultata molto impopolare tra i giovani ufficiali. L’esasperazione per gli scandali finanziari e l’ostilità nei confronti di Gamal erano altresì ben palpabili.
Il comportamento, la strategia e le prese di posizione dell’esercito durante la rivolta egiziana di gennaio-febbraio 2011 sono oggetto di una «guerra di racconti», per quanto spesso ovattata. La versione del CSFA [Comitato Supremo delle Forze Armate] e dei suoi difensori[5] afferma che l’esercito si è schierato fin dal primo giorno a favore dei manifestanti e del popolo. Grazie alle sue numerose “antenne” all’interno della società e dello Stato[6] l’esercito sapeva che la collera stava montando e si aspettava un anno di torbidi. Aveva elaborato degli scenari, dando per scontato l’annuncio della candidatura di Gamal Mubarak alla presidenza e una reazione molto violenta del popolo a tale annuncio. Durante la rivoluzione l’Alto Comando si è fermamente rifiutato di aprire il fuoco sulla folla, attirandosi la collera del clan presidenziale. Questa versione ricorda che il comunicato dell’esercito del 31 gennaio, detto “Comunicato del lam wa-lan”, è stato decisivo: esso affermava che l’esercito non aveva mai (lam) aperto il fuoco sul popolo e mai lo avrebbe fatto (lan), e dichiarava legittime le richieste del popolo. Si sottolinea che il comando dell’esercito ha corso grossi rischi, spesso sottovalutati: dopo tutto il clan presidenziale avrebbe potuto manovrare meglio e forse avrebbe potuto invertire il corso degli eventi (perlomeno prima del 2 febbraio). Se avesse vinto, quanti avevano rifiutato di appoggiarlo l’avrebbero pagata a caro prezzo.
Dal canto loro i critici dell’esercito sostengono che il gioco dell’esercito sia stato molto più ambiguo di quanto questo sia disposto ad ammettere oggi, che si è accontentato in un primo momento di ottenere dal Presidente la destituzione degli uomini di Gamal Mubarak e l’insabbiamento (temporaneo?) del progetto di trasmissione ereditaria. Peggio ancora, il suo comportamento nel giorno della battaglia “del cammello” (il 2 febbraio, giorno in cui 3000 sicari del partito al potere hanno attaccato i manifestanti di Piazza Tahrir) è stato oggetto di severe critiche. Alcuni video sembrano mostrare degli ufficiali che lasciano passare gli assalitori e in seguito l’esercito non ha fatto nulla per proteggere i manifestanti. In quest’ottica, il comando dell’esercito ha preteso le dimissioni di Mubarak solo perché non aveva altra scelta o perché sapeva che il Capo dello Stato si apprestava a destituire Tantawi, il capo delle mukhâbarât Muwâfî e altri membri del CSFA[7].
Ci vorrà un po’ di tempo per conoscere la verità, ma essa è probabilmente molto più complessa di quanto i due racconti lascino intendere. La sera del 25 gennaio, dopo il primo giorno di grandi manifestazioni, nessuno sa ancora che è in corso una rivoluzione. L’esercito non può appoggiare una rivoluzione che ancora non esiste. Nella migliore delle ipotesi si sa che ci sarà una forte scossa che può durare diversi giorni. Secondo una testimonianza[8] pubblicata sul sito web di un quotidiano egiziano, il comando, in quel momento, fa circolare al suo interno un piano di «dispersione delle manifestazioni», presumibilmente messo a punto alcuni mesi prima. I giovani ufficiali fanno sapere che si rifiutano in blocco di sparare sul popolo e l’informazione risale fino ai vertici che decidono di tenerne conto. Suppongo che questa pseudo-fuga di notizie sia stata un test o una sorta di sondaggio deliberatamente voluto dall’Alto Comando, che si è dotato in tal modo dei mezzi per “dire no” al Presidente, dotandosi di un “parere negativo” della base.
La sera di venerdì 28 gennaio, quarto giorno di una protesta che assumeva dimensioni sempre più ampie, l’esercito scende nella capitale per occupare i luoghi strategici. Il Presidente, che aveva sempre voluto evitare l’amaro calice, deve fare appello all’esercito – terribile confessione di debolezza, tanto più che per oltre vent’anni Mubarak aveva scelto di sviluppare considerevolmente le forze del Ministero dell’Interno proprio per evitare di dipendere dall’esercito. In cambio fa sacrificare suo figlio e gli alleati di quest’ultimo e nomina un vice-presidente militare, seppellendo così i piani di trasmissione famigliare del potere.
Le consegne date alle truppe possono sorprendere ma sono logiche: preservare gli edifici pubblici, non sparare sulla folla. In altri termini, istruzioni conformi alla vocazione dell’esercito e al suo ethos e quindi volte a evitare il dissenso e le divisioni interne. Numerose testimonianze e versioni ufficiose lasciano intendere che l’Alto Comando ha esplicitamente rifiutato istruzioni presidenziali che esigevano la “pulizia violenta” di Piazza Tahrir.
All’inizio l’esercito osserva una stretta neutralità, anche se le dichiarazioni di lunedì 31 gennaio in cui si afferma che non avrebbe mai sparato sui manifestanti, equivalevano, più o meno consapevolmente, a invitare la popolazione a scendere in piazza senza timore. Un giornalista vicino alle Mukhâbarât afferma che l’Alto Comando fu sconvolto dal discorso presidenziale del 1° febbraio[9]. Mubarak – lo ricordiamo – fece abbastanza concessioni da dividere i manifestanti e riuscì a commuovere tutti. Agli occhi dei generali e di altri osservatori questo discorso era chiaramente una manovra per guadagnare tempo e il suo successo (molti egiziani, ritenendo di aver vinto la partita, tornarono a casa) era inquietante per quanti si erano rifiutati di obbedire. Ma il clan presidenziale fece male i conti. Invece di aspettare o tentare di organizzare delle manifestazioni di sostegno, mercoledì 2 febbraio mandò 3.000 sicari e cecchini contro i 10.000 manifestanti che erano rimasti in Piazza Tahrir.
Quando i manifestanti annunciarono che avrebbero tentato di prendere il controllo degli edifici pubblici e che gli scioperi si sarebbero diffusi in tutto il paese, il Consiglio Supremo delle Forze Armate si riunì senza l’autorizzazione del Presidente, annunciò che aveva ormai assunto la gestione degli affari e spinse Mubarak a uscire di scena. Il comunicato numero tre del Consiglio rendeva un vibrante omaggio ai martiri delle rivoluzione e il generale Fanjari fece il saluto militare ai caduti, commuovendo l’opinione pubblica.
Non penso che le pressioni americane abbiano avuto molta incidenza sul comportamento dell’esercito durante la crisi. Sappiamo, tramite Wikileaks, che Washington non ha mai ottenuto la ristrutturazione dell’esercito (diminuzione degli effettivi e acquisizione di una capacità di proiezione) che il governo americano auspicava. Non si vede perché l’esercito avrebbe dovuto correre il rischio di perdere lo status di difensore dello Stato e di istituzione rispettata per proteggere un Presidente giunto al capolinea e un clan di uomini d’affari altrettanto impopolari. Con o senza le pressioni americane, credo che il comportamento sarebbe stato lo stesso.
Il naufragio di un patto
Tre punti devono essere sottolineati. Da un lato, l’11 febbraio l’esercito era l’istituzione di gran lunga più rispettata del Paese. La sua condotta nella guerra del 1973 è motivo di orgoglio, passa per essere un’istituzione legale-razionale e, allo stesso tempo, una grande famiglia. È considerato l’istituzione meno corrotta e più legata all’interesse nazionale. Ha saputo convincere l’opinione pubblica che i suoi interessi sono potenzialmente quelli di tutti. Per esempio, l’esistenza di un impero economico “militare” che fa concorrenza alle grandi aziende private era percepita come necessaria per far abbassare i prezzi e impedire la nascita di monopoli privati che impongono la loro legge – anche se questo non è sempre vero perché talvolta l’esercito può cedere alle medesime tentazioni monopolistiche. Ma questa popolarità, che di solito è una grande risorsa, può costituire un vincolo. Peggio ancora, nei sei mesi che hanno seguito la caduta di Mubarak tale popolarità si è molto ridotta, pur restando significativa: per via dell’indebolimento materiale e morale della polizia, l’esercito ha dovuto coinvolgersi maggiormente nel mantenimento dell’ordine e nella repressione senza però ottenere risultati soddisfacenti.
Ansioso di stabilizzare la situazione e salvaguardare l’autorità dello Stato, l’esercito ha spesso dato l’impressione di frenare le riforme o di concederle solo sotto la pressione dalla folla e con riluttanza. I conservatori e il “partito dell’ordine” gli rimproverano gli scarsi risultati in fatto di sicurezza, gli industriali la politica economica e i rivoluzionari il conservatorismo. Le percezioni degli attori sono molto ingiuste e sottovalutano le enormi difficoltà dovute alla fluidità e alla novità della congiuntura, ma sono un fatto sociale e politico che non può essere trascurato.
D’altra parte, nei primi mesi molti osservatori credevano che l’esercito e gli islamisti avessero concluso un patto o un accordo.Essi basavano questa loro supposizione su diversi elementi: la presenza di islamisti nel comitato di giuristi incaricato di preparare le revisioni costituzionali mentre le altre forze politiche non vi erano rappresentate; la definizione di un’agenda politica fondata su una sequenza legislative prima, costituente nominata dal Parlamento poi, infine presidenziali, in un lasso di tempo molto ristretto, riconosciuta come ampiamente conforme agli interessi dei Fratelli Musulmani, e infine diverse misure molto conservatrici. L’auto-limitazione dei Fratelli che promettevano di non presentare candidati alla presidenza confortava quest’analisi. Non si sa con certezza ciò che è accaduto nei giorni che separano la partenza di Mubarak e il referendum sulle modifiche costituzionali, ma sembra comunque che quest’analisi debba essere piuttosto sfumata. È chiaro che il Consiglio Supremo delle Forze Armate aveva un interesse oggettivo a stabilizzare rapidamente la situazione e aveva bisogno di compiere dei gesti per convincere i Fratelli che collaborare, almeno su alcuni punti, era meglio della politica del “tanto peggio, tanto meglio”. Tuttavia, alla luce delle informazioni o meglio, dei frammenti di informazione che filtrano, parlare di patto o accordo è un’esagerazione. I Fratelli sembrano “aver proposto la loro collaborazione”. Il CSFA ha chiesto il parere di giuristi prestigiosi appartenenti al movimento islamista democratico, i quali hanno consigliato di esplorare questa pista e pare abbiamo descritto i Fratelli come “moderati”, o comunque più moderati di quanto siano realmente. Ma da una parte i militari hanno scoperto che anche il campo non islamista era capace di mobilitare folle considerevoli e dall’altra devono essersi irritati per “gli sgambetti amici” che i Fratelli non hanno loro risparmiato[10]. Infine su almeno due punti (la politica internazionale dell’Egitto e il principio di cittadinanza) le concezioni dei due campi si sono rivelate difficili, se non impossibili, da conciliare. Al più tardi a partire dallo scorso maggio il CSFA si è sforzato di ottenere dalle differenti forze politiche un accordo sui principi generali della Costituzione, ciò che è considerato da tutti come una neutralizzazione delle tentazioni teocratiche dei Fratelli e dei salafiti.
In definitiva, per il momento penso che la “preservazione” degli “interessi economici dell’esercito” non giochi un ruolo così grande nei calcoli del Consiglio Supremo delle Forze Armate e non credo che qualcuno in Egitto inserirà la questione nel suo ordine del giorno. Si protegge solo ciò che è minacciato. Ammettiamo pure che in questo periodo di incertezze tutti gli attori abbiano paura, a ragione o no. Si può spiegare l’atteggiamento del comando dell’esercito con il desiderio di proteggere i propri interessi economici? Penso che si potrebbe sostenere la tesi secondo la quale i generali si sono comportati e si comportano innanzitutto come membri delle classi medie provinciali che hanno molto sofferto nei giorni, o piuttosto nelle notti, che hanno seguito il 28 gennaio. Questo atteggiamento, molto comprensibile e legittimo, significa peraltro diventare una parte del conflitto, mentre l’esercito avrebbe tutto l’interesse a cercare di tenersene fuori. Un’altra spiegazione può opportunamente completare quest’ultima: l’esercito è il garante dell’autorità dello Stato. Il comando ha dovuto sostituirsi a un capo dell’esecutivo da cui il popolo esigeva le dimissioni. Ha ereditato un apparato di Stato con strutture, repertori d’azione, reti, conoscenze acquisite. Pur essendo consapevole della necessità di un’elezione, di una nuova legittimità, di una stabilizzazione, rimane, se non prigioniero, comunque fortemente dipendente dallo strumento che maneggia.
Nel migliore dei mondi possibili
Un articolo recente di Marc Lynch affermava che l’opinione pubblica nel suo complesso era molto insoddisfatta dei risultati ottenuti dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. L’esercito tenta chiaramente di “stabilizzare la situazione” ma non si ritiene in grado (o non intende) intraprendere da sé una “fondazione radicale” della società. La “tabella di marcia” che si è prefissata è stata criticata perché avvantaggia troppo i Fratelli Musulmani, vantaggio accresciuto dalle disposizioni della nuova legge sui partiti politici che fanno perdere molto tempo alle nuove formazioni nelle procedure di legalizzazione. La critica è fondata ma dev’essere relativizzata, anche perché non vi sono alternative migliori.
Peraltro gli attori politici si chiedevano, come ho constatato io stesso durante il mio soggiorno al Cairo nel maggio scorso, se l’esercito non praticasse consapevolmente la politica del “tanto peggio, tanto meglio” per costringere i vari soggetti a richiederne la permanenza al potere come estrema barriera al caos, o se il CSFA non fosse semplicemente incompetente (come dice Lynch). Credo che la realtà sia più semplice. La direzione è collegiale, ciò che rallenta il processo decisionale. E soprattutto l’esercito è molto attento a evitare i dissensi interni. È l’unica istituzione che ne è andata finora esente – con l’eccezione di alcuni ufficiali che, come avvertimento, hanno sfilato tra le centinaia di migliaia di manifestanti che, all’inizio di aprile, invocavano il processo di Mubarak. Mi pare che tutto sia indirizzato ad evitare controversie interne, ciò che spiegherebbe alcune forme di inazione. Infine, il coinvolgimento nel processo politico e nelle operazioni di mantenimento dell’ordine erode seriamente il capitale di popolarità dell’esercito.
Nel migliore dei mondi possibili, l’esercito vorrebbe un regime realmente democratico ma con un Presidente che fosse un militare in borghese (vista la popolarità dell’esercito ciò non è, in un primo momento, irrealistico) e dei partiti che non mettano in questione gli accordi di pace con Israele e l’alleanza con gli Stati Uniti, percepiti come necessari per la sicurezza nazionale egiziana e per lo sviluppo. Vorrebbe una società musulmana conservatrice ma che riconosca l’uguaglianza dei cittadini, che non sia teatro di tensioni confessionali e che assuma le sfide dello sviluppo tecnico e umano senza lasciarsi ingannare dallo specchietto per le allodole dell’identità.
Ma noi non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Oltre al fatto che la democrazia non permette di prevedere in anticipo i risultati di un’elezione, resta il fatto che l’esercito non è l’unica parte implicata nel gioco, che la congiuntura è molto fluida e quasi rivoluzionaria e che non si sa se le tabelle di marcia degli uni e degli altri possano essere rispettate. L’esercito ha fissato, in momenti diversi, tre linee rosse: le obbligazioni internazionali dell’Egitto, il carattere “civile” della Società (una società fondata sul principio della cittadinanza) e la dignità di Mubarak padre. Sul terzo punto ha dovuto far marcia indietro molto presto; sugli altri due le pressioni sociali, in particolare quelle islamiste, sono rilevanti.
Non si sa che cosa pensino i membri attuali del CSFA, anche se possiamo azzardare qualche ipotesi su quattro o cinque di loro. Al contrario, un’analisi delle dichiarazioni degli ex ufficiali (per esempio quelli candidati alla presidenza) permette di individuare qualche elemento comune. Per loro il problema principale del regime politico egiziano è che ha permesso a degli individui di occupare per decine d’anni le stesse cariche e ha reso impossibile qualunque forma di accountability. È assolutamente necessario che ogni responsabile, prima o poi, debba rendere conto del suo operato. In altri termini, la democrazia offre il vantaggio di permettere di controllare le azioni dell’esecutivo. È, in un certo senso, una modalità di governo efficace, molto più efficace dell’autoritarismo – ma può essere considerata un valore? Non siamo sicuri di potere scorgere nelle dichiarazioni esaminate una seria presa in considerazione della nozione di “sovranità popolare” o di “governo rappresentativo”. La democrazia è il meno peggio. Ma è anche fonte di disordine. I militari che ho conosciuto sapevano entrambe le cose. Amano una delle due facce di questo Giano, ma l’altra non è di loro gradimento.
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[1] http://4flying.com/archive/index.php/t-23095.ht [consultato il 29 settembre 2011].
[2] Si deve aggiungere che in Egitto, nelle elezioni che prevedono una reale competizione (come quelle per i Consigli d’amministrazione dei gruppi sportivi), i militari, contrariamente ai medici e ai copti, non votano in blocco per il candidato di loro espressione.
[3] Hanno evitato, naturalmente, di aggredire l’impero economico dell’esercito, “accontentandosi” del settore pubblico civile. L’impero economico dell’esercito è opaco, ma si può affermare che esso possiede un’industria di armamenti e che le altre sue attività coprono tra l’altro i lavori pubblici, le telecomunicazioni e le reti telefoniche, l’agro-alimentare e la produzione di beni di consumo durevoli
[4] Lo si sapeva da molto tempo – nel mio caso, dalla metà degli anni ’80. Poi, alla fine del 2003, il presidente ebbe un malessere e si accasciò mentre pronunciava un discorso in Parlamento. È significativo vedere come i militari presero immediatamente e totalmente la situazione in mano.
[5] Parlare di “una versione” è improprio. Di fatto riunisco in un solo raccolto diverse testimonianze, raccolte qui e là. Su certi punti esse si contraddicono, su altri si completano. In questo contesto, non dispongo dei mezzi per una discussione serrata su questi punti. Credo inoltre che sia troppo presto e che altre testimonianze verranno a completare il quadro.
[6] Secondo diverse fonti attendibili la Direzione delle Informazioni militari seguiva da vicino l’evoluzione della situazione interna. È noto a tutti che l’organismo detto di «controllo amministrativo», una sorta di Ispettorato Generale dell’Amministrazione, è un organismo vicino all’esercito. Molti militari abbandonano l’esercito per impieghi nell’apparato di Stato e in diversi settori chiave dell’attività economica. Numerosi centri di ricerca sono vicini ai servizi segreti...
[7] Il sito web d’informazione www.masrawy.com ha riportato le dichiarazioni di un giornalista durante un dibattito televisivo in cui questi affermava che la Presidenza aveva chiesto al capo del servizio d’informazione dell’emittente televisiva nazionale di annunciare la sostituzione di Tantawi e del capo delle mukhâbarât e che questo direttore si era rifiutato di ottemperare all’ordine e aveva allertato i militari. A quanto mi risulta, queste dichiarazioni non sono state smentite e anzi ho sentito voci in tal senso durante le mie visite al Cairo. Si veda, per esempio http://www.masrawy.com/ketabat/ArticlesDetails.aspx?AID=126443 [consultato il 15 settembre 2011].
[8] Si fa riferimento alla testimonianza 347 disponibile su http://www.shorouknews.com/ContentData.aspx?id=384830[consultato il 15 settembre 2011].
[9] Cfr. l’articolo di Mustapha Bakrî in «Al-Akhbâr» (1° settembre 2011).
[10] I Fratelli hanno svolto un ruolo importante durante la mobilitazione chiedendo, contro il desiderio dei militari, che Mubarak fosse consegnato alla giustizia. Similmente hanno svolto un ruolo importante nelle manifestazioni di Qena che protestavano contro la nomina di un governatore copto. Hanno rivisto gli obiettivi elettorali al rialzo, ciò che è del tutto legittimo. Non conosco abbastanza i dossier Gaza e Sinai per sapere se vi sia stato o meno un coordinamento tra il CSFA e i Fratelli su questo punto e, se sì, come si siano svolti i fatti.