Dopo decenni di guerre e instabilità, il Medio Oriente è chiamato a costruire il proprio futuro su tre pilastri: la fede in Dio, la dignità dell’essere umano e la capacità di vivere in pace con la natura. Le comunità religiose possono e devono avere un ruolo centrale in questo processo, purché riconoscano che nessuno detiene il monopolio delle verità.
Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:51:47
Scrivo queste righe dal Libano, la “Svizzera del Medio Oriente”, terra fertile e ricca di cultura, creatività e convivenza interreligiosa. Ma scrivo anche da un Libano privo di elettricità, di benzina, di una connessione internet affidabile, di un flusso costante di risorse idriche, di un servizio di raccolta di rifiuti e di sostenibilità finanziaria. Sembra di vivere in un purgatorio. È il risultato di decenni di corruzione e di demolizione delle strutture statali a vantaggio di milizie, capi feudali, magnati degli affari e signori della guerra.
Le notizie che giungono dalla Siria dopo più di dieci anni di una guerra devastante non sono affatto migliori. La pace e la riconciliazione sembrano più lontane che mai. Milioni di rifugiati e di sfollati interni esitano a tornare nelle loro case, preferendo la situazione terribile in cui si trovano alla prospettiva di un ritorno segnato dal pericolo e dall’incertezza. Popolazioni in fuga sono ancora ammassate a Idlib in condizioni miserabili. Fazioni rivali lottano nel Nord-Est della Siria. L’ISIS si risolleva e torna alla luce, mentre le famiglie dei suoi combattenti, donne e bambini, sono abbandonate in un limbo, e nessuno vuole prendersi cura di loro. L’Iraq è segnato da un’instabilità cronica, dall’incapacità di riformare lo Stato, dalla segregazione di popolazioni e da un numero enorme di armi fuori dal controllo del governo, mentre le elezioni parlamentari non riusciranno a portare il cambiamento sperato dalle migliaia di giovani che hanno occupato le strade nell’ottobre del 2019 e continuano a occuparle.
In Yemen non si fa alcuno sforzo serio per risolvere la crisi; l’Egitto ha chiuso il cerchio ed è tornato alla situazione pre-Primavera araba; in Tunisia la democrazia vacilla, in Libia si tenta l’ennesimo piano di pace, in Algeria e in Sudan è cambiato il capo dello Stato ma non il sistema di potere, la situazione del conflitto israelo-palestinese è peggiore che mai, presa com’è tra due estremi che rendono pressoché inesistenti le possibilità di una pace giusta; conflitti di ogni tipo proseguono a livello locale, regionale e internazionale.
In mezzo a tutto questo, moderati, laici, attivisti della società civile, membri delle minoranze, vittime del terrorismo e dell’oppressione religiosa in tutto il Medio Oriente sono rimasti attoniti di fronte alle centinaia di migliaia di loro compatrioti che hanno salutato il ritorno dei Talebani al potere. Il risentimento per il coinvolgimento americano in Medio Oriente e la felicità di vedere sconfitti gli Stati Uniti possono essere comprensibili, ma gioire per il ritorno di un gruppo che adotta metodi medievali, interpretazioni estremiste dell’Islam e politiche ostili nei confronti delle donne, dell’educazione e della modernizzazione suscita un’inevitabile moto di delusione, frustrazione e paura in tutta la regione: si sperava di aver chiuso definitivamente con l’ascesa dei gruppi estremisti. Tutto ciò si aggiunge ai due anni di sofferenza senza precedenti per la pandemia di COVID. È davvero l’ora più buia...
Eppure io, come molti altri, ho ben chiaro che i nostri antenati si sono trovati più volte in situazioni di oppressione, di frustrazione e di povertà estrema. I moderati, gli operatori di pace, i costruttori di ponti, i pionieri, le persone illuminate e i visionari di questa regione del mondo hanno dovuto ripetutamente fare i conti con condizioni simili. Rifiutandosi di arrendersi e di darla vinta a questo enorme mostro, a questo assassino di profeti e distruttore di sogni che è il Medio Oriente, e dicendo no a una vita oziosa, senza obiettivi, speranza o fede, si sono trovati davanti a due possibilità. Molti hanno scelto di emigrare, trovare una nuova casa, terre più accoglienti, patrie adottive che assicurassero la dignità, la libertà, mezzi di sussistenza e un futuro; eppure, anche dopo aver trovato tutte queste cose, sono rimasti come orfani senza casa, che cercano di sostenere la propria patria e i propri parenti da lontano sentendosi sempre dei traditori. Molti altri hanno accettato la sfida di rimanere, resistere e sopportare il purgatorio fino a giorni migliori, anche a costo della loro carriera, del loro benessere, della loro famiglia e talvolta della vita.
Perché questo periodo sia un vero purgatorio e perché tutta questa sofferenza non sia vana, perché quest’ora buia preceda un’alba, serve una rivoluzione. Dopo aver provato la stabilità forzata a livello nazionale e la democratizzazione forzata a quello internazionale – con la Primavera araba manipolata e abortita –, dopo aver sperimentato inutili rivoluzioni populiste, la regione ha bisogno di un altro tipo di rivoluzione, una rivoluzione contro il proprio io, contro l’odio settario, contro la fiducia cieca dei leader, contro la corruzione personale, contro l’affiliazione a potenze straniere e contro gli atteggiamenti non democratici. La rivoluzione di cui abbiamo bisogno è una rivoluzione della vera fede, quella in Dio, nella dignità dell’essere umano e nella capacità di vivere in pace con la nostra casa comune, la natura. Solo se questa rivoluzione avrà successo, il nostro purgatorio si tramuterà in salvezza, e quest’ora buia sarà la buona notizia di un’alba che sorge.
Leggendo gli eventi bui di questa regione ci si può chiedere quali lezioni se ne possano ricavare e quali interpretazioni teologiche possano guidare i credenti, come già in passato. Quel cammino può infatti rivelarci qualche spiraglio di luce.
Radici forti e visione chiara
L’accompagnamento spirituale ci ha insegnato che il modo migliore per rimanere saldi nei tempi d’incertezza e di oscurità è ricordare e ripercorrere le pietre miliari della fede, cioè le esperienze passate in cui la fede è servita a superare le difficoltà. Nell’oscurità di oggi dobbiamo rivolgerci alla nostra storia, per riscoprire e celebrare gli eroi, gli episodi, le storie e le esperienze di una fede feconda. In termini scientifici, si parla di rivisitazione del passato, che consiste nel guarire la memoria e allenarla a ricordare le esperienze spirituali forti e quelle riuscite di fratellanza. Nei nostri sistemi educativi vanno perciò introdotti processi di giustizia transizionale, purificazione della memoria e riconciliazione, non solo nelle lezioni di storia ma anche in quelle di educazione civica, politica, filosofia e addirittura educazione religiosa. Parte integrante del percorso spirituale di guarigione della memoria è il riconoscimento del fatto che nessuno, né leader né gruppo, ha un’esclusiva sulla verità ed è immune da errori. Occorre allenarsi a mettersi nei panni altrui e a capire il loro punto di vista e per questo c’è bisogno di empatia umana, oltre che di ricordarsi che condividiamo la stessa essenza e la stessa dignità.
Una volta rivisitato il passato e rafforzate le nostre radici, potremo vedere le cose più chiaramente, perdendo ogni illusione nelle retoriche inculcateci dalla propaganda, dai populismi, dai discorsi di odio e dai sermoni ostili. Un esempio di una visione diversa e più chiara è dato dal tema della radicalizzazione e dell’estremismo: la lotta all’estremismo non consiste nell’invio di truppe straniere che piombano in un luogo e vincono battaglie. È solo tramite un processo di cambiamento interno e di vera democratizzazione che si può ottenere la vittoria. Questo processo deve essere guidato da capi religiosi moderati che promuovano narrazioni alternative. Deve includere un’educazione trasformativa alla cittadinanza e all’accettazione dell’altro, la promozione delle diversità, di una cittadinanza inclusiva e della responsabilità sociale della religione.
Ripensare la relazione tra religione e sfera pubblica
Gli eventi degli ultimi due decenni hanno dimostrato che il mondo ha liquidato troppo presto la religione e l’identità: pensavamo che un secolarismo estremo e talvolta anche forzato avrebbe potuto rappresentare l’antidoto più efficace all’estremismo religioso; pensavamo che la globalizzazione fosse il modo migliore per unire le persone di tutto il mondo. In realtà, il secolarismo di stampo occidentale, che esclude aggressivamente o perlomeno trascura le identità religiose e non religiose, è destinato a implodere su sé stesso e a scatenare delle reazioni. Un mondo globalizzato non risolve i conflitti causati dall’identità, ma al contrario rende questi conflitti e la fragilità statuale che ne risulta un problema internazionale a cui si deve far fronte collettivamente.
Queste considerazioni sono particolarmente pertinenti per il contesto mediorientale, dove le persone sembrano attaccate alle loro identità (religiose, etniche, culturali ecc.) più che in altri luoghi del mondo. Il fallimento nella costruzione di Stati forti e cittadinanze solide ha trasformato l’identità in un fattore distruttivo e altamente divisivo. Obbligare le persone ad abbandonare la propria identità e ad adottare norme e valori globali/occidentali non si è rivelato il modo migliore di procedere. Per creare sistemi politici e istituzioni statali che riflettano la realtà delle loro società, adattandosi alle loro specificità, è dunque necessario ripensare il ruolo delle identità, in particolare di quelle religiose, e la loro espressione nella sfera pubblica.
Allo stesso tempo, a tale processo deve corrispondere un approccio inclusivo da parte delle religioni. È necessario abbandonare qualsiasi pretesa di possedere una verità esclusiva o un monopolio di Dio, così come la promozione di soluzioni uniformi per i problemi economici, politici o sociali. Vanno invece privilegiate soluzioni più complesse, attente al contesto culturale e capaci di adattarsi alla realtà di ciascun caso. Pari cittadinanza, uguaglianza di fronte alla legge e pari dignità e pari diritti per tutti gli esseri umani sono e devono continuare a rappresentare il fondamento di qualsiasi soluzione possibile, ma da soli non sono sufficienti. Vanno prese in considerazione le soluzioni che mirano a instaurare una pace sostenibile, la democratizzazione e uno state building autentico. Queste devono fondarsi inoltre sul rispetto delle identità religiose e non religiose, trasformandole da motivo di conflitto in strumenti del suo superamento. La particolare varietà di religioni, etnie, lingue e culture che abbiamo in Medio Oriente deve essere percepita come una ricchezza e una risorsa.
Coinvolgere le persone di fede e proporre narrazioni alternative
Abbiamo visto come milioni di credenti in Medio Oriente aderiscono ancora fermamente alla loro identità e alla loro appartenenza religiosa, che continuano a svolgere un ruolo importante nella sfera pubblica, sia per gli individui sia per le istituzioni, e con ciò smentiscono completamente la teoria secondo cui la fede è una questione privata che non deve interferire con la dimensione civica. È importante non trascurare o addirittura sopprimere l’attaccamento delle persone alla loro fede o alla loro identità religiosa, perché quando questo accade la religione tende a radicalizzarsi e a diventare estremismo. E come abbiamo detto tante più volte, ogni estremismo stimola la nascita di un contro-estremismo, creando un circolo vizioso in cui sentimenti di xenofobia e vittimismo si alimentano a vicenda. La cittadinanza inclusiva è il modo migliore per affrontare la questione dell’identità religiosa attraverso le norme della democrazia e di uno Stato forte.
I conflitti religiosi, le violazioni dei diritti umani, l’oppressione delle libertà e la diffusione della radicalizzazione presuppongono un discorso religioso che disumanizza l’altro, incita all’odio e alla discriminazione e di conseguenza prepara il terreno alla legittimazione della violenza contro l’altro. Negli ultimi anni abbiamo assistito a immensi sforzi e passi in avanti nella presentazione di narrazioni e interpretazioni religiose alternative che promuovono la tolleranza, il dialogo e l’accettazione dell’altro. Ma siamo ancora molto lontani dal momento in cui questi discorsi religiosi alternativi e moderati diventeranno maggioritari. Dobbiamo perciò continuare a promuovere le narrazioni esistenti, incoraggiarne di nuove, mettere in comunicazione i capi religiosi moderati, introdurre discorsi alternativi nelle scuole religiose e proteggere e sostenere i paladini in questa battaglia di frontiera, a prescindere dalla loro appartenenza.
La fede può essere usata, e ne abbiamo avuto la prova, come una potente arma di distruzione, ma anche come forza capace di costruire ponti di fratellanza umana. Abbiamo visto infatti figure di fede spendersi per i rifugiati, per l’inclusione, la protezione, per alleviare il dolore e risolvere conflitti. Dobbiamo lavorare insieme per dare spazio a questo tipo di attivismo mosso da una fede che anela alla pace, al rispetto reciproco e alla cittadinanza inclusiva.
Per una teologia della fratellanza umana
Dopo il COVID e a causa del COVID, per i fedeli delle diverse religioni è arrivato il momento di capire che siamo un’unica famiglia umana con le stesse caratteristiche, la stessa dignità e gli stessi diritti, e che il mondo è diventato talmente interconnesso che i problemi e le sofferenze di alcuni riguardano in realtà tutta l’umanità. L’ISIS e altri gruppi terroristici, la crisi mondiale dei rifugiati e la pandemia di Coronavirus hanno dimostrato chiaramente che se non ci preoccupiamo di determinati problemi pensando che non ci riguardano, questi ci si ritorcono contro e diventano troppo grandi per essere gestiti. Assumere a livello individuale, sociale, nazionale e anche internazionale il concetto di “fratellanza umana” e comportarsi con gli altri secondo questo concetto è diventato un imperativo. Papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyib hanno aperto la strada; molti altri li hanno preceduti, accompagnati e seguiti lungo il cammino.
In quasi tutte le religioni, adorare Dio va di pari passo con una buona relazione con i Suoi figli. Accanto ai dialoghi teologici che stanno crescendo di frequenza, c’è bisogno di un dialogo più urgente, quello per la vita e la riconciliazione. Un dialogo che avvenga nei campi profughi, nelle periferie povere delle nostre città, dietro le quinte dei fronti di guerra e ai tavoli dei negoziati di pace, nelle mense dei poveri, nell’incontro tra leader di religioni diverse che lavorano insieme per affrontare le sfide sociali, economiche ed etiche delle loro comunità. Dobbiamo essere solidali con qualsiasi sforzo di riumanizzare le religioni, promuovere iniziative interreligiose, sostenere le figure che, mosse dalla fede, operano per la pace e la riconciliazione.
Dal Patriarca Bartolomeo a Papa Francesco, da Greta Thunberg a milioni di attivisti in tutto il mondo, sono tantissime le persone che ci hanno messo in guardia sull’urgenza di riconciliarci con la natura e con il nostro pianeta se vogliamo che la sua e la nostra sopravvivenza siano garantiti nei millenni a venire. La situazione è particolarmente urgente in Medio Oriente, dove acqua e terreni fertili sono risorse scarse che hanno bisogno di essere protette con un impegno condiviso. Il Medio Oriente è troppo piccolo perché i Paesi che ne fanno parte possano permettersi di trascurare le enormi sfide climatiche dei vicini. Proteggere la casa comune dovrebbe essere la priorità a ogni livello, dai microprogetti di sviluppo locale in piccoli villaggi, a quelli per le città, ai piani nazionali e ai progetti di complementarità regionale.
L’altra nostra grande preoccupazione dovrebbe essere rivolta a evitare il fallimento degli Stati, le cui prime vittime sono le voci moderate e i costruttori di pace. Per questo dovremmo concentrarci su un processo equilibrato di state building, in cui Stato di diritto e cittadinanza paritaria si combinino con il rispetto delle diverse tradizioni e dei diversi valori religiosi. Lo scopo è quello di costruire uno Stato democratico inclusivo, in cui le persone siano in pace con Dio, con i loro simili e con la natura.
Tutto questo chiama in causa una teologia della fratellanza, che in Medio Oriente dovrebbe essere il compito di persone di diversa estrazione religiosa. La regione è ancora una volta di fronte a un bivio e si trova al centro dell’attenzione internazionale. Mentre vediamo la fine del tunnel e iniziamo a pensare al mondo post-COVID, le persone più illuminate e gli attivisti vanno incoraggiati ad adottare questo approccio onnicomprensivo. È un appello a trovare un senso a tutta la sofferenza e il dolore che abbiamo e stiamo ancora subendo, e anche a dare a questo dolore un significato e uno scopo che trasformi questa ora più buia nell’ora appena prima dell’alba. Come ebbe a dire Giovanni Paolo II ai giovani riuniti per la diciottesima giornata mondiale della gioventù:
Ora più che mai è urgente che voi siate le “sentinelle del mattino”, le vedette che annunciano le luci dell’alba e la nuova primavera del Vangelo, di cui già si vedono le gemme. L’umanità ha un bisogno imperioso della testimonianza di giovani liberi e coraggiosi, che osino andare controcorrente e proclamare con forza ed entusiasmo la propria fede in Dio, Signore e Salvatore.
Ancora una volta, di fronte alla scelta tra rinunciare a partire o restare, oggi abbiamo deciso di rimanere, resistere e sopportare le difficoltà, per essere solidali con i sofferenti, con il sostegno dei nostri amici nel mondo, come testimoni di speranza, come signum fidei, come “sentinelle del mattino”, che aspirano alla salvezza personale e comunitaria. È una decisione che nasce da una fede con radici profonde e da una teologia della fratellanza.
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