Educazione, rapporti parentali e identità al centro dei film sulle due sponde del Mediterraneo
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:35
C’è un problema più grande degli attentati che così di frequente insanguinano le strade dell’Oriente e dell’Occidente. Un problema che non riguarda solo la sicurezza o la capacità di accogliere gli immigrati nei confini sempre più liquidi del mondo che abitiamo. Il problema che ci assilla e ci consuma, difficile anche da raccontare al cinema, è una questione da padri: riconoscere il mostro che divora i nostri figli, dargli un nome, combatterlo, sia esso il radicalismo islamico che arriva sempre meno da lontano, che cresce sotto casa, o il nichilismo gaio che livella tutti e tutto. Bisogna essere un po’ profeti per riconoscere che il problema, prima che politico, è educativo, una questione di sguardi. Bisogna avere coraggio per dire che a guardare il mondo si impara, anche se è difficile insegnarlo a parole.
Il tempo degli scherzi è finito, le caricature del rapporto tra religione e tradizione, le marionette che si scambiano i ruoli in commedia. Qualcuno, con risultati alterni, prova a inserire nelle storie “normali” una domanda sull’identità, senza toccare direttamente i temi scomodi del terrorismo e della radicalizzazione. Sono soprattutto cineasti dei Paesi che hanno sofferto di più come la Francia, dove solo nel 2018 ci sono stati tre attentati, dove sono state chiuse moschee – tra le altre, quelle di Grenoble e di Marsiglia –, dove sono stati scoperti libri e documenti che inneggiavano al jihad armato, all’odio per i non credenti, alla violenza contro le donne. Di educazione sentimentale sulle spiagge di Marsiglia degli anni ‘90 ci dice qualcosa Abdellatif Kechiche, regista tunisino di seconda generazione, idolo dell’intellighenzia d’oltralpe. Nel dittico Mektoub, My Love: Canto Uno e Canto due, dove fin dal titolo compare la parola destino (mektoub), racconta, insieme alla vertigine del desiderio che segna la vacanza di una compagnia multietnica di ragazzi, anche quel presentimento amaro della fine, del vuoto, che rende il protagonista Amin diverso dagli altri, francesi o tunisini. È un vuoto che si tocca, che fa male, che prima o poi verrà riempito da qualcosa.
Di educazione, ma soltanto per sottolinearne l’assenza, ci dice qualcosa la commedia Quasi nemici di Yvan Attal. Nelle aule di una prestigiosa università si consuma l’incontro tra Neilah, marocchina di seconda generazione che vive nelle banlieue e studia per diventare avvocato e Pierre, professore cinico e provocatore che più parigino non si può. Il film non è scontato, anche se lo scontro tra i due diventa una gara sul tema dell’integrazione che sarà vinta, in nome del politicamente corretto, dalla vitalità della ragazza araba. Di interessante c’è la retorica, che lui insegna e lei impara anche troppo in fretta: quell’arte che usa di tutto per conquistare il consenso, quel filo rosso che ha regalato l’Europa ai “maestri del sospetto”. Davanti ai paradossi che risuonano amari in bocca al docente – «L’eloquenza è quello che voglio insegnarti, avere ragione. Della verità, chi se ne frega!» –, risponde pronta Neilah: «Giuro di dire la verità, anche se per farlo dovessi mentire».
Decisamente diverso è l’atteggiamento con cui Jean-Pierre e Luc Dardenne guardano, in Belgio, ai giovani arabi di seconda generazione: realismo, preoccupazione e nemmeno l’ombra di quel cinismo superficiale, di quel buonismo imbarazzante, che hanno condotto l’Europa ad avere paura anche della propria ombra. Con i Dardenne siamo nel campo dei profeti: altra razza, altro genio. I due fratelli registi vivono e lavorano in Belgio. A Molenbeek, il quartiere di Bruxelles divenuto tristemente famoso come la “capitale jihadista d’Europa”, hanno ambientato alcuni tra i loro film più belli, da L’enfant a Rosetta. Dopo l’arresto di Salah Abdeslam, il terrorista di origine marocchina responsabile degli attacchi del 2015 a Parigi, i servizi segreti hanno rintracciato, in quello che una volta era il quartiere operaio, 51 organizzazioni legate al terrorismo islamico. Siamo nella capitale europea dove, da alcuni anni, alle elezioni si presenta, con fortune alterne, un partito la cui sigla è addirittura Islam: tra le proposte, la sharī‘a come legge di Stato.
Però non troveremo sul web dichiarazioni infuocate o proclami dai fratelli Dardenne: loro lavorano, i giudizi sul mondo passano attraverso le immagini che propongono, come registi e, da qualche anno, anche come produttori. Al prossimo festival di Cannes, presenteranno Ahmed. La sinossi è poco più di una riga: “Un adolescente belga progetta di uccidere la sua insegnante dopo aver aderito a un’interpretazione estremista del Corano”. Non c’è bisogno di raccontare altro, le cronache quotidiane dei tg sono in genere più esplicite dei film. Se al momento in cui scriviamo non è dato sapere molto di più su Ahmed, è interessante guardare ai film da loro prodotti.
Il primo è Weldi, realizzato nel 2018 da Mohammed Ben Attia, regista rivelazione del nuovo cinema tunisino, quello che cerca di esplorare la realtà fragile di un Paese che nel 2011, dopo la rivoluzione, si è scoperto vivaio del fondamentalismo. Ambientato a Tunisi, dove Riadh lavora come operaio al porto, descrive il rapporto tra l’uomo e il figlio Sami, che sta preparando gli esami di maturità. Il ragazzo soffre di mal di testa, passa molto tempo al computer, a un certo punto scompare. Un messaggio su Facebook rivelerà ai genitori che è andato in Siria. Non sono pochi i padri – racconta il regista – che in Tunisia hanno dovuto scoprire nei figli un male di vivere spesso incomprensibile agli stessi ragazzi. «Io volevo mettere in luce un malessere esistenziale, un’insoddisfazione di vita alla quale è difficile dare delle spiegazioni». Non serve mostrare attentati o foreign fighters per raccontare la fragilità di un io che non ha più radici, di qua e di là dall’oceano. Però è importante puntare il dito anche su quello che c’è prima: la famiglia, l’ambiente, la politica, l’educazione.
Anche Fatwa arriva dalla Tunisia grazie ai fratelli Dardenne. Siamo nel 2013, la rivoluzione dei Gelsomini è finita lasciando sul terreno lutti e rovine, spiega il regista tunisino-belga Mahmoud Ben Mahmoud. Il film comincia con un uomo che atterra sconvolto all’aeroporto di Tunisi, dove un poliziotto gli spiega che il figlio Marouane è morto per un incidente di moto mentre tornava di notte a casa della madre. Dopo la rivoluzione, Brahim era emigrato in Francia per promuovere il turismo tunisino (quello che due anni dopo verrà direttamente attaccato dallo Stato islamico negli attentati di Tunisi). Rivedere la moglie da cui ha divorziato in circostanze così drammatiche lo turba profondamente: lei è una progressista che non crede più a niente, lui tende a rispettare le tradizioni. Non riescono ad accordarsi neppure sul funerale. Ma il peggio deve ancora venire: in moschea, c’è un nuovo imam. Gli dicono che il figlio era diventato molto religioso, molto devoto. Il film diventa così un viaggio nel cuore di un figlio che non c’è più, di un padre che non riconosce neppure il suo Paese, di una storia da ritrovare, tra contraddizioni e ferite.
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Emma Neri, Padri alle prese col mal di vivere dei figli, «Oasis», anno XV, n. 29, luglio 2019, pp. 140-142.
Riferimento al formato digitale:
Emma Neri, Padri alle prese col mal di vivere dei figli, «Oasis» [online], pubblicato l’11 settembre 2019, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/padri-alle-prese-con-mal-vivere-figli.