Non ci sono posti dove scappare dal bisogno radicale di bene e di bellezza iscritto negli uomini. Sembra questo il tema sottotraccia delle nuove pellicole che, dalla pluripremiata Turchia all’Algeria, dalla Corea all’Arabia Saudita, mostrano che il “vento che soffia dentro” è un affare di tutti, attraversa ogni angolo di mondo e chiede di essere almeno ascoltato
Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 16:03:23
Leggere Lolita a Teheran: la ricetta proposta nel 2004 dal best seller di Azar Nafisi aveva funzionato. L’idea di mettere sotto la lente di ingrandimento dei romanzi di Nabokov o Fitzgerald la vita di sette studentesse e di un’insegnante di letteratura nella Repubblica Islamica dell’Iran aveva fatto emergere, in una forma assolutamente inedita, i chiaroscuri della vita quotidiana, i desideri e le rinunce, quella tensione irrinunciabile alla libertà, così naturale nell’esperienza umana e così prepotente da non poter essere rinchiusa tra le quattro mura di casa. E chissà che anche le piazze della Primavera araba non abbiano da scontare un debito di riconoscenza alla parola scritta. Da allora, l’esperimento letterario ha fatto diversi proseliti: due titoli per tutti, La bastarda di Istanbul di Elif Shafar, che mette a confronto le esperienze di due donne, una turca e una armena, per rileggere la storia dolorosa di un Paese che continua a negarla – al punto che l’autrice, nata a Strasburgo da genitori turchi, è stata processata per offesa all’identità della Turchia; e soprattutto La piccola sarta di Kabul, dove Gayle Tzemach Lemmon racconta una esperienza di rinascita umana ed esistenziale che emerge nell’inferno dell’Afghanistan talebano.
L’ideologia non sazia
È una novità anche per l’Occidente, questo interrogarsi sull’esperienza e non solo sull’ideologia. Perché le domande che nascono dalla realtà, soprattutto quelle che hanno a tema la libertà personale, non si esauriscono nel particolare viaggio umano che le determina ma deflagrano ovunque e rimbalzano da noi, nel paradiso dell’Occidente, mettendo sale su una ferita che nessuno vuole o sa curare.
E questo spiega anche il perché delle polemiche che si alzano a ogni annuncio di un film che, arrivato dall’altra metà del mondo, vince qualche premio prestigioso. Ultimamente, dopo la fase cinese e quella iraniana, la medaglia dei più premiati tocca ai film turchi: dal trionfo al botteghino, lo scorso anno, dello spassoso Almanya di Yasemin Şamdereli al Leone del Futuro assegnato quest’anno a Venezia a Kuf, opera prima di Ali Aydɪn; da Bal di Semih Kaplanoǧu, Orso d’Oro a Berlino 2010 a Dove il fuoco brucia di Ismail Güneş, vincitore 2012 del Grand Prix di Montreal, fino ad arrivare al film, distribuito in questi giorni nelle sale europee, Gran Premio Speciale della Giuria di Cannes nel 2011, C’era una volta in Anatolia del cinquantenne Ceylan, che aveva già sbancato la Croisette nel 2003 con Uzak e nel 2008 con Le tre scimmie. È interessante notare che il fenomeno Turchia, almeno esteriormente, non ha nulla a che fare con le Primavere arabe né con l’Islam né con la democrazia. Tratta invece di quel territorio dell’esperienza di cui sopra, dove il racconto personale rimbalza sulle ideologie, le attraversa e apre un fronte totalmente nuovo che impone un giudizio da Oriente come da Occidente.
Sull’abisso del desiderio
È la stessa forza che ha portato al Leone d’Oro Pietà di Kim Ki Duc. Tutti quelli che si sono affannati a capire a quale religione attinga questo bizzarro sudcoreano che canta nenie buddiste, saluta col pugno chiuso e cita come ispirazione La pietà di Michelangelo, sono rimasti a becco asciutto. Avrebbero potuto tradurre il titolo, per rimanere nella metafora letteraria, con Leggere i demoni a Seul, e non avrebbero avuto bisogno di chiedere a Kim se la domenica va in chiesa o al tempio. Perché il punto è qui: cominciare a porsi le stesse domande cambia la prospettiva. Significa scommettere su fattori comuni, ragione e cuore. E il film, che il regista dice di aver voluto “universale”, diventa riconoscibile anche da noi, pur nella estrema crudezza, perché racconta di un’esperienza umana che illumina la sfera oscura del desiderio. Forse Pietà non “ci salverà dal capitalismo”, come hanno titolato quasi tutti i giornali europei, ma dal grande freddo, che non alberga solo nella Corea del Sud. Quel freddo del cuore che ha reso lo strozzino Kang Do un uomo miserabile, che per denaro uccide e mutila poveracci ridotti in miseria da un mondo senza pietà, nella vecchia periferia operaia di Seul. Il cambiamento, con le lacrime, arriva all’improvviso, attraverso una donna che gli confessa di essere la madre che l’ha abbandonato alla nascita. Ma anche la pietà ritrovata non fa sconti: e il dolore che riempie il vuoto sarà il prezzo carissimo che tutti dovranno pagare.
Anche nel film turco C’era una volta in Anatolia, c’è un delitto conclamato e un castigo: un uomo con la faccia da assassino ne ha ucciso un altro, ha sepolto il cadavere incaprettato in un posto qualunque della desolata campagna turca ed è stato catturato. Nella seconda parte del film, invece, i colpevoli sono tre personaggi dalla faccia perbene: il commissario, il procuratore e il medico legale, che accompagnano l’assassino su e giù per le colline, in un viaggio al termine della notte che porterà alla luce, oltre al cadavere, i dettagli di tre vite irrisolte. Tra loro, isolati in una solitudine invalicabile, c’è la Turchia, vecchia e nuova, che fa capolino nelle chiacchere notturne. La Turchia di ieri: «Ogni cosa ha un motivo, accade se è scritta nel tuo destino». E la Turchia di oggi: «Se vuoi che le cose cambino, devi andare là fuori e cambiarle da solo». Il futuro, la speranza, sono affidati a dei flash: un volto di ragazza nella notte, davanti alla cui bellezza e innocenza solo l’assassino piange; un bambino, figlio del tradimento, che rimane solo, e una mano che gli sfiora la spalla.
Dal cuore alla piazza
La primavera, insomma, parte dal cuore: e solo dopo rimette in gioco, anche nella piazze, quel desiderio di libertà che, risvegliato, può incendiare il mondo. Lo racconta benissimo un piccolo film, Wadjda, realizzato dalla prima regista donna dell’Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour, coprodotto da una società tedesca. Dieci anni, capelli al vento e un grande amore per la vita, la protagonista è una bambina che sogna la bicicletta. Ma dove vive lei, è un oggetto proibito alle donne: come le scarpe da tennis, i distintivi delle squadre, i cd con le canzoni d’amore, i braccialetti di filo colorato. Una bicicletta gialla con i nastri attaccati al manubrio, che svetta sul tettuccio di un’automobile oltre i muri che circondano la città, che compare come un miraggio nel deserto di polvere e sassi, che illumina le giornate trascorse nella scuola buia, triste come l’informe vestito nero che la bambina indossa. Soltanto una bicicletta, che però «costa 800 ryal: troppi per te» dice acido il negoziante. Per avere la bicicletta, vale la pena persino vincere il premio del concorso di religione. Poi, si vedrà: perché i soldi le verranno sequestrati per “i fratelli palestinesi”, ma intanto la mamma ha visto qualcosa di nuovo, negli occhi della figlia, qualcosa di bello. E la bellezza salverà il mondo, dentro e fuori la casa, le piazze, la scuola.
La controprova è Monsieur Lazhar, il protagonista algerino del film di Philippe Falardeau, maestro per vocazione e supplente per caso, in fuga dal suo paese e da un grande dolore. In Canada, dove Bechir arriva come rifugiato politico, dovrebbe regnare la libertà. Ma il condizionale è d’obbligo: in realtà, non ci sono più posti dove scappare. Perché, se in Algeria moglie e figli sono morti in un incendio doloso provocato ad arte dal regime, qui le maestre si impiccano in classe, una regola non scritta vieta di toccare i bambini, sia pure per consolarli dallo sgomento davanti alla morte o per spalmare la crema solare, e la parola insegnare è contrapposta a educare. È più liberticida, alla fine, la dittatura del fondamentalismo o il politicamente corretto? La risposta, suggerisce la storia di Lazhar, non è mestiere da maestri: è affare di tutti, una drammatica questione di libertà nella bianca Algeri, nella grigia Montreal, nella sporca Seul.
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