Nel suo discorso alla Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, Papa Francesco ha invitato a sviluppare una teologia dell’accoglienza e del dialogo, in particolare con l’Ebraismo e con l’Islam
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:25
Il discorso di Francesco alla Facoltà teologica dell’Italia Meridionale del 21 giugno scorso suscita per molti motivi uno straordinario interesse. Si tratta probabilmente delle sue parole finora più chiare sia riguardo alla pratica attuale della teologia e ai suoi limiti, sia alle proposte per un rinnovamento. Dal punto di vista del quadro teorico, forse poco vi è di nuovo rispetto all’Evangelii Gaudium: ma molto vi è di nuovo nell’esemplificazione, che aiuta a comprendere affermazioni o anche accenni che finora potevano apparire vaghi o anche problematici. Il caso più evidente riguarda la diffidenza espressa da Francesco nei confronti della «teologia»: difficile per esempio dimenticare la sua battuta, tra il faceto e il molto serio, nei riguardi dei teologi degni di essere confinati in un’isola deserta a risolvere i loro problemi. Nel discorso a Napoli diventa chiaro senza possibilità di equivoco quale sia la teologia che Francesco vuole sotterrare: è la «scolastica decadente» che egli da giovane ha studiato, una teologia arroccata in una continua apologetica del cattolicesimo e così convinta della propria perfezione da non essere disposta ad imparare nulla. Oggi, sostiene con forza Francesco, è necessaria una teologia diversa.
Augurarsi una teologia nuova non significa augurarsi una dottrina nuova
Ovviamente di fronte a questo chiarimento si potrebbe replicare che la «scolastica decadente» è in realtà sepolta da tempo, e che ad essa è seguita la generazione dei De Lubac, von Balthasar, Rahner, Guardini, per fermarci (con voci differentissime) al solo campo cattolico: dobbiamo forse dire che la loro opera è stata inutile e che ci ritroviamo ancora con gli stessi problemi di ottant’anni fa? L’obiezione sarebbe sensata (sarebbe davvero interessante sentire la risposta di Francesco a una domanda precisa in proposito), ma forse mancherebbe un punto cruciale: è vero che quella teologia è sepolta, ma forse è anche vero che è parimenti esaurito il grande rinnovamento del Novecento. Se Francesco protesta ripetutamente contro i «manuali» di teologia, qualcuno potrebbe malinconicamente notare che la teologia oggi insegnata è in gran parte una neo-manualistica, certo differentissima da quella di impianto scolastico, ma pur sempre rassegnata a una sbadiglievole obbedienza alle indicazioni che il Concilio Vaticano II diede in Optatam totius 16: che cosa dice la Scrittura, che cosa dice la Patristica, che cosa dice (a volo d’uccello) la Scolastica, infine «sintesi sistematica» (ovvero riassuntone). Non viene poi praticamente mai messo in questione l’impianto disciplinare (con la conseguente frammentazione che già decenni fa deplorava, senz’alcun successo, Severino Dianich). Se recentemente uno stimato teologo italiano ha potuto scrivere che «i grandi libri di teologia non esistono più, sono pressoché scomparsi», qualche motivo ci sarà pure. Ben venga, dunque, il richiamo ad un risveglio teologico e alla corrispondente necessaria audacia, che ora essendo invocati da un papa potranno essere ripetuti senza più tema di apparire malevoli o eretici. Augurarsi una teologia nuova non significa augurarsi una dottrina nuova.
Ma un risveglio in nome di che cosa? Il discorso di Francesco ruota attorno a due punti di riferimento: l’accoglienza e il dialogo, ma è il secondo che fa la parte del leone nelle sue considerazioni. In realtà è difficile riassumere quale sia l’idea di dialogo che qui viene proposta, perché nel corso di poche righe vengono attraversate molte accezioni diverse. Più interessante quindi osservare gli esempi concreti da lui portati. Il primo riguarda la necessità di studiare i testi come espressione di un dialogo: con il loro tempo, con la cultura in cui sono nati, con i testi che li hanno preceduti. Si tratta di un metodo applicabile a qualsiasi opera, ma evidentemente Francesco sta pensando ai grandi testi, e in particolare nomina i testi sacri delle «grandi tradizioni monoteistiche»: la Bibbia, il Talmud, il Corano. Il secondo esempio riguarda l’opportunità di un’«ermeneutica teologica» in una concreta situazione storica: nel caso presente il luogo è il Mediterraneo, spazio di incontro tra tre continenti. È questo dialogo che può permettere che «possano convivere nel rispetto reciproco i diversi figli del comune padre Abramo». Salta all’occhio che entrambi questi esempi, benché non nominino espressamente il dialogo interreligioso (anzi, la stessa espressione è quasi assente nel non breve discorso!), abbiano la convivenza delle religioni come presupposto. Come se insomma la pluralità delle religioni non fosse un tema particolare da studiare, ma piuttosto un contesto in cui la teologia deve collocarsi, e questo non in contraddizione con l’evangelizzazione ma anzi come sua forma. All’inizio delle sue riflessioni Francesco nota infatti che «nel dialogo con le culture e le religioni, la Chiesa annuncia la Buona Notizia di Gesù e la pratica dell’amore evangelico che Lui predicava come una sintesi di tutto l’insegnamento della Legge, delle visioni dei Profeti e della volontà del Padre». Tutto ciò certamente ha molte conseguenze, ma anche importanti premesse: dialogare significa anzitutto sforzarsi di conoscere seriamente, e non può non colpire l’incoraggiamento di Francesco verso la presenza di «corsi di lingua e cultura araba ed ebraica» nelle facoltà di teologia. Si tratta di una prospettiva ben diversa da quella in cui in esse sono oggi comuni i corsi di lingua ebraica. Ora è decisivo non soltanto il fatto che qualcosa faccia parte della storia o preistoria cristiana, ma piuttosto che qualcosa faccia parte del contesto in cui la fede cristiana deve vivere, a partire dalla lingua in cui una cultura e la sua tradizione trovano vita ed espressione.
È realistico l’invito di Francesco? Non è difficile immaginare la prima reazione di qualsiasi persona oggi impegnata nell’insegnamento nelle Facoltà teologiche. In effetti, qui il tema dell’insegnamento linguistico è spesso molto sentito: ma in genere si tratta della lingua italiana e degli sforzi per assicurare che studenti catapultati in Italia qualche giorno prima dell’inizio delle lezioni siano in grado di comprendere minimamente ciò che un professore dice. Latino, greco ed ebraico: meglio non parlarne, a dispetto del fatto che qualsiasi chierico di rito romano dovrebbe essere in grado almeno di pregare correntemente l’Ufficio divino in latino. Cultura araba ed ebraica? Nobile intento, senza dubbio: ma è noto che il problema comunissimo (anche quando non vi è quello linguistico or ora detto) è la presenza di studenti che conoscono il catechismo meno di qualsiasi ragazzo di qualche decennio fa e che possono arrivare alla discussione del dottorato affermando candidamente che «secondo la dottrina cattolica tutti i sacramenti conferiscono un carattere». Prima della lingua e della cultura araba, qualcuno potrebbe dire, ci sono cose un po’ più urgenti.
La concordia tra religioni poteva fondarsi sulla centralità della filosofia
Un altro problema è più sottile e riguarda le modalità del dialogo. Chiunque conosca il Medioevo latino e senta parlare di dialogo interreligioso citerà subito come antico e nobile esempio il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo, dove il filosofo, come è noto, è impersonato da un musulmano, e in cui l’andamento della discussione punta verso una convergenza che farebbe invidia alla più avanzata delle teologie del dialogo interreligioso di oggi. Il problema è che quel tipo di dialogo oggi appare impraticabile. La concordia tra religioni per Abelardo poteva fondarsi sulla centralità della filosofia, nella quale di fatto ai suoi tempi esisteva un linguaggio largamente comune tra ebraismo, cristianesimo e Islam. Ma oggi quest’unità palesemente non esiste più, neppure all’interno di ogni singola tradizione religiosa, e anche la fiducia nel ruolo unificante della ragione umana è (a torto o a ragione) largamente dissolta. Collateralmente si può osservare che anche nel curriculum teologico la posizione della filosofia, malgrado i periodici tentativi di aggiornamento e rivitalizzazione, sia alquanto incerta: esaurita con la fine della neoscolastica la funzione di repertorio di concetti e verità indispensabili per la successiva elaborazione teologica, a che cosa serve occupare due anni in una metafisica o in una teologia razionale (per esempio) che non giocheranno nessuno ruolo nella teologia trinitaria, anzi che forse verranno da essa smentite? Di fatto, la parola «filosofia» non compare neppure nel discorso di Francesco. Ma, una volta abbandonate le speranze riposte nella filosofia, il dialogo non viene ridotto ad uno scambio di idee o ad una conoscenza reciproca che solo con un atto di grande ingenuità può essere considerato la ricetta infallibile per la concordia?
Ci pare che questi problemi siano seri: ma questo dev’essere uno stimolo non ad arrendersi, ma ad affrontarli. Se di fronte ad un’esigenza giusta la realtà non è in grado di rispondere, è la realtà che va cambiata. L’attuale situazione degli studi teologici rende irrealistico lo studio della lingua e cultura araba (o anche ebraica, se per questo)? Allora è questa situazione che deve essere cambiata. Francesco, come già visto, suggerisce perfino una prima ricetta, forse non sufficiente ma almeno facile da mettere in opera: almeno si leggano veramente i grandi testi della storia del cristianesimo e anche delle altre religioni. Si può combattere l’intellettualismo quanto si vuole, ma pretendere di affrontare senza cultura i problemi della cultura sarebbe solo arroganza. Anzi, forse è proprio da questo punto di vista che la cultura mostra uno dei suoi volti migliori: quello di essere incubatrice di pace. La comprensione dell’Islam non procede solo grazie all’incontro e alla collaborazione nella società, ma anche grazie a chi occupa giorni e notti in biblioteca, a studiare l’arabo, a cercare di conoscere e capire una cultura diversa, a trovare le parole e le idee che significhino una capacità di ascolto. Non tutti devono farlo, ma chi ha capacità e possibilità va in tutti i modi incoraggiato, «nonostante qualsiasi altra cosa in contrario» (per usare la formula con cui si concludono i documenti legislativi della Santa Sede).
Anche quando la filosofia non ha generato la realtà, certamente ha cercato di capirla ed esprimerla
Anche la questione del ruolo della filosofia va affrontato con coraggio. Se la filosofia non è in grado, soprattutto nel contesto degli studi teologici, di alimentare uno spazio di incontro, questo è un problema della filosofia o del modo in cui essa è concepita: tanto più che, indipendentemente dalle differenze religiose, questa è proprio una delle sue vocazioni originarie. Certamente il problema non si risolverebbe magicamente sostituendo (puta caso) lo studio di Tommaso d’Aquino con quello di Levinas: però sì che si affronta per esempio concependo sempre più lo studio della filosofia come un esercizio di interpretazione, in cui il sacrosanto desiderio della verità non pregiudichi l’altrettanto sacrosanta necessità di capire le ragioni dell’altro. Anche quando la filosofia non ha generato la realtà (cosa che pur spesso è avvenuta), certamente ha cercato di capirla ed esprimerla: incontrarsi con questa comprensione potrebbe essere almeno un buon esercizio di pazienza e intelligenza. Ciò non porta conseguenze immediate per l’incontro con le altre religioni? Forse, ma perlomeno deve essere tentato. In fondo non è qualcosa di molto diverso da ciò che Benedetto XVI proponeva quando affermava che il dialogo interreligioso in senso stretto è impossibile, ma è sì possibile e urgente un dialogo tra le culture nelle quali le religioni si esprimono: e questo è esattamente ciò che un tempo non si sarebbe esitato a chiamare «filosofia», amore della sapienza.
Di fronte a queste sfide, le parole finali dell’intervento di Francesco suonano quanto mai adatte: «buon lavoro!».
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