Un visir curioso che si diletta di teologia, un dotto vescovo dalla doppia cultura, siriaca e araba, e tanto tempo per discutere insieme, nell’Alta Mesopotamia di 1000 anni fa

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:49

Questo articolo è l'introduzione a Il visir e il vescovo a tu per tu sulla Trinità

Un visir curioso che si diletta di teologia, un dotto vescovo dalla doppia cultura, siriaca e araba, e tanto tempo per discutere insieme, nell’Alta Mesopotamia di 1000 anni fa. Nasce da questa rara congiunzione una delle più affascinanti opere della letteratura arabo-cristiana, il Libro dei dialoghi di Elia di Nisibi.

Il visir in questione è Abû l-Qâsim al-Maghribî (981-1027). Appartenente a un’importante stirpe di funzionari, era scampato in Egitto alla strage ordinata dal califfo al-Hâkim ai danni della sua famiglia e dopo aver tessuto svariati intrighi era infine approdato alle rive del Tigri, alla corte dell’emiro marwanide Nasr al-Dawla. Protettore della cultura (è tra l’altro indirettamente all’origine della celebre Epistola del Perdono di al-Ma‘arrî), il visir animava nel tempo libero un salone intellettuale, secondo l’uso del tempo.

Elia (975-1046) è una delle figure più notevoli della chiesa d’Oriente: monaco, quindi vescovo di Nisibi (l’attuale Nusaybin, al confine tra Turchia e Siria), scrisse principalmente di teologia e apologetica, ma vanta al suo attivo anche opere di spiritualità, una grammatica siriaca, una cronografia e addirittura un trattato su pesi e misure.

La sua fama di uomo colto giuge alle orecchie del visir, che, approfittando di una sosta a Nisibi, lo convoca per interrogarlo: come possono i cristiani dirsi monoteisti se professano che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo? E che cosa significa che Dio ha un figlio?

 

Uno sforzo di inculturazione

Se il tema è dei più classici, il dialogo si distingue da tanta altra produzione di stampo controversistico per lo sforzo che entrambi i protagonisti pongono nell’adottare le proprie categorie a quelle dell’interlocutore. Elia in particolare imposta la questione dell’Unità-Trinità di Dio a partire dal dibattito, tipicamente islamico, sugli attributi divini. La questione, «il problema essenziale della teologia musulmana» (Michel Allard), trae spunto dal fatto che nel Corano Dio è descritto attraverso vari aggettivi: potente, sapiente, misericordioso etc. I maestri di kalâm, la teologia dialettica allora in voga nel mondo islamico, avevano individuato in particolare sette attributi e si erano posti il problema della loro relazione con l’essenza divina.

Semplificando al massimo, si erano create due scuole di pensiero. Mentre i mu‘taziliti, fautori di un approccio razionalista, sostenevano che tra questi attributi alcuni erano creati e altri invece s’identificavano con l’essenza divina, i (proto-)sunniti li consideravano tutti increati e «non Dio e non diversi da Dio». Elia, sulla scorta di altri teologi precedenti come ‘Ammâr al-Basrî (inizi del IX secolo), si serve di questo dibattito intra-musulmano per esporre la dottrina cristiana attraverso un linguaggio familiare all’ascoltatore, stabilendo un parallelo tra le Persone della Trinità e gli attributi divini nella visione sunnita. Il terreno comune offerto dalla filosofia aristotelica, alla cui arabizzazione gli scribi siriaci avevano offerto un contributo determinante, fa il resto: benché il visir simpatizzi per i mu‘taziliti – una sua allusione verso la fine del primo dialogo lo lascia intendere chiaramente – non accusa i sunniti di miscredenza e resta quindi sostanzialmente convinto della spiegazione del suo ospite. Questi dal canto suo non manca d’insistere abilmente, in sintonia questa volta con la scuola mu‘tazilita, sulla necessità di un’interpretazione allegorica di alcuni passi delle Scritture, cristiane e islamiche.

Quando poi, qualche giorno più tardi, un giudice della rigorista scuola hanbalita insinua nel visir il dubbio che Elia non sia stato sincero nelle sue affermazioni, il vescovo stende di suo pugno una professione di fede che, senza tradire la dottrina cristiana, riecheggia a ogni passo il lessico tecnico islamico. E, senza dirlo esplicitamente, lascia intendere al visir che la visione cristiana sia più prossima alla sua teologia del letteralismo stretto proprio del giudice hanbalita. La missione storica di mediazione dei cristiani orientali trova in queste pagine una delle sue più alte espressioni.

 

Le condizioni del dialogo

Questa constatazione, che s’impone alla lettura del testo, non cancella evidentemente i limiti dell’esposizione di Elia. Restando in fondo vincolato al genere dell’apologetica, il vescovo si propone di dimostrare negativamente che la dottrina trinitaria non è una deroga al monoteismo, laddove si potrebbe positivamente sostenere che essa ne è la necessaria fondazione. Ma soprattutto tende in più punti a cadere in affermazioni dal sapore modalista, anche per la necessità di mantenere il parallelo con la dottrina islamica degli attributi divini. Infine, nella parte non tradotta del dialogo, l’esposizione della cristologia rivela un dualismo irrisolto, che trova il suo apice nell’affermazione per cui l’uomo Gesù non avrebbe visto né mai vedrà la persona del Verbo. Più che di incarnazione del Verbo sembra doversi parlare qui di adozione.

Eppure questi limiti teologici, che soprattutto per quanto riguarda la cristologia non sembra possibile ridurre a una semplice questione di linguaggio, come oggi si tende a fare un po’ disinvoltamente, sono ampiamente riscattati dall’umanissima premessa e dalla commovente conclusione.

Nell’introduzione, dopo le domande di rito sulla salute, gli affari, i sapienti e la gente istruita, il visir racconta al vescovo la storia della sua guarigione miracolosa presso un monastero. È stata questa vicenda a fargli riaprire la questione del Cristianesimo, che intellettualmente considerava già chiusa, spingendolo a domandarsi, attraverso una tipica coppia concettuale dello sciismo, se l’interiorità (bâtin) della dottrina cristiana potesse racchiudere qualcosa di bello, malgrado la sua esteriorità (zâhir) per lui ripugnante. Si capisce ancor meglio la portata del cambiamento indotto nel visir dall’incontro con il monaco se si considera la sua esperienza precedente: il califfo che in Egitto aveva ordinato la strage della sua famiglia era stato sobillato da una cordata rivale, capitanata da uno scriba cristiano. Eppure il melograno e la zuppa di lenticchie del monaco, unita alle misteriose parole sulla benedizione connessa a quel luogo, hanno la meglio sul passato. Senza questa mossa personale, il dialogo degenererebbe fatalmente in disputa, come dichiara Elia nella frase più intelligente di tutto il testo: «Se lo scopo del visir […] nel farmi queste domande è conoscere la nostra religione e assicurarsi che essa è innocente dalle orribili cose che ci sono state attribuite, esporrò quanto so al proposito; ma se il suo scopo è discutere per il gusto di discutere, gli chiederò di esentarmene e farmi la grazia di lasciar cadere il discorso, passando ad altri argomenti non collegati alla religione e alla fede».

Ugualmente non si può non restare commossi, nella conclusione, dal coraggio del vescovo cinquantenne che, tornato al suo convento, redige di getto la sua professione di fede monoteista, prendendosi più di un rischio. E non è da sottovalutare la portata ecumenica – diremmo oggi – della sua dichiarazione, con quel singolare incipit «noi famiglia dei cristiani monoteisti». Con l’espressione “famiglia” (più letteralmente, “gruppo”, “tribù”), Elia intende infatti accomunare tutti i cristiani che si riconoscono nel Credo di Nicea, risalendo a monte della divisione prodottasi in Oriente con i concili di Efeso e Calcedonia. Malgrado tutto, i cristiani – anzi i nazareni, perché Elia utilizza il termine coranico – restano un’unica “tribù”.

Si potrebbe immaginare oggi, nella Mosul del califfo terrorista, un dialogo di questa profondità, intessuto di riferimenti ad Aristotele, al Corano e alla Bibbia? E il monastero presso cui il visir fece sosta esiste ancora o è già stato distrutto dalla furia iconoclasta dell’ISIS? Più di tanti discorsi, queste domande permettono di misurare il regresso di civiltà che ha investito quelle terre. E illustrano che perdita rappresenterebbe per l’umanità la definitiva cancellazione del patrimonio dell’Oriente cristiano.

 

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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Martino Diez, Pensare (e dialogare) provando a usare le categorie dell’altro, «Oasis», anno XI, n. 22, nnovembre 2015, pp. 98-100.

 

Riferimento al formato digitale:

Martino Diez, Pensare (e dialogare) provando a usare le categorie dell’altro, «Oasis» [online], pubblicato il 5 novembre 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/pensare-e-dialogare-provando-usare-le-categorie-dellaltro

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