Uno sguardo alla storia dei cristiani nel mondo arabo mostra una feconda dialettica tra radicamento nella propria tradizione e apertura verso le altre culture. Ma oggi come ieri questa interazione è possibile solo in presenza di regimi aperti all'alterità
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 14:53:31
Uno sguardo alla storia dei cristiani nel mondo arabo mostra una feconda dialettica tra radicamento nella propria tradizione e apertura verso le altre culture. Momenti forti sono stati la creazione di un umanesimo interreligioso nella Baghdad del X secolo e il rinnovamento ecclesiale all’epoca della Riforma cattolica, che ha preparato il Risorgimento arabo. Oggi come ieri tuttavia questa interazione è possibile solo in presenza di regimi aperti all’alterità e non ripiegati su un settarismo ossessivo.
Che futuro può esistere per la civiltà araba in un Medio Oriente dominato dal settarismo e dal fondamentalismo? Questa domanda, che ha iniziato a profilarsi già diversi decenni or sono, si è imposta nella sua forma più drammatica dopo l’ascesa dell’ISIS in Iraq e Siria. Vi è poi una seconda questione, non meno gravida di conseguenze, che riguarda in modo specifico le comunità cristiane della regione: ci sarà ancora posto per loro? Una risposta conclusiva a questi due quesiti, tra loro strettamente legati, non è probabilmente possibile. Tuttavia una visione d’insieme sul ruolo che i cristiani hanno storicamente svolto nella civiltà araba evidenzia alcune direttrici che, proiettate sul futuro, consentono di valutare a che condizioni una presenza cristiana nel Medio Oriente del XXI secolo sia ancora possibile.
L’obiettivo che ci proponiamo in questo articolo non è quindi rievocare le glorie del tempo passato, sostando malinconici a piangere sulle rovine del passato, come usavano fare i poeti dell’età preislamica (al-bukâ’ ‘alâ al-atlâl). Il nostro scopo è piuttosto gettare uno sguardo retrospettivo e sintetico sulla composita identità cristiana mediorientale, frutto di accumuli successivi, per giudicare in prospettiva quale progetto sia possibile nutrire per l’avvenire. E poiché è impossibile condensare in poche pagine una storia millenaria[1], ci concentreremo su due snodi fondamentali, cercando nell’ultima parte di trarne alcune lezioni valide anche per il nostro travagliato presente.
Un umanesimo arabo inter-religioso
Quando i musulmani, sotto la guida del secondo califfo ‘Umar (634-644), si lanciano fuori dai confini della Penisola arabica, s’impadroniscono nel giro di pochi anni di alcune tra le regioni più prospere e progredite del tempo. La Siria, l’Egitto e la Mesopotamia, per quanto dilaniate dal secolare conflitto che oppone bizantini e persiani, sono famose per le loro scuole di filosofia, scienze, diritto e teologia, che prolungano e irradiano il patrimonio classico. Inizialmente i conquistatori sono attratti dagli aspetti esteriori di questa civiltà: l’architettura, con i monumenti, i palazzi, le chiese e i monasteri, la tecnica, l’organizzazione amministrativa; lo testimonia il vocabolario arabo che in questi settori è ricco di prestiti da greco, siriaco, persiano e in misura minore dal latino. Ma ben presto i conquistatori iniziano a interessarsi anche alla cultura che queste realizzazioni materiali presuppongono. Così, sotto i primi califfi abbasidi prende avvio il movimento di traduzione dal greco all’arabo, che ha come proprio centro la nuova capitale Baghdad, fondata nel 762 sulle rive del Tigri. I traduttori, quasi tutti cristiani di lingua siriaca, possono far leva su un’esperienza consolidata in questo campo, in quanto già dal V secolo è in atto nel Levante un passaggio linguistico dal greco al siriaco, in particolare ad opera del sacerdote Sergio di Resh ‘Ayna (morto nel 536), sintomo di una reazione delle popolazioni locali all’influsso fino a quel momento pervasivo della cultura ellenistica.
L’appropriazione del patrimonio scientifico e filosofico avviene per tappe: dapprima la traduzione, quindi la glossa e infine la produzione di opere autonome. È il processo normale di ogni fenomeno d’acculturazione. Essa ha luogo in alcune scuole, inizialmente legate ai monasteri, ma successivamente indipendenti da essi. Mentre nelle prime generazioni dopo la conquista gli allievi sono tutti cristiani, progressivamente i musulmani aumentano di numero fino a diventare maggioritari.
È istruttiva in questo senso la biografia di al-Fârâbî, il celebre filosofo d’ispirazione ellenistica onorato in arabo del titolo di “secondo Maestro” (dopo Aristotele). Nato nell’872 nel lontano Turkestan, al-Fârâbî ebbe tre maestri di filosofia, tutti e tre cristiani nestoriani. L’ultimo e il più famoso fu Abû Bishr Mattâ Ibn Yûnus, che insegnava logica a Baghdad. Quando Abû Bishr morì, il 20 giugno del 940, al-Fârâbî, considerando conclusa la sua formazione, si trasferì da Baghdad ad Aleppo, presso il principe hamdanide Sayf al-Dawla, alla cui corte trascorrerà gli ultimi dieci anni della sua vita. Tra i discepoli di Abû Bishr e di al-Fârâbî a Baghdad spicca di nuovo un cristiano, Yahyâ Ibn ‘Adî (893-974), che sarà soprannominato “il capo dei logici” (ra’îs al-manâtiqa), e diventerà il più famoso filosofo aristotelico del suo tempo. A sua volta anche Yahyâ cura la formazione di un circolo di discepoli, tra i quali risaltano sei musulmani e quattro cristiani. Questa prevalenza dell’elemento islamico riflette probabilmente il nuovo dato demografico, per cui a partire dal 950 circa i cristiani non sono più maggioritari a Baghdad e in Iraq.
Al di là degli apporti dei singoli pensatori, la loro comune genealogia intellettuale testimonia la nascita di un umanesimo arabo inter-religioso. Cristiani, musulmani ed ebrei sono discepoli gli uni degli altri. Non è dettaglio da poco che Yahyâ Ibn ‘Adî abbia copiato due volte il grande commentario coranico di al-Tabarî (oggi stampato al Cairo in 30 volumi) per guadagnarsi da vivere!
Viceversa, lo stesso Yahyâ sarà citato positivamente dal famoso teologo musulmano al-Ghazâlî (1058-1111), come pure dal grande filosofo arabo ebraico Maimonide, morto al Cairo il 13 dicembre 1204, nella sua Guida dei perplessi (Dalâlat al-hâ’irîn).
Si forma così una nuova cultura mondiale, che possiamo definire “interconfessionale” perché è l’opera comune di sudditi dell’impero musulmano che appartengono alle diverse comunità religiose. Essa ha per lingua l’arabo, forgiato a Baghdad in modo da poter integrare tutte le scienze dell’epoca.
In effetti, quando Hunayn Ibn Ishâq (808-873), il più consapevole dei traduttori, si mette a lavorare sulle opere di Galeno, deve misurarsi con una lingua araba che è uno strumento ben mediocre per l’opera a cui si accinge. Per rendere numerosi concetti dovrà ricorrere a termini greci, siriaci e persiani, arricchendo così il lessico tecnico arabo. Di conseguenza, in uno dei suoi trattati Hunayn critica la lingua araba paragonandola al siriaco e sottolineandone le carenze a livello del vocabolario scientifico. Un secolo e mezzo più tardi, il vescovo Elia di Nisibi si spingerà ancora oltre. Rispondendo a quanti celebravano l’arabo come lingua perfetta per il fatto che essa possiederebbe cinquecento parole per designare il leone o il cammello, Elia opporrà loro la povertà dell’arabo in fatto di termini di medicina e farmacopea[2]. La ricchezza e modernità di una lingua infatti non si misura nel numero di sinonimi, ma nella capacità d’esprimere i concetti e le realtà della cultura globale del tempo.
I nostri autori siro-arabi medievali avevano ben percepito il problema soggiacente alle traduzioni: una lingua deve continuare ad arricchirsi adattandosi alle novità per non diventare una realtà moribonda che si spegne poco a poco per mancanza d’innovazione. Ecco un primo insegnamento per il presente: se la cultura araba vorrà continuare a esistere al di fuori di un ghetto confessionale, dovrà tornare a esprimere tutta la realtà del nostro tempo.
Il Risorgimento prima del Risorgimento
Trasportiamoci ora, con un salto temporale di diverse centinaia d’anni, alla seconda metà del XVI secolo. Il paesaggio culturale è totalmente mutato: l’impero abbaside è tramontato da tempo e i turchi hanno preso il posto di arabi e persiani nella guida del mondo islamico. Si respira un’aria di decadenza, la conservazione si è sostituita all’innovazione. Dopo essere state fieramente perseguitate sotto i mamelucchi, le minoranze cristiane riprendono un po’ di respiro con l’avvento del potere ottomano. L’impero infatti è pienamente inserito nella politica europea dell’epoca e questo permette ai cristiani di stabilire rapporti più stretti con l’Occidente.
È l’età della riforma cattolica e una figura chiave in Oriente ne è Giambattista Eliano (1530-1589), ebreo nato a Roma da una celebre famiglia di rabbini, convertitosi al Cattolicesimo e accolto nella Compagnia di Gesù dallo stesso Sant’Ignazio. Dopo una prima missione in Egitto, che si rivela fallimentare, Eliano è inviato in Libano a due riprese tra il 1578 e il 1582. Riesce a convocare un Sinodo della Chiesa maronita a Qannûbîn, nell’agosto 1580, che rafforza i tradizionali rapporti con Roma. Durante questi soggiorni Eliano concepisce un’idea rivoluzionaria: formare alcuni seminaristi maroniti a Roma, in un collegio specifico, in cui possano coltivare la loro tradizione all’interno del respiro universale della cattolicità. A Roma infatti essi avranno accesso alla cultura teologica in misura molto più ampia che tra le montagne del Monte Libano, sempre esposte al rischio di incursioni e razzie. Il Collegio Maronita è aperto nel 1584 con una bolla di Gregorio XIII e subito i giovani seminaristi si buttano a corpo morto nello studio di tutte le discipline, imparando le matematiche e le scienze, la storia e la geografia, ma soprattutto la filosofia, la teologia, la morale, il diritto canonico, l’esegesi e le lingue.
Di ritorno ad Aleppo, allora il centro urbano più importante della regione, o nel Libano, molti di questi giovani sacerdoti maroniti si sforzeranno di trasmettere nei sermoni e nell’insegnamento quotidiano quello che hanno ricevuto a Roma. Introducono così nuove forme di devozione e d’apostolato e rinnovano totalmente la predicazione. Rilanciano la vita monastica, modernizzandola e modellandola sulla vita religiosa occidentale. Di concerto con i numerosi missionari latini giunti in Oriente all’inizio del Seicento, cominciano a tradurre i manuali che hanno utilizzato a Roma o le opere spirituali che hanno maggiormente apprezzato. Sul piano intellettuale, ripercorrono il cammino dei cristiani di Baghdad nel IX e X secolo: in una prima fase traducono, quindi passano a commentare e infine producono opere originali ispirate dall’Occidente. Tutti i trattati importanti come la Summa Theologiae di San Tommaso (1225-1274) sono tradotti dal latino in arabo, mentre nel 1671 vede la luce la più bella opera dell’epoca in lingua araba, la prima traduzione integrale della Bibbia, impressa in eleganti caratteri latini e arabi e arricchita di numerose xilografie. La stampa infatti è introdotta in Oriente per rispondere alle necessità delle comunità cristiane.
Personaggio centrale di questo periodo è Germânos Farhât (1670-1732), vescovo maronita di Aleppo e vero artefice del rinnovamento integrale della Chiesa, tanto sul piano culturale che spirituale e pastorale. Uno dei suoi obiettivi principali è la ri-arabizzazione dei cristiani. In età ottomana infatti la conoscenza dell’arabo classico si era grandemente ridotta, non solo tra i cristiani, ma anche tra i musulmani, a causa della generale decadenza culturale e dell’influsso invadente del turco. Soltanto gli esperti di scienze religiose islamiche padroneggiavano ancora questa lingua. Germânos Farhât si mette innanzitutto alla scuola di un famoso shaykh musulmano, Sulaymân al-Nahwî, per impadronirsi perfettamente della lingua. Dà poi avvio alla sua riforma redigendo una grammatica araba basata interamente sui Vangeli, in tal modo imitando il procedimento dei musulmani che componevano le loro sulla base del Corano, e un manuale di stilistica illustrato con esempi tratti esclusivamente dai Vangeli. Questa scelta pedagogica si rivelò fondamentale. I cristiani infatti provavano delle reticenze verso l’arabo, che pure nella sua forma colloquiale aveva soppiantato da tempo le lingue originarie delle varie comunità, perché lo sentivano come estraneo, legata al Corano e all’Islam.
Germânos Farhât compone anche una bella apologia del Cristianesimo per i musulmani, primo autore moderno a riprendere questo genere dopo quattro secoli di silenzio e di ripiegamento imposto dalle persecuzioni. Attorno a lui si forma nel tempo una squadra di letterati cristiani che rinnova in profondità la lingua araba. Non altrettanto successo arride purtroppo a questo movimento sul piano strettamente ecclesiale: i tentativi di unione con Roma riescono solo parzialmente e ogni Chiesa locale, con l’eccezione di quella maronita, finisce per dividersi in due branche, una cattolica e l’altra ortodossa.
In ogni caso, se Risorgimento (in arabo Nahda) è il termine con cui si designa abitualmente il risveglio della cultura araba nell’Ottocento, è a mio avviso più che legittimo parlare, per le comunità della Grande Siria, di un Risorgimento prima del Risorgimento, specificamente cristiano nelle origini e nelle finalità, che ha preparato la strada al grande rinnovamento del mondo arabo.
Qualche lezione
Quello che colpisce ripercorrendo questi due episodi è che i cristiani nel mondo arabo sono stati in generale uomini aperti alle altre culture, pur essendo ben radicati nella propria. Viceversa, quando uno dei due elementi è venuto a mancare, l’interazione con l’ambiente circostante si è interrotta. I cristiani hanno svolto una funzione di ponte tra due religioni e due mentalità: questi autori sono cristiani, certamente, ma culturalmente parlando sono anche musulmani.
Personalmente non mi vergogno di dire che ho acquisito molto dall’Islam sul piano culturale, attraverso la lingua, le usanze, un certo modo di agire, etc. Ciò che dovrebbe caratterizzare i cristiani – e in un certo modo distinguerli dai musulmani – non è che siano meno radicati di questi nella cultura araba, ma che lo siano restando aperti alle altre culture: la cultura ellenistica al tempo di Hunayn Ibn Ishâq e Yahyâ Ibn ‘Adî; la cultura europea, e specialmente italiana, del Collegio Maronita e di Germânos Farhât, e oggi naturalmente la cultura europeo-americana. Questa funzione di ponte si gioca del resto anche nel senso opposto: sono stati infatti i cristiani a trasmettere agli occidentali le prime informazioni scientifiche sul mondo musulmano.
I cristiani orientali sono quindi chiamati dalla loro storia a svolgere una funzione di discernimento, che li renda capaci di cogliere ciò che c’è di positivo nelle culture circostanti, integrando gli elementi allogeni. La cultura infatti non è un blocco, un pezzo di pietra. È vita, è in continua evoluzione. Quella dei cristiani d’Oriente è costituita dal patrimonio greco, siriaco, arabo, musulmano e occidentale e da tanti altri elementi.
Ma che ne sarà domani? Che ne è già oggi? Occorre riconoscere realisticamente che il ruolo culturale dei cristiani arabi è stato possibile a una condizione precisa: l’esistenza di regimi musulmani aperti all’alterità. Quando il decimo califfo abbaside al-Mutawakkil (847-861) diede il via a una politica fanatica e persecutoria contro tutti i non sunniti, che si trattasse di sciiti o di cristiani, il risultato fu una battuta d’arresto molto netta nella produzione araba cristiana. Al contrario, sotto il suo predecessore al-Ma’mûn (813-833), solo qualche decennio prima, il clima di grande apertura si era tradotto nella pubblicazione di decine di trattati da parte dei cristiani arabi, che si illustrarono per il loro contributo alla civiltà dell’epoca.
La millenaria vicenda dei cristiani arabi consegna loro il compito meraviglioso e nobile di creare una società sempre aperta al meglio, in piena solidarietà con il passato e in evoluzione continua verso un futuro da edificare. Ma non lo potranno fare senza il sostegno dei musulmani. Ed è proprio questo sostegno che manca oggi in Medio Oriente, non solo, com’è ovvio, nei territori controllati dai criminali jihadisti, ma anche in tante espressioni di diffidenza e discriminazione che sono sintomi di un clima culturale diffuso. Il jihadismo infatti non nasce dal nulla, ma è stato alimentato da decenni di propaganda islamista fanatica.
Mentre però in passato i cristiani potevano cercare rifugio in alcune aree remote, aspettando che la tempesta si calmasse e i tempi ritornassero più favorevoli, la tecnologia moderna rende questa opzione del tutto irrealistica. La posta in gioco diventa tutto o niente, vita o morte. Vita o morte dei cristiani orientali, certamente, ma anche e non di meno, vita o morte di un mondo arabo musulmano che rischia sempre di più di chiudersi in una ripetizione autistica dell’identico, tagliandosi così definitivamente fuori dalle forze vive che fanno oggi la storia.
I cristiani arabi hanno dunque un ruolo essenziale a livello socio-politico ed etico-culturale, per mantenere o rilanciare la pace e la giustizia: 1) la pace politica, tra Israele e il mondo arabo, basata sulla giustizia e sugli accordi internazionali rappresentati dall’ONU; 2) pace e giustizia per applicare e rispettare tutti i punti della Carta universale dei diritti umani, in particolare l’uguaglianza assoluta tra uomo e donna, musulmano e non musulmano; 3) la pace sociale, per cancellare il divario scandaloso tra i ricchissimi e i poverissimi all’interno del mondo arabo; 4) la pace religiosa all’interno dell’Islam, tra sunniti e sciiti, causa principale della guerra attuale nel Medio Oriente; 5) pace culturale per aprire il mondo arabo e islamico alla modernità, senza cadere nel secolarismo o in una concezione meramente individualistica della libertà.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Per una trattazione più ampia rimandiamo a Samir Khalil Samir, Rôle culturel des chrétiens dans le monde arabe, (Cedrac, Beyrouth 20052), di cui il presente articolo rappresenta al contempo una sintesi e un’attualizzazione. Il volume è disponibile anche in traduzione italiana a cura di Paola Pizzi (Ruolo culturale dei cristiani nel mondo arabo, Edizioni Orientalia Christiana, Roma 2007). Edizione araba: Dawr al-masîhîyyîn al-thaqâfî fî l-‘âlam al-‘arabî, (Dâr al-Mashriq, Bayrût 2004).
[2] Cfr. Samir Khalil Samir, Langue arabe, logique et théologie chez Élie de Nisibe, in «Mélanges de l’Université Saint-Joseph» 52 (1991-1992), Beyrouth 1995, pp. 227-367. Si vedano in particolare le pp. 305-313.