In Bahrein, Papa Francesco ha proseguito il cammino avviato da qualche anno con il Grande Imam di al-Azhar. È un momento favorevole per la comprensione tra cristiani e musulmani, ma la proliferazione di iniziative nasconde anche dei limiti di cui bisogna tenere conto

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:19:56

Uno dei leitmotiv dell’attuale pontificato è il ricorrente invito ad «avviare processi» più che «occupare spazi». Come il Papa ha scritto nella Evangelii Gaudium, «si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci». Il dialogo interreligioso, e soprattutto quello islamo-cristiano, è uno degli ambiti in cui Francesco sembra seguire questa bussola con particolare determinazione. Con il viaggio in Bahrein appena concluso, sono infatti tredici i Paesi a maggioranza musulmana, o con una significativa presenza musulmana, finora visitati dal Pontefice.

 

Il ritorno di Francesco nel Golfo si pone in forte continuità con le precedenti visite nella regione. Anche il Bahrein, come gli Emirati Arabi Uniti, ospita infatti consistenti comunità di immigrati cristiani ed è un crocevia di popoli e culture. Dopo Abu Dhabi, inoltre, il copione delle relazioni islamo-cristiane è chiaramente fornito dal Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato insieme al Grande Imam di al-Azhar nella capitale emiratina nel 2019. La cooperazione tra Francesco e al-Tayyib, protagonista anche lui al Forum “Oriente e Occidente per la convivenza umana” al quale ha preso parte il Papa in Bahrein, è ormai un paradigma della fraternità che Francesco ha elevato a cifra del suo pontificato. Sul tema è tornato il Papa nella conferenza stampa durante il volo di ritorno dalla penisola araba, rivelando l’origine fortuita del documento, nato da un pranzo improvvisato con il Grande Imam, e spendendo belle parole sull’amicizia che ormai lo lega allo shaykh: «Voglio dirlo per giustizia, mi sembra giusto che voi sappiate come il Signore ha ispirato questa strada. Io non sapevo neppure come si chiamava il Grande Imam, e poi siamo diventati amici e abbiamo fatto una cosa come due amici. E adesso abbiamo parlato insieme, ogni volta che ci incontriamo».

 

Ma la tappa in Bahrein è stata anche l’occasione per rilanciare il dialogo “triangolare” (cattolico-sunnita-sciita) avviato dal Papa con la sua visita in Iraq del marzo 2021 e lo storico incontro di Najaf con l’Ayatollah Sistani. Conclusosi il viaggio di Francesco, anche al-Tayyib sembrava pronto a raggiungere l’importante autorità sciita, ma il progetto non ha ancora avuto seguito.

 

Il piccolo regno della penisola araba, governato da una dinastia sunnita ma abitato da una popolazione prevalentemente sciita, era il palcoscenico più adatto per rimettere in moto il processo iniziato da Francesco in Iraq. Nel discorso pronunciato in chiusura del Forum di Awali, il Grande Imam si è rivolto agli sciiti dicendosi pronto, insieme agli ulama di al-Azhar e al Consiglio dei Saggi musulmani, a sedersi con loro «allo stesso tavolo» per «voltare pagina».

 

Non sarebbe in realtà un avvenimento inedito. Il primo congresso sunnita-sciita si tenne a Najaf quasi tre secoli fa, nel 1743. Alla fine del XIX secolo, un declinante Impero ottomano tentò un riavvicinamento con gli sciiti in nome della necessaria unità panislamica di fronte alla pressione europea. Nel corso del Novecento furono diverse le occasioni di confronto tra le due grandi branche dell’Islam, a partire dal Congresso islamico di Gerusalemme del 1931. Nel 1959 fu proprio uno dei predecessori di al-Tayyib alla carica di Grande Imam di al-Azhar, lo shaykh Mahmud Shaltut, a emettere una fatwa che riconosceva il diritto ja‘farita (cioè sciita duodecimano, la componente maggioritaria dello sciismo) quale quinta scuola di diritto islamico, accanto alle quattro scuole sunnite. Il suo parere, tuttavia, non è ritenuto un precedente valido dagli altri giuristi e qualcuno ha addirittura messo in dubbio che Shaltut labbia mai espresso. Nel 2004, il Messaggio di Amman, promosso dal re di Giordania per ricomporre le fratture interne all’Islam, ha ribadito la legittimità di otto scuole giuridiche, due delle quali sciite. Secoli di polemiche e la difficoltà a trovare un terreno dottrinario comune hanno però vanificato qualsiasi tentativo di reale pacificazione. E negli ultimi decenni, la rivalità regionale tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita e i tanti conflitti esplosi in diversi Paesi del Medio Oriente hanno contribuito a esacerbare le tensioni confessionali. Se i fallimenti del passato impongono molta prudenza, l’iniziativa di al-Tayyib non potrebbe essere più opportuna.

 

I conflitti intra-islamici non sono stati l’unico argomento all’ordine del giorno. Una delle novità positive degli appuntamenti di dialogo più recenti è anzi l’ampliamento tematico della conversazione islamo-cristiana, dopo che per diversi anni l’estremismo religioso aveva pressoché monopolizzato il dibattito. Benché i problemi siano tutt’altro che svaniti – prima la pandemia e ora la guerra in Ucraina hanno posto l’umanità di fronte a nuove, drammatiche sfide – il declino del jihadismo globale ha liberato il dialogo interreligioso da una logica che rischiava di diventare ossessivamente sicuritaria. Nell’incontro tra il Papa e i membri del Consiglio dei Saggi musulmani, per esempio, si è insistito sul contributo degli uomini di religione alla salvaguardia del creato, un cantiere potenzialmente molto fecondo per il dialogo tra cristiani e musulmani. Nel suo intervento al Forum di Awali anche il Grande Imam ha spaziato su varie tematiche: ha richiamato l’attenzione sull’emergenza educativa delle giovani generazioni, sottolineato le gravi distorsioni nel sistema internazionale e proposto una teoria islamica dei rapporti tra civiltà, fondata sulla conoscenza e il rispetto reciproco. Peraltro, mentre solo due mesi prima, in Kazakistan, aveva di fatto invitato a una “Santa alleanza” delle religioni contro la degenerazione morale dell’Occidente e l’ateismo, in Bahrein lo shaykh ha avuto parole più sfumate e concilianti verso il mondo occidentale, per quanto la sua idea, recepita anche dal documento sulla Fratellanza umana, di uno scambio tra la spiritualità e la saggezza dell’“Oriente” e il progresso scientifico e tecnologico dell’“Occidente” rimanga quantomeno riduttiva.

 

Appena due giorni dopo la fine dell’evento in Bahrein si è aperto ad Abu Dhabi il “Forum per la Pace”, con la partecipazione di numerose personalità musulmane, cristiane ed ebree. Questa proliferazione di appuntamenti è allo stesso tempo un punto di forza e un limite dell’attuale fermento nel campo del dialogo tra religioni e culture. Dopo decenni di connivenza con ideologie e movimenti islamisti, diversi Stati musulmani stanno investendo molto sulla promozione della comprensione reciproca, della tolleranza e della convivenza, organizzando grandi manifestazioni e offrendo opportunità di scambio e confronto ai leader religiosi di tutto il mondo. Se questo attivismo contribuisce a creare un clima di fiducia reciproca, è innegabile che esso è anche subordinato al perseguimento di determinati obiettivi politici non sempre coincidenti con i valori proclamati negli incontri di dialogo.

 

Due esempi aiutano a inquadrare il problema. Negli ultimi anni, alcune istituzioni islamiche sono state molto impegnate a contrastare i discorsi estremisti e jihadisti. Nessuna di queste però si è pronunciata sul jihad dichiarato dal leader ceceno Ramzan Kadyrov contro l’Ucraina e più in generale contro il “satanismo” della cultura occidentale. La ragione di questo silenzio? Probabilmente gli ottimi rapporti che Kadyrov intrattiene con le leadership politiche e religiose di alcuni Paesi del Medio Oriente e del Golfo.

 

Un rilievo simile può essere sollevato in merito all’uso della categoria di “cittadinanza”, regolarmente invocata nelle grandi conferenze islamiche e interreligiose come risposta ai progetti islamisti di riesumare la pratica della dhimma, lo statuto di subordinazione previsto dalla giurisprudenza islamica classica per i non-musulmani, segnatamente per cristiani ed ebrei. L’insistenza sulla cittadinanza ha il salutare scopo di affermare la parità tra musulmani e non-musulmani all’interno dello Stato nazionale. Anche il Documento sulla Fratellanza umana invita a «impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze». Tuttavia, se il riconoscimento della parità di diritti tra fedeli di religioni diverse è ormai un’idea consolidata non solo del dialogo islamo-cristiano ma anche di una parte del pensiero islamico contemporaneo, meno pacifica è la definizione dei diritti di cui i soggetti possono godere di fronte a un potere politico che molto spesso ha i tratti dell’autoritarismo. A questo proposito, prima che il Papa partisse per il Bahrein, diverse organizzazioni hanno sollevato la questione della repressione esercitata nel regno del Golfo in particolare contro gli attivisti sciiti e della presenza di prigionieri politici per i quali è già stata decretata la condanna a morte. In un tweet, una delle principali autorità sciite del Bahrein, l’Ayatollah ‘Isa al-Qasim, ha anche invitato i partecipanti dell’incontro “Oriente e Occidente per la convivenza umana” a non prestar fede alle dichiarazioni di tolleranza del governo bahreinita.

 

Papa Francesco non ha eluso il problema e nel suo discorso davanti alle autorità civili del regno ha affermato che le norme previste dalla Costituzione dello Stato relativamente alla libertà di coscienza e di religione sono «impegni da tradurre costantemente in pratica, perché la libertà religiosa diventi piena e non si limiti alla libertà di culto; perché uguale dignità e pari opportunità siano concretamente riconosciute ad ogni gruppo e ad ogni persona; perché non vi siano discriminazioni e i diritti umani fondamentali non vengano violati, ma promossi», aggiungendo una notazione puntuale sul «diritto alla vita di chi viene punito».

 

Le indicazioni del Papa sono un invito non solo a proseguire il cammino del dialogo, ma anche ad approfondirlo.

 

 

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