Dalle battaglie del Profeta e quelle dei califfi, il colore dei vessilli ha sempre svolto un ruolo importante. Ora Isis attinge dalla storia per rafforzare la sua propaganda
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:00
Il segreto di una bandiera sta nel fatto che unisce un popolo e crea unità. La bandiera è un segno e una prova di unità della loro parola e dei loro cuori; è come se fossero un solo corpo, uniti da un legame più forte di quello di sangue. Sul campo di battaglia non rinunciano alla vittoria finché la loro bandiera sventola e rende più intensi il loro sforzo e la loro passione. Ma se la bandiera cade, si lasciano invadere dalla paura e dal terrore: alcuni fuggono, altri si disperdono
Ahmad Cevdet Pasha, storico e ufficiale ottomano – XIX secolo.
Era il gennaio del 2007 quando al-Fajr, l’ente di comunicazione di al-Qaida, diffuse per la prima volta l’immagine della bandiera dell’allora Stato Islamico in Iraq. All’inizio il fatto non destò particolare sorpresa perché le bandiere nere sono da sempre legate alla storia islamica. Secondo gli storici musulmani, il Profeta e i suoi primi successori, i Califfi ben guidati, compirono le loro conquiste all’insegna della bandiera nera, mentre gli abbasidi fecero degli stendardi neri l’emblema della loro dinastia. Il colore nero, associato alle bandiere e spesso anche agli abiti, è quindi l’icona dell’ascesa della nuova religione, delle conquiste islamiche e della lotta per il potere califfale.
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È alla luce di questa storia che dev’essere interpretata la bandiera dello Stato Islamico. A illustrare questo connubio ci hanno pensato i webwriter arabi, che non hanno fatto mancare trattati sulle origini e le ragioni storiche delle insegne, argomentandone la legittimità a colpi di hadith e versetti coranici. Tra i tanti, ci limitiamo qui a considerarne due particolarmente esemplificativi: il testo redatto da un gruppo di militanti anonimi dello Stato Islamico, e la dichiarazione rilasciata all’inizio del 2015 da Hizb al-Tahrir, partito politico d’ispirazione islamista.
Le bandiere nere del Profeta
Imitare il Profeta, in cui, secondo il Corano si trova “un esempio buono per chi spera in Dio e nell’ultimo giorno” (33,21), e i suoi compagni è il fulcro dell’ideologia salafita che, unita alla tendenza jihadista, ispira il modus operandi dello Stato Islamico. L’adozione della bandiera nera da parte dell’Isis rientra perciò in questo schema. Il Profeta e i suoi compagni, racconta la tradizione, usavano scendere in battaglia preceduti da una bandiera nera (râya) e un vessillo bianco (liwâ’) che recavano la scritta, in bianco e in nero rispettivamente: “Non vi è altro dio che Iddio e Maometto è il suo profeta”.
Fin da subito la prima divenne il segno distintivo dei capi dei reparti dell’esercito. Maometto in persona, mentre guidava il suo esercito all’assedio di Khaybar nel 629, consegnò la bandiera nera ad ‘Ali: “Domani darò la bandiera a un uomo che ama Dio e il suo inviato e che è amato da Dio e dal suo inviato”. La diede ad ‘Ali.
Il vessillo bianco divenne invece il segno distintivo del comandante dell’esercito, come proverebbero un paio di detti riportati dai tradizionisti Ibn Majah (“Il Profeta entrò a Mecca il giorno della conquista brandendo il vessillo bianco”) e al-Nasa’i (“Quando il Profeta nominò Usama bin Zayd a capo dell’esercito per conquistare i romani, annodò il suo vessillo con le sue stesse mani”). Le bandiere erano pertanto un segno del sostegno divino e scendere in battaglia senza di esse non era di buon auspicio. Nel suo commento agli hadith di al-Bukhari, al-‘Asqalani (m. 1448) spiegava che “è raccomandabile portare le bandiere in guerra. È bene che la bandiera sia con il comandante o con chi è investito di questo compito durante la guerra”.
Il nome stesso con cui era nota la bandiera del Profeta, l’Aquila, suggeriva sempre secondo al-‘Asqalani un senso di grandezza e forza. Fin dalle loro origini le bandiere nere conobbero una rapida diffusione per mano dei soldati, che le esibivano di ritorno dalla guerra in segno di vittoria, come narra tra gli altri un detto riportato da al-Bukhari: “Entrando nella moschea vidi il Profeta che predicava dal pulpito (minbar) e un uomo con una spada a tracolla. Ecco sventolare le bandiere nere! Domandai: ‘Che cosa sono queste bandiere?’ Dissero: ‘‘Amr bin al-‘As e il suo esercito sono tornati dalle spedizioni’”.
Ma oltre a quelle nere, sul campo di battaglia – racconta la tradizione – comparivano spesso anche bandiere colorate, che fungevano da segno distintivo della singola tribù, come ricordano al-Tabarani (m. 971) (“Il Profeta annodò le bandiere degli Ansar e le fece gialle”), e Ibn Abu ‘Asim (m. 900) (“Il Profeta annodò la bandiera rossa dei Banu Sulayman”).
L’apocalisse delle bandiere nere
Nella storia islamica l’idea della bandiera nera è inoltre legata a un certo numero di tradizioni messianiche secondo le quali il Profeta avrebbe preannunciato la sofferenza che avrebbe colpito la sua famiglia dopo la sua morte. Dall’Oriente però sarebbero giunte bandiere nere che avrebbero guidato i suoi discendenti alla vittoria finale contro il governo empio consentendo loro di restaurare la giustizia.
La gente della mia casa che verrà dopo di me cadrà in disgrazia, sarà esiliata e allontanata finché dall’Oriente verrà un popolo con le bandiere nere. Essi chiederanno il bene e non gli sarà dato, allora combatteranno e vinceranno e sarà dato loro ciò che avevano chiesto ma essi non lo accetteranno. Essi consegneranno le bandiere nere a un uomo della mia casa – recita un hadith di Ibn Majah.
Questa e altre tradizioni simili conobbero una certa diffusione negli ultimi anni del califfato omayyade (661-750), quando erano sfruttate dai loro rivali abbasidi nel tentativo di aizzare le folle contro la dinastia. A questa propaganda i califfi in carica reagirono con il pugno di ferro: chi avesse diffuso tali tradizioni sarebbe stato perseguitato. Ma a nulla valsero le minacce e per molti anni quelle tradizioni circolarono in tutto il Califfato, nonostante la loro autenticità fosse messa in discussione già dagli storici dell’epoca.
Il colore della vendetta
Con l’avvento al potere degli abbasidi, che governarono l’impero dal 750 al 1258, le bandiere nere diventarono l’emblema del Califfato, e gli abiti neri simbolo della loro elezione. Le ragioni di questa precisa scelta cromatica non sono del tutto chiare e hanno dato adito a diverse ipotesi. Secondo alcuni esperti, gli abbasidi avrebbero scelto il nero in contrasto con il bianco della bandiera omayyade, una teoria che però molti ritengono infondata per mancanza di prove dirimenti. Per altri il nero sarebbe stato un segno di lutto per la scomparsa di Yahya bin Zayd, discendente di ‘Ali morto nel Khorasan nel 125/743. Ma anche questa teoria sarebbe fragile perché – spiegano gli storici – all’epoca il colore nero non era necessariamente un segno di lutto.
Gli abiti neri potrebbero piuttosto essere un segno di vendetta, ciò che del resto erano già in epoca preislamica. Una tradizione vuole che il celebre poeta preislamico Imru’ al-Qays accogliesse una delegazione della tribù dei Banu Asad, che aveva ucciso suo padre Hujr, indossando abiti e turbante nero in segno di vendetta. Quest’abitudine si sarebbe consolidata in seguito alla battaglia di Uhud (625), che segnò la sconfitta dei musulmani per mano dei pagani meccani. Da quel momento i partigiani di Maometto avrebbero indossato abiti neri.
Sotto il governo abbaside la tradizione degli abiti neri si sarebbe affermata con il secondo califfo della dinastia, al-Mansur, il quale decretò l’obbligo per tutti gli abitanti di Kufa di indossare vestiti rigorosamente neri. Una regola difficile da far rispettare nel Califfato: in Egitto occorsero vent’anni perché gli imam adottassero l’abitudine di vestire in nero durante la preghiera. Da questa tradizione ha origine l’epiteto con il quale i califfi abbasidi sarebbero stati ricordati nella storia: i musawwida – quelli che vestono di nero.
Propaganda e contro-propaganda
Dagli abiti e dalle bandiere nere i califfi abbasidi traevano legittimità e autorevolezza. Essi si adoperarono così a creare una propaganda ad hoc per sancire il legame tra il colore nero, il Profeta e la loro dinastia. In ricordo delle battaglie epiche il nero non poteva che essere un segno di benedizione della famiglia del Profeta. In più occasioni però questa propaganda assunse connotazioni violente. Ciò accadde nel momento in cui gli abbasidi rivendicarono di essere gli unici veri eredi di Maometto e della bandiera nera, a scapito dei loro rivali alidi (discendenti anch’essi da Maometto, ma attraverso ‘Ali). La storia narra che il Califfo Harun al-Rashid addirittura esiliò il tradizionista Abu Bakr bin Ayyash, reo di aver diffuso una tradizione secondo la quale Maometto avrebbe donato la bandiera nera ad Amr bin al-‘As, comandante che guidò la conquista militare in Egitto nel 640. Per contro gli abbasidi favorirono la diffusione di uno hadith secondo il quale l’Angelo Gabriele avrebbe predetto il governo dei discendenti di al-Abbas, lo zio del Profeta, il cui abbigliamento sarebbe stato nero.
Le bandiere e gli abiti neri erano ormai diventati parte integrante e irrinunciabile della propaganda e contro-propaganda nella lotta per il potere terreno, ed erano destinate a comparire anche nelle tradizioni che narrano della vita dopo la morte. Muslim, noto tradizionista e autore di una delle raccolte canoniche di hadith, riporta che “il giorno della resurrezione ogni traditore avrà una bandiera” e il poeta preislamico Imru’ al-Qays porterà lo stendardo dei poeti nel Fuoco.
La bandiera dell’ignoranza e la fine dei tempi
Nei secoli, le narrazioni apocalittiche non hanno mai abbandonato la letteratura islamica e quando le bandiere nere sono ricomparse in Siria e in Iraq nel 2007 hanno risvegliato millequattrocento anni di tradizioni mai morte. Ai significati classici sono andati aggiungendosene altri, frutto di interpretazioni delle vicende che hanno segnato la storia contemporanea del Medio Oriente. Per esempio dal detto di Muslim “Chi combatte sotto l’egida di una bandiera d’ignoranza (jâhiliyya), insorge in difesa della solidarietà tribale, esorta la solidarietà tribale o fa trionfare la solidarietà tribale, e viene ucciso, muore una morte pagana”, i contemporanei avrebbero tratto un monito contro gli Stati nazionali. Secondo questa tradizione, il musulmano si troverebbe a dover scegliere se combattere sotto l’egida della bandiera dell’Islam o della bandiera dell’ignoranza – cioè della bandiera del proprio Paese. La bandiera nera quindi preserverebbe i musulmani dalla possibile morte in stato di jâhiliyya, paganesimo, mentre chi perde la vita combattendo a favore di un popolo, una fazione, un tiranno o un sovrano che non sia Dio, muore una morte pagana. A questo proposito, nel suo documento Hizb al-Tahrir critica la formazione degli Stati nazionali e le fatwe che giustificano
L’adozione della bandiera dell’ignoranza di Sykes-Picot, creata dai francesi e dagli inglesi per consacrare l’idea di nazionalismo (wataniyya). Questi hanno creato per ogni Paese islamico una bandiera che lo rappresenta. Tali bandiere sono diventate simbolo di divisione e frammentazione e hanno sostituito l’Aquila, la bandiera del Profeta. Quei coloni infedeli, nemici dell’Islam, hanno chiesto ai loro agenti, i governanti musulmani, di farsi protettori delle bandiere della divisione perché sanno che essere fedeli a queste bandiere significa essere fedeli agli infedeli colonizzatori.
Oltre alle accuse rivolte agli Stati nazione e ai loro governanti musulmani, ad alimentare lo spirito apocalittico dello Stato Islamico contribuiscono le narrazioni, molto diffuse sul web, dello scontro nel Levante tra le bandiere nere di Isis e le bandiere gialle del “partito di Satana”, Hezbollah. Alla luce di questa narrativa, gli scontri in corso in Siria tra milizie sciite, qaediste e dello Stato Islamico, gruppi di ribelli e alleati del Presidente Bashar al-Asad sarebbero segni che annunciano la prossimità dell’Ora e preluderebbero alla comparsa e alla battaglia finale tra il Messia e l’Anticristo. La loro identità ha suscitato un grande dibattito e vivaci discussioni tra i webwriter. Per i propagandisti dello Stato Islamico il Mahdi non può che essere un uomo uscito dalle fila delle bandiere nere, mentre all’Anticristo possono essere attribuite identità diverse, ma l’idea più diffusa resta quella che lo vede incarnato nelle milizie sciite di Hezbollah.
Queste narrative non fanno però i conti con la storia: esse dimenticano infatti che le bandiere nere erano tradizionalmente associate agli sciiti e a coloro che vedevano nella famiglia del Profeta i legittimi eredi del Califfato; e che a ispirare le profezie delle bandiere gialle furono i berberi del nord Africa che a metà dell’ottavo secolo si ribellarono prima ai governatori omayyadi e poi a quelli abbasidi. Nasce anche attraverso questi riferimenti simbolici quella che William McCants, esperto di narrativa dello Stato Islamico, definisce un’“apocalisse settaria” in cui tutti, sunniti e sciiti, rivendicano un ruolo da protagonisti nello scontro finale tra bene e male.
Bibliografia essenziale
William McCants, The Isis Apocalypse. The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State, St. Martin’s Press, New York 2015
Jean-Pierre Filiu, L’apocalisse nell’Islam, Obba Oedizioni, Milano 2011
Mashrû‘at al-râya fî al-Islâm disponibile su JustPaste.it (consultato il 19 febbraio 2016)
Bayân Hizb al-Tahrîr, disponibile su Hizb-ut.Tahrir, (consultato il 19 febbraio 2016)
Halil ‘Athamina, The Black Banners and the Socio-Political Significance of Flags and Slogans in Medieval Islam, «Arabica» 36 (1989), pp. 307-326
Moshe Sharon, Black Banners from the East: The Establishment of the Abbasid State: Incubation of a Revolt, ACLS Humanities E-Book, New York 2013