Nel film Cafarnao, la regista libanese Nadine Labaki racconta i protagonisti invisibili della capitale del Paese dei Cedri. Una realtà drammaticamente cupa, illuminata da flebili raggi di luce.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:20
Se è vero che, come afferma la Banca mondiale, la percentuale di popolazione libanese che vive in condizioni di povertà è passata in pochi mesi – dal marzo 2020 ad oggi – dal 45 al 60%, ben venga un film come Cafarnao – caos e miracoli, della regista libanese Nadine Labaki, a raccontarne i protagonisti invisibili. Soprattutto i bambini, costretti a fare i garzoni, a portare pesi, a chiedere la carità e a stare lontani dalla scuola. Di questo film, è interessante tutto: la storia, gli interpreti, l’autrice e anche il dibattito che ha suscitato al festival di Cannes dove ha vinto, nel 2018, il Premio della Giuria, accompagnato da una standing ovation di 15 minuti, per poi collezionare trionfi in tutto il mondo. Cominciamo dalla fine: un film molto amato, arrivato fino alla candidatura all’Oscar, per la forza espressiva con cui racconta la vita di Zain, un ragazzino di uno dei sobborghi più poveri di Beirut, che viene umiliato e sfruttato prima di tutto dalla famiglia. Ma anche un film accusato di poverty porn, la peggiore delle colpe, che consiste nell’utilizzare immagini di povertà estrema per guadagnarci su. Per dire, un autore come De Sica sarebbe finito in prigione a vita. Non scherziamo, la storia del bambino Zain – che cresce in una famiglia numerosa e sciagurata, scappa per riprendersi la sua vita, finisce a fare da baby sitter al figlio di una immigrata etiope con documenti falsi, torna a casa per scoprire che l’adorata sorella, costretta a sposare il padrone della casa dove la famiglia vive a sbafo, è morta di parto a 11 anni e finisce in carcere per averne accoltellato il marito – non ha ruffianerie da scontare.
È una storia che la regista e attrice libanese, al suo terzo film, ci ha messo anni a realizzare, piena com’è di attori letteralmente presi dalla strada. Un film, dice lei, che solo il marito Khaled Mouzanar, compositore, cantautore e produttore, poteva accettare di realizzare. I due sono una coppia affascinante: belli da morire, creativi, capaci di raccontare una terra, il Libano, piena di contraddizioni. Non ultima, quella che vede diverse comunità cristiane e musulmane abbracciarsi e combattersi. A questo tema, la Labaki ha dedicato i due film precedenti, Caramel e E ora dove andiamo?, diversi che di più non si potrebbe da Cafarnao. Una commedia riuscitissima in un negozio di shampiste, Caramel, dove si discute di attentati mentre si prepara la ceretta; un bizzarro musical al femminile il secondo film, dove le abitanti di un piccolo villaggio usano droga, sesso e rock’n roll in salsa libanese per calmare gli animi maschili, contagiati dalla guerriglia a sfondo religioso che si svolge nei Paesi vicini.
Niente di tutto questo in Cafarnao – caos e miracoli. A proposito del titolo, il villaggio citato nei Vangeli come il luogo natale di Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni e Matteo, il luogo dove Gesù insegna nella sinagoga e fa miracoli, c’entra sì e no. Perché è vero che il termine cafarnao rimanda all’idea di disordine (secondo la Treccani, “per metafora nata dalla gran moltitudine accorsa ad ascoltare Gesù, luogo di confusione”); ma è vero pure che qualche miracolo, in questa terra di nessuno, accade. Ed è la luce che illumina e accende un film altrimenti nerissimo e senza speranza. Ma veniamo a Zain e agli altri interpreti, compresa la regista, che si ritaglia il ruolo significativo di avvocato del bambino quando lui compare in tribunale per denunciare i genitori di averlo messo al mondo. Labaki racconta che il piccolo Zain Al Rafeea, in realtà nato nel 2004 in Siria, all’epoca del film immigrato in Libano e protagonista di una storia molto, troppo vicina a quella narrata dal film, oggi è un adolescente sereno, che vive con la famiglia e frequenta la scuola in Norvegia. E con lui, tutti gli altri bambini del film. «A Cannes, come agli Oscar» racconta Labaki, «sapevo di essere di fronte a una platea che poteva e può davvero fare la differenza e cambiare le cose. Solo questo era importante, ci pensavo ad ogni singolo incontro». Il cinema può cambiare la realtà? Non proprio e non sempre, però a volte può inserirsi tra la rappresentazione delle cose e la nostra coscienza. E a volte qualcosa cambia. Spielberg – racconta Nadine – ha visto due volte Cafarnao e l’ha invitata a cena per parlare del film “così emozionante”.
Come raccontare un quotidiano spaventosamente drammatico e severo in un’opera di finzione? Forse è questo il nodo più fragile del film, un linguaggio che arranca dietro alla storia, dominandola a fatica. La Labaki ce la mette tutta: imposta una cornice giudiziaria dove il ragazzino, già in prigione per aver accoltellato il marito della sorellina morta, chiama davanti al giudice i genitori per chiedere conto della vita che gli hanno dato. Credibile o meno, questo escamotage permette alla regista di raccontare tutta la storia in flashback, come se la vedessimo attraverso gli occhi del bambino. E consente a noi di perdonare molte cose, dai ralenti troppo insistiti alle musiche altisonanti, dalle riprese dall’alto ai tanti primissimi piani, alle immagini caotiche della macchina a spalla. Di veramente bello, in questo film in questo film accolto con favore all’estero ma meno amato in patria, c’è l’educazione sentimentale del piccolo Zain al ruolo paterno, tradito dal padre nullafacente e violento. Alle prese con il lattante Jonas, che deve accudire mentre la madre lavora, e con cui rimane da solo quando la donna viene portata in prigione per aver falsificato i documenti, Zain si industria, come Chaplin ne Il monello, per nutrire il piccolo, farlo giocare, tenerlo pulito. Ruba un biberon e uno skateboard ad altri bambini, lega Jonas a una ringhiera per impedirgli di trotterellare per strada, lo innaffia con la pompa durante una pausa del lavoro in un autolavaggio, per renderlo presentabile.
Bambini invisibili, in un mondo senza pietà come questa Beirut dove c’è sempre qualcuno più povero dei poveri. A guardare bene, in mezzo a questa umanità disagiata, c’è un grande buco nero, un’assenza che mette ancora più in evidenza il dolore che si disegna sui volti belli dei protagonisti, e li segna. Beirut, in questo film, è una realtà multiforme dove manca lo Stato, se non sotto forma di controllo e punizione (il tribunale e il carcere), e mancano le istituzioni religiose, nonostante la buona volontà dei volontari che danno un po’ di latte in polvere ai bambini, nonostante la presenza, dall’altra parte delle sbarre, in galera, di un frate che suona il tamburello per rallegrare le detenute cristiane (quelle musulmane se ne stanno in un angolo, immusonite). Come nei film precedenti della regista, la religione è solo una questione politica, da ignorare o gestire con qualche strategia. Il sorriso sul volto di Zain non arriverà dalla carezza di un padre, da una breccia nei cuori, da un miracolo, ma dalla carta di identità conquistata con fatica e dolore. Perché in natura e al cinema, il vuoto non esiste.
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