Nella politica di Abu Dhabi, soft power e hard power sono finalizzati a un unico obiettivo: la trasformazione degli Emirati in una potenza globale

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:01

I media emiratini non parlano d’altro: Papa Francesco sarà ad Abu Dhabi fra il 3 e il 5 febbraio, la prima visita di un Pontefice nella Penisola Arabica.

 

Le pagine dei quotidiani online degli Emirati Arabi Uniti sono ricche di dettagli sui contatti fra questo Paese del Golfo e il Cristianesimo, con le foto inedite del fondatore della Federazione, lo shaykh Zayed bin Sultan Al Nahyan, in visita, durante un tour europeo, alla Città del Vaticano (era l’agosto 1951); oppure le testimonianze archeologiche della presenza cristiana in età pre-islamica, come nel caso dei resti del monastero sull’isola di Sir Bani Yas, scoperti nel 1993 nella zona occidentale degli Emirati.

 

Il viaggio di Papa Francesco è certamente un successo diplomatico e d’immagine per Abu Dhabi. Ma l’enfasi politico-mediatica che ammanta questo storico evento rivela la portata della scommessa emiratina: diventare una potenza globale del soft power, un obiettivo strategico che passa anche attraverso la visita del Pontefice. Nel 2017, gli Emirati hanno costituito il Consiglio del Soft Power (UAE Soft Power Council), presieduto dal primo ministro e vicepresidente della Federazione, l’emiro di Dubai shaykh Mohammed bin Rashid Al Maktum, e la cui strategia è trasformare gli Emirati Arabi in un hub globale di arte, scienze, economia della conoscenza e turismo.

 

La diplomazia culturale, ben esemplificata dall’anno della tolleranza (così è stato definito il 2019 dai vertici del Paese), rappresenta lo strumento strategico del soft power. Nel 2018 è stata istituzionalizzata, venendo integrata ufficialmente nella politica estera della federazione: un ufficio apposito (Office of Public and Cultural Diplomacy) è stato aperto al Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ed essa farà parte della formazione del personale diplomatico.

 

Diplomazia culturale e potere militare

 

Chi segue le vicende mediorientali potrebbe giustamente obiettare che la politica estera degli Emirati Arabi Uniti e del loro uomo forte, il principe ereditario di Abu Dhabi e vice comandante supremo delle forze armate Mohammed bin Zayed Al Nahyan, è stata caratterizzata, dopo le rivolte arabe del 2010-11, da scelte assertive e polarizzanti (vedi Qatar e Iran) e, in alcuni casi, dal ricorso allo strumento militare (lo Yemen). Inoltre, la componente militare (con l’aumento delle spese per la difesa, l’introduzione della leva militare obbligatoria nel 2014, l’invio di soldati all’estero e di addestratori in Paesi terzi, lo sviluppo dell’industria nazionale di difesa), è diventata centrale nella proiezione esterna emiratina.

 

Diplomazia culturale e dimensione militare sono, apparentemente, mondi lontani e opposti: qual è, per gli Emirati Arabi, l’anello di congiunzione (strategica) fra soft power (potere culturale) e hard power (potere militare)?

 

Innanzitutto occorre considerare che tolleranza significa, agli occhi della leadership emiratina, “rispetto e apprezzamento per la ricca varietà delle culture del nostro mondo, delle forme di espressione e dei modi di essere umani”, come definito dalla Dichiarazione di Dubai, testo elaborato nel novembre 2018 in occasione del primo World Tolerance Summit. La Strategia per il Soft Power intende consolidare gli Emirati come un “modello di tolleranza”, “la capitale globale per le culture, il dialogo tra le culture e le civiltà”. Due riflessioni si impongono: tolleranza è, per gli Emirati, un concetto orientato all’esterno, alle altre culture, anche a quelle presenti nel Paese e meno allo spazio politico dei cittadini emiratini; inoltre, essa è legata al raggiungimento di un nuovo status globale, dunque assume un valore geopolitico.

 

Per Abu Dhabi, la diplomazia culturale – di cui la tolleranza è, insieme all’arte e al turismo, espressione privilegiata – è uno strumento della geopolitica: essa rafforza il prestigio, nonché la capacità di influenza internazionale, degli Emirati. Ma c’è anche un altro fattore strategico, più sottile: dagli anni 2000, gli Emirati si sono affermati nella sponsorizzazione, in patria, di eventi e progetti culturali internazionali, rivaleggiando con il vicino Qatar in tema di brand diplomacy (per esempio, il Louvre Abu Dhabi, il campus locale della Sorbona e della New York University, la prossima apertura del Guggenheim).

La costruzione dell’identità nazionale

 

Adesso, gli emiratini hanno invece iniziato a esportare la loro cultura, identità e simboli nel mondo, anche attraverso i canali della diplomazia culturale: ecco che la “retorica della tolleranza” diviene un messaggio di auto-promozione nazionale, così come, per esempio, l’apertura di un settore del Louvre di Parigi (era il 2016) dedicato al fondatore Shaykh Zayed, promotore delle arti.

 

Pertanto, l’identità nazionale emiratina, da plasmare, rafforzare e promuovere di fronte alle tante minacce multidimensionali, è l’anello di congiunzione fra potere culturale e potere militare. Infatti, l’utilizzo sia della leva culturale che di quella militare accrescono il senso di appartenenza nazionale e sono dunque finalizzate allo stesso obiettivo: consolidare le aspirazioni globali degli Emirati Arabi Uniti. Tolleranza ed enfasi militare sono qui complementari, poiché si rivolgono a due fasce diverse della popolazione del Paese: gli stranieri e i nazionali (expatriates e nationals). Se il richiamo ai “martiri della Nazione”, ovvero i militari “eroi” caduti in Yemen si rivolge ai nazionali e punta a superare le differenze identitarie e sociali fra i sette emirati della federazione (Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ajman, Umm Al-Quwain, Ras Al-Khaimah, Fujairah), costruendo così un senso di Nazione condiviso e “trainato” da Abu Dhabi, l’accento sulla tolleranza vuole includere i tantissimi stranieri che vivono nella federazione (circa il 90% della popolazione): la coesione interna è inoltre fondamentale per garantire la sicurezza nazionale.

 

Negli Emirati Arabi Uniti, il filo conduttore dell’identità nazionale permette quindi di comprendere come diplomazia culturale e valorizzazione del potere militare possano far parte della medesima strategia: trasformare gli EAU in una potenza globale. E se finora il lato militare era stato il più evidente, l’anno della tolleranza, e l’invito a Papa Francesco, fanno emergere, a trecentosessanta gradi, le ambizioni di Abu Dhabi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

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