Dallo sviluppo di al-Jazeera fino agli ingenti investimenti nella cultura, il Paese del Golfo si è imposto sullo scacchiere regionale. Tuttavia, l’ambizione di passare da mediatore a decisore internazionale evidenzia limiti e contraddizioni

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Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 15:18:06

L’ascesa del Qatar a una posizione di rilievo regionale e internazionale si fonda sul fatto di possedere la terza riserva al mondo di gas naturale liquefatto (GNL) e sulle politiche adottate per mettere a frutto l’influenza potenziale che ne deriva. Tuttavia queste decisioni riflettono anche una serie di tendenze più profonde che stanno alla base della politica estera e di sicurezza del Paese del Golfo, radicate a loro volta in processi di formazione storica e politica. Prima fra tutte, la sfida della stabilità in un ambiente regionale instabile e il mantenimento del controllo politico sul vertiginoso ritmo di sviluppo sociale ed economico. Il Qatar ha anche affrontato tutte le vulnerabilità di un piccolo Stato circondato da vicini più grandi e potenti e periodicamente soggetto a interferenze e anche a contese.

Da quando nel 1995 l’Emiro, lo shaykh Hamad Ibn Khalifa al-Thani, si è impadronito del potere sottraendolo al padre con un colpo di Stato incruento, il processo di limitata liberalizzazione politica e dei media e il pieno sviluppo delle vaste riserve di gas naturale hanno posto le basi per l’emergere del Qatar come potenza regionale di statura internazionale. Caso unico nel Medio Oriente e nel Nord Africa, una politica abile e lungimirante ha permesso al Qatar di sfruttare a proprio vantaggio fattori fortemente globalizzanti, aiutato in questo dal rapporto, del tutto favorevole, tra  risorse e popolazione. La combinazione di ingenti risorse, ricchezza e una popolazione esigua ha dato ai dirigenti qatarioti ampio margine di manovra e ha liberato l’emirato dalle pressioni socio-economiche che affliggono i grandi vicini della regione. Nel tempo, essa si è anche tradotta in una riserva significativa di softpower e di reputazione internazionale. Ciò ha permesso ai policy-makers di Doha di perseguire i loro ambiziosi obiettivi di politica interna ed estera, finanziare in casa propria prestigiosi progetti per assicurarsi il sostegno della piccola comunità di cittadini del Qatar e spendere abbondantemente all’estero per la gioia dei partner globali e, alla fine, per facilitare le iniziative di mediazione regionale.

La combinazione favorevole di immense risorse naturali e di una minuscola popolazione di cittadini dà alla leadership del Qatar ampio margine di manovra per elaborare la politica interna ed estera. Solo 220.000 persone possiedono la cittadinanza del Qatar e nel 2008 l’Economist Intelligence Unit stimava il PIL pro capite per cittadino all’impressionante cifra di 448.246 dollari. Tale grado di ricchezza lo pone al riparo dal malcontento sociale ed economico manifestatosi in altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Per i cittadini del Qatar lo Stato è un distributore di ricchezza, sia attraverso l’impiego nel settore pubblico, che con concessioni di terre o con la fornitura di beni e servizi sovvenzionati. Non è una realtà inusuale per i cittadini di altri Paesi del Golfo, ma nel caso del Qatar le entrate sono apparentemente illimitate, in netto contrasto con le tensioni che si stanno sviluppando in Paesi come il Bahrein, l’Oman e alcune parti dell’Arabia Saudita, dove i modelli di distribuzione della ricchezza vanno incontro a un progressivo logoramento sotto la pressione della rapida crescita della popolazione.

 

La politica della mediazione diplomatica

La mediazione diplomatica sta al cuore della politica estera del Qatar e rappresenta un tentativo di  presentare il Paese come attore internazionale indipendente e progressista. La Costituzione del 2003 ha fatto della mediazione una pietra angolare della politica estera. L’articolo 7 sancisce che la politica estera del Qatar «si basa sul principio del rafforzamento della pace internazionale e della sicurezza mediante la promozione della risoluzione pacifica delle controversie internazionali». La decisione di collocare la mediazione al cuore della politica estera ha offerto al Qatar la possibilità di un’audace dichiarazione di autonomia sulla scena internazionale ritagliandosi una nicchia in un contesto regionale altamente competitivo e in rapida evoluzione.

L’attenzione per la mediazione è andata di pari passo con la creazione di una politica estera indipendente e innovativa. I tentativi da parte dell’Emiro di perseguire politiche autonome rispetto all’Arabia Saudita ebbero inizio nei primi anni ’90, quando questi era ancora erede al trono. Fu un periodo di notevoli frizioni di confine e tensioni tra il Qatar e l’Arabia Saudita. Nei primi anni Duemila il Qatar ha assunto la guida dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (2000-2003) e la presidenza del gruppo dei G77+Cina presso le Nazioni Unite (2004). Queste posizioni hanno fornito una piattaforma regionale e internazionale all’affermazione dei nuovi ideali della politica estera del Qatar. L’apice è stato raggiunto con il prestigioso seggio biennale al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2006-2007.

Tale periodo è coinciso con una serie di conflitti regionali che hanno offerto un palcoscenico di alto livello alle politiche di mediazione del Qatar. In questo modo il Qatar ha attirato l’attenzione internazionale, sia positiva che negativa. Ha organizzato un summit sul peace-building arabo tentando allo stesso tempo di bloccare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che chiedevano l’arresto del Presidente sudanese Omar al-Bashir in seguito all’imputazione per crimini di guerra emessa a suo carico dalla Corte Penale Internazionale. Nel luglio del 2006 il Qatar è stato l’unico Paese del Consiglio di Sicurezza a votare contro la Risoluzione 1696 (approvata 14 a 1) che esprimeva preoccupazione per il progetto nucleare iraniano e chiedeva a Teheran di sospendere l’arricchimento dell’uranio. Poco dopo, nell’ottobre 2006, il Qatar ha patrocinato gli sforzi di mediazione tra le fazioni palestinesi rivali di Hamas e Fatah, un’iniziativa successivamente superata con l’Accordo di Mecca sponsorizzato dall’Arabia Saudita nel febbraio del 2007 (accordo comunque di breve durata).

Le iniziative di mediazione con maggiore visibilità per il Qatar hanno avuto luogo in Yemen, Libano e Darfur. L’Emiro ha visitato lo Yemen nel maggio 2007 e inviato una delegazione del Ministero degli Esteri per trattare con i leader della ribellione Houthi[1] nello Yemen settentrionale. Ciò ha condotto nel giugno 2007 a un accordo congiunto di cessate il fuoco tra i ribelli e il governo yemenita e a un accordo di pace firmato a Doha il 1° febbraio 2008. Tuttavia, i combattimenti sono ripresi rapidamente e, nel maggio 2009, l’allora Presidente ‘Ali ‘Abdullah Saleh dichiarò che la mediazione del Qatar si era risolta in un fallimento. Un secondo cessate il fuoco mediato dal Qatar è stato successivamente concordato nell’agosto 2010 insieme a un accordo politico costituito da 22 punti, ma anch’esso si è dimostrato di breve durata, con il governo yemenita e i ribelli houthi che si accusavano a vicenda per la mancata applicazione.

La mediazione del Qatar in Libano ha conosciuto maggiore successo. Nel maggio 2008 a Beirut diciotto mesi di stallo politico rischiavano di degenerare in un conflitto armato tra Hezbollah e il Primo Ministro Fouad Siniora. Il Qatar ha riunito i vari partiti libanesi a Doha per dei negoziati che si sono conclusi con l’accordo di Doha del 21 maggio 2008. Tale accordo prevedeva la nomina di un candidato di compromesso, il Generale Michel Suleiman, a Presidente del Libano, e la formazione di un governo di unità nazionale in grado di stabilire un equilibrio tra i gruppi libanesi rivali, compreso Hezbollah.

In Darfur il Qatar è stato nominato rappresentante della Lega Araba con l’incarico di mediare tra il governo del Sudan e le fazioni ribelli dopo la violenta escalation del 2008. Come per il Libano, i partecipanti sono stati ospitati a Doha, anche se questa volta insieme a mediatori dell’Unione Africana, della Lega Araba, delle Nazioni Unite e degli Stati confinanti, Egitto, Libia e Chad. Dopo vari fallimenti è stato firmato nel febbraio 2010 un accordo quadro di cessate il fuoco tra il governo sudanese e il più importante movimento di opposizione, Giustizia e Uguaglianza, in seguito al quale il Presidente al-Bashir ha dichiarato la fine del conflitto.

 

Soft power e State-branding

A partire dalla creazione di al-Jazeera nel novembre 1996 e con una rapida accelerazione nei primi anni del XXI secolo, l’Emiro e il suo Primo Ministro (nonché Ministro degli Esteri), lo shaykh Hamad Ibn Jassim al-Thani, hanno lavorato incessantemente per rendere il Qatar un attore di alto profilo nell’arena internazionale. Il mandato biennale del Qatar al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2006-2007 è stato un catalizzatore fondamentale in quest’ascesa internazionale. La strategia del Qatar è stata sorretta da una combinazione di capacità di visione da parte della leadership e ricchezza nazionale, elementi che hanno permesso di eclissare le tradizionali superpotenze del mondo arabo, Egitto e Arabia Saudita. A rendere possibile tale posizione più agile è la cerchia estremamente piccola dei decision-makers, che contrasta con le strutture burocratiche ipertrofiche e fossilizzate del Cairo e di Riyadh. Ma il successo del Qatar poggia anche su una lettura sfumata del concetto di soft-power e della gamma di scelte politiche che consentono di farvi ricorso sia nella regione che al di fuori di essa.

Sono cinque le componenti principali dell’ascesa mondiale del Qatar: 1. La nascita di al-Jazeera; 2. gli ingenti investimenti nei settori dell’educazione e della cultura; 3. l’attenzione per i grandi eventi sportivi e le star internazionali e la disponibilità a ospitarli sul proprio territorio; 4. la crescita dei viaggi e del turismo internazionale di lusso; 5. la ricerca d’avanguardia e lo sviluppo di fonti energetiche più pulite. Insieme, questi fattori hanno trasformato la percezione regionale e internazionale del Qatar e hanno favorito nella sua leadership una convinta mentalità del “si può fare”. Se si pensa che solo dieci anni fa la guida turistica Lonely Planet descriveva il Qatar come «il luogo probabilmente più noioso sulla faccia della Terra», il livello di cambiamento è senza precedenti per la sua rapidità. In meno di dieci anni Doha è diventata una sofisticata metropoli urbana che vanta un’architettura futuristica e uno skyline degno della stessa Manhattan, nonostante questo processo di cambiamento non sia stato privo di problemi.

Il risultato è un ritmo di sviluppo dinamico e talvolta vertiginoso, che ha posto il Qatar a pieno titolo sotto i riflettori mondiali e lo ha inserito in una serie di storie di successo. L’utilizzo intelligente delle risorse nazionali contrasta con lo stato di crisi nel sistema economico internazionale e con le sorti vacillanti del “Washington Consensus” e della Dottrina sulla Sicurezza in seguito alla crisi finanziaria globale e alle velleitarie guerre condotte in Afghanistan e Iraq sotto la guida degli Stati Uniti. Le decisioni del Qatar hanno dimostrato che un piccolo Stato è in grado di diventare un vero e proprio attore globale, mentre la Primavera Araba ha ulteriormente acuito il contrasto con i vicini regionali messi alle strette dagli eventi. Per le sue caratteristiche, il Qatar si è trovato nella posizione di poter vivere la Primavera Araba come un’opportunità piuttosto che come una sfida, come dimostrano le sue scelte di politica estera da quando sono iniziati i disordini nella regione, all’inizio del 2011.

 

Dalla mediazione all’intervento

Nel 2011, nelle prime fasi della Primavera araba, il Qatar è emerso come uno dei principali sostenitori dell’intervento internazionale a supporto dei ribelli contrari a Gheddafi in Libia. Ha organizzato l’appoggio arabo alla No-Fly Zone, un’iniziativa politicamente cruciale, ed è stato uno dei primi Paesi a riconoscere il Consiglio Nazionale di Transizione Provvisorio (CNTP) a Bengasi, offrendosi di commercializzare il petrolio per conto del Consiglio. Allo stesso tempo, al-Jazeera ha svolto un ruolo fondamentale nel plasmare la percezione popolare attraverso la copertura televisiva integrale del conflitto, come aveva fatto in precedenza con le rivolte in Tunisia ed Egitto. Allo stesso modo, le dichiarazioni pubbliche di sostegno all’opposizione contro il regime autoritario di ‘Ali ‘Abdullah Saleh in Yemen hanno rafforzato il profilo sempre più regionale e internazionale del Qatar, nonostante nel vicino Bahrein, a 40 chilometri dalla costa occidentale del Qatar, avesse luogo proprio in quei giorni una brutale repressione ai danni di attivisti democratici.

Schierarsi contro Mu‘ammar Gheddafi ha rappresentato per il Qatar l’occasione per accrescere la propria credibilità di attore internazionale serio, prendendo apertamente posizione contro la dittatura. Il Paese è stato capace di esprimere un sostegno a favore della protezione dei diritti umani e dell’espressione democratica in piena sintonia con la comunità internazionale guidata dall’Occidente. Così, nel marzo 2011, il Primo Ministro shaykh Hamad bin Jassim è stato determinante nel far convergere il sostegno del Gulf Cooperation Council e della Lega Araba attorno all’idea della No-Fly Zone e successivamente al riconoscimento del CNT, spingendosi ad affermare che «il Qatar parteciperà all’azione militare perché crediamo che ci debbano essere degli Stati arabi a intraprendere quest’azione, perché la situazione è intollerabile». Il Qatar è stato anche uno dei primi Paesi a riconoscere il CNT come legittimo rappresentante del popolo libico e nell’aprile 2011 ha organizzato il primo incontro dell’International Contact Group sulla Libia. Veder sventolare la bandiera del Qatar accanto a quella dei ribelli sul bunker di Gheddafi a Bab al-Aziziya, dopo la conquista della fortezza nell’agosto 2011, ha avuto un forte impatto simbolico. Tra le forme di sostegno non militare si possono contare oltre 400 milioni di dollari in aiuti finanziari, forniture di acqua, gas per il riscaldamento, beni di prima necessità e assistenza nella vendita e commercializzazione del petrolio libico. Quattro navi cisterna cariche di benzina, gasolio e altri combustibili raffinati, inviate a giugno dalla Qatar Petroleum a Bengasi, hanno soddisfatto la maggior parte del fabbisogno energetico della zona.

In seguito il Qatar ha tentato di raccogliere un analogo sostegno arabo e internazionale contro il regime di Assad in Siria. Dopo la caduta di Tripoli infatti, i leader del Qatar speravano di mantenere lo slancio e confermare la propria fama di membro arabo progressista della comunità internazionale. Ancora una volta l’Emiro e il Primo Ministro hanno tentato di radunare un sostegno regionale per l’intervento a favore dell’opposizione siriana. Dopo il fallimento di una missione della Lega araba che avrebbe dovuto porre fine all’escalation della violenza, il Primo Ministro del Qatar dichiarò, con toni eccezionalmente forti, che «quanto sta accadendo in Siria non è una guerra civile, ma un genocidio, una guerra di sterminio con licenza di uccidere concessa al governo siriano dalla comunità internazionale». Eppure, nonostante i flussi di finanziamenti, combattenti e armi dal Qatar (e da altri Stati del Golfo) destinati alla miriade di gruppi di opposizione in Siria, il governo del Qatar non è riuscito a replicare il rapido successo della campagna libica nel facilitare un cambio di regime.

Le politiche perseguite dal Qatar in Libia e in Siria hanno segnato un passaggio dalla mediazione a una strategia globale a favore del cambio di regime, attraverso un’azione politica, militare, diplomatica ed economica. Nel clima febbrile di sconvolgimenti regionali, queste politiche sono risultate piuttosto controverse se si considerano gli stretti legami del Qatar con la Fratellanza Musulmana in Nord Africa, in particolare in Egitto. Intanto, in Libia, dopo la morte di Gheddafi, i rapporti inizialmente stretti con il Consiglio Nazionale di Transizione si sono rapidamente guastati mano a mano che veniva alla luce l’ampiezza del coinvolgimento del Qatar. Mentre emergevano rivelazioni sui finanziamenti e sulla fornitura di armi a molte milizie islamiste e al comandante della temuta brigata di Tripoli, ‘Abdul Hakim Belhadj, questi stessi gruppi, oscuri e para-statali, impedivano un ritorno alla stabilità e alla normalità e mandavano in frantumi la fragile coalizione anti-Gheddafi. Era quasi certamente il Qatar che il ministro del petrolio e delle finanze del Governo di Transizione aveva in mente come bersaglio polemico quando, nell’ottobre del 2011, dichiarava «giunto il momento di affermare pubblicamente che chiunque voglia venire a casa nostra deve prima bussare alla nostra porta principale». Fatto notevole, questo senso di inquietudine era condiviso anche da alcuni cittadini del Qatar che, in privato, si domandavano se la loro leadership non avesse fatto un passo più lungo della gamba nell’architettare la transizione post-Gheddafi in Libia.

 

Opposizione regionale e influenza in declino

Ben presto sono cominciati ad apparire i primi segnali di un’opposizione regionale alla politica interventista del Qatar nella Primavera araba, a partire, nel marzo del 2011, dalla denuncia da parte di ‘Ali ‘Abdullah Saleh della «evidente interferenza negli affari yemeniti» da parte del Qatar. La vera sfida che i policy-makers qatarioti devono affrontare risiede nel fatto che il ruolo assunto in Libia e Siria ha mandato in frantumi la reputazione di (relativa) neutralità e imparzialità del Paese e lo ha indebolito rispetto a una posizione di mediatore tra interessi confliggenti. Alla caduta di questi pilastri, su cui poggiava la precedente capacità attrattiva del Qatar come mediatore, non sarà facile porre rimedio. Inoltre, l’intervento del Qatar in Libia del 2011 ha reso evidente il divario crescente tra ambizione regionale e capacità tecnica. La leadership di Doha semplicemente non possiede le risorse amministrative e gli uomini sul campo per tradurre accordi iniziali in soluzioni sostenibili delle controversie. Il suo apparato diplomatico è troppo piccolo per seguire o monitorare i progressi nell’applicazione degli accordi, una volta conclusi i negoziati. E la scrupolosa osservazione a cui sono sempre più sottoposte le azioni del Qatar, sia a livello regionale che internazionale, rendono questi limiti sempre più evidenti.

Il sostegno offerto dal governo del Qatar a rivolte all’estero ha già esaurito le riserve di benevolenza regionale verso il Paese. Durante un incontro della Lega Araba nel 2011 si è verificato un alterco pubblico tra i ministri degli Esteri di Algeria e Qatar e negli ultimi mesi sono sorte gravi tensioni tra il Qatar e due altri Stati del Golfo, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, in merito al sostegno dato alla Fratellanza Musulmana. Inoltre, se dovessero svilupparsi tensioni nello stesso Qatar, non è difficile immaginare la soddisfazione con cui potrebbero reagire i regimi che finora sono stati oggetti di critiche. Avendo offerto il proprio sostegno ai movimenti di opposizione in Libia e in Siria, la leadership del Qatar è ora ostaggio della sorte, nel caso in cui voci locali a favore della democrazia dovessero emergere e venire arrestate. Questo spiega l’ampia copertura mediatica internazionale per l’ergastolo comminato nel gennaio 2011 a un poeta qatariota, Mohammad al-Ajami, reo di aver recitato una poesia intitolata “Rivoluzione dei gelsomini”, e l’interesse nei confronti di un manifesto pubblicato nel settembre 2011 da un gruppo di riformisti qatarioti intitolato “Il popolo vuole riforme…anche in Qatar”.

È innegabile che la risposta del Qatar alla Primavera Araba abbia incrementato quello che era già un potente esercizio di state-branding. L’assegnazione al Qatar, nel dicembre 2010, dei Mondiali di calcio 2022 dimostra che il Paese si trovava al centro dell’attenzione internazionale ben prima dell’inizio dello sconvolgimento regionale. La stella del Qatar ha raggiunto il suo culmine alla fine del 2011 in seguito al successo manifesto nel rovesciare il regime di Gheddafi in Libia. Da allora gli eventi hanno mostrato che si è trattato probabilmente di un hapax: sarà molto difficile per il Qatar replicare il successo iniziale in un ambiente regionale e internazionale più scettico. Soprattutto, le piccole dimensioni del Qatar continueranno a ostacolare le iniziative politiche, esponendolo all’accusa di megalomania e mettendo in evidenza un crescente divario tra le ambizioni sempre più elevate e la limitata capacità di realizzarle.

 

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Note

[1] Si tratta delle popolazioni sciite del governatorato di Sa‘da, al confine con l’Arabia Saudita, insorte nel 2004 contro il governo centrale (N.d.R.).