Nella politica estera dei Fratelli musulmani si rintraccia un elemento centrale della loro sconfitta: il loro ambizioso progetto panislamico non lasciava spazio agli interessi nazionali. E l’esercito, parte della burocrazia e della popolazione non potevano accettarlo

Questo articolo è pubblicato in Oasis 18. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 02/07/2024 12:08:35

Oasis n. 18 è disponibile in libreria e online.

 

Le scelte e i grandi orientamenti della politica estera del governo dei Fratelli musulmani in Egitto sono stati un fattore importante nella legittimazione del Presidente Mursi e nella sua caduta. Essi sono stati percepiti dalla burocrazia egiziana, dalla “foreign Policy community” egiziana (diplomazia, ricercatori, giornalisti specializzati, organismi di sicurezza, esercito) e da una maggioranza schiacciante della popolazione come un pericolo per la sicurezza nazionale del Paese e per la sua integrità territoriale. In altre parole, gli apparati statali hanno avuto la percezione che l’interesse del Paese fosse passato in secondo piano, a favore del grande disegno dei Fratelli musulmani e delle loro diramazioni estere, e cioè il ristabilimento del Califfato. Personalmente ritengo che queste percezioni siano fondate, anche se molti punti restano contestati o attendono di essere chiariti.

 

Il potere dei Fratelli non ha mai brillato per trasparenza. Non si sa né dove (l’ufficio della direzione? L’organizzazione internazionale? L’entourage di Khayrat al-Shâtir?) né come fossero prese le decisioni, anche se si sa con certezza che non venivano prese dalla presidenza (salvo forse, e solamente in una certa misura, nel primo mese della presidenza di Mursi) e che l’uomo forte del nuovo regime era Khayrat al-Shâtir. Su molte questioni i Fratelli non potevano spingersi fin dove avrebbero voluto, dovendo tener conto delle preoccupazioni e dell’atteggiamento dell’esercito, come del resto l’esercito doveva tener conto dei Fratelli. Penso in particolare al Sinai, alle frontiere sudanesi e ai progetti di zona franca nel Sinai o nella regione del Canale. Il generale al-Sîsî si è opposto a più riprese ai progetti dei Fratelli, facendo per esempio allagare i tunnel che uniscono Gaza all’Egitto, mentre il Capo di Stato maggiore Sidqî Subhî ha sconfessato il presidente (!) quando questi ha manifestato l’intenzione di restituire la zona di Halayeb al governo di Khartoum. Allo stesso modo molti osservatori ritengono che la decisione dei Fratelli di sostenere i jihadisti siriani nonostante il parere contrario del complesso militare-securitario sia stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo.

 

Incompatibilità con lo Stato

La nuova squadra dei Fratelli non ha mai fornito spiegazioni delle sue scelte di politica estera. Ciò che sappiamo della politica estera egiziana deriva, in minima parte, dalle dichiarazioni degli ufficiali della Fratellanza, e, molto più abbondantemente, dalla “foreign Policy community”. Quest’ultima è stata in generale messa in disparte e considerata con sospetto dall’élite della Fratellanza. La diplomazia dei Fratelli passava più attraverso i canali interni che attraverso lo Stato. Più precisamente essa si attuava attraverso i funzionari dell’organizzazione internazionale che circondavano Mursi, in particolare il suo consigliere diplomatico ‘Isâm Haddâd. Gli organismi di sicurezza e l’esercito sorvegliavano la situazione a distanza ravvicinata e non perdevano occasione per suonare il campanello d’allarme o (dipende dal punto di vista) per screditare il nuovo regime. Un’impresa che è sicuramente riuscita anche per il fatto che le accuse lanciate sembravano fondate. Se si preferisce una posizione più prudente, si potrebbe affermare che i Fratelli avevano un programma di fondazione radicale di una nuova società e, pertanto, di una nuova politica estera, e che la loro memoria politica, la loro visione del mondo, le loro scelte sulle alleanze e i loro modi di fare erano incompatibili e inconciliabili con quelli dello Stato egiziano e di una parte importante della popolazione. Basterà un aneddoto a titolo di esempio: il capo delle mukhâbarât (servizi segreti, N.d.R.) sotto Mursi, il generale Ra‘afat Shihâta[1], ha confidato ad alcuni giornalisti di non essere mai riuscito a incontrare il Presidente faccia a faccia. Mursi era perennemente attorniato e sorvegliato da due membri della sua squadra, uno dei quali era un importante funzionario dell’organizzazione internazionale (l’altro era l’ambasciatore Tahtâwî, molto vicino ai Fratelli e grande conoscitore dell’Iran). Ora, lo Stato egiziano è molto puntiglioso sulle questioni di sovranità e delle reti internazionali. Allo stesso modo è nota l’inflessibilità dei funzionari dei Fratelli (o di Hamas) nei negoziati nazionali e internazionali: solo raramente fanno concessioni. Solo per fare un esempio, l’accordo con il FMI non è mai stato concluso perché i Fratelli si sono rifiutati di compiere i gesti necessari. Il cinismo dei Fratelli, che non ha molto da invidiare a quello dei sovietici quanto a capacità di sottoscrivere accordi per violarli alla prima occasione, è ben noto sulla scena interna, ma non ha avuto il tempo di dar prova di sé sulla scena internazionale.

 

Come dicevo, i Fratelli sembrano aver avuto questo progetto: realizzare l’utopia della restaurazione del Califfato e cambiare radicalmente i sistemi di alleanze, tanto a livello regionale quanto internazionale. I loro alleati principali erano la Turchia e il Qatar, mentre i loro principali nemici erano l’Arabia Saudita (l’alleato principale di Mubarak) e gli altri Emirati o petro-monarchie. Secondo alcuni specialisti della Fratellanza, l’organizzazione internazionale dei Fratelli aveva in progetto, nel breve-medio periodo, di far sparire la Lega Araba sostituendola con una Lega Islamica il cui Segretario generale avrebbe dovuto essere il palestinese Khâlid Mesh‘al, capo di Hamas (l’importanza simbolica di questa scelta è evidente)[2].

 

Alla ricerca di nuovi partner

Se si dà credito ad alcune confidenze o gaffe dei loro dirigenti, i Fratelli contavano anche di ridurre in modo molto progressivo o interrompere i partenariati economici tradizionali dell’Egitto (Stati Uniti, UE e Paesi arabi ostili ai Fratelli), sostituendoli con potenze emergenti, soprattutto islamiche, come la Turchia, la Malesia, l’Indonesia o il Qatar, e optando per la Cina piuttosto che per gli Stati Uniti[3]. L’obiettivo era quello di dar vita a un takâmul (termine che può essere tradotto sia con “complementarietà” che con “integrazione”), ma per questo ci voleva del tempo. Tempo che i Fratelli contavano di trovare assicurandosi il sostegno americano. Vedendo cospirazioni internazionali ovunque, i Fratelli credevano che gli Stati Uniti fossero tenuti in pugno dagli ebrei e che fosse perciò necessario rassicurare questi ultimi, in particolare in merito a Israele. Hanno così fatto valere la loro maggiore influenza su Hamas rispetto all’ex regime egiziano, e accettato di farsi garanti del suo comportamento (novembre 2012). Inoltre sono stati attenti a soddisfare per quanto possibile Israele anche se quest’ultimo non poteva certamente sentirsi a proprio agio vedendo l’afflusso di jihadisti nel Sinai o sentendo riecheggiare alcuni slogan odiosi o vecchie dichiarazioni antigiudaiche di Mursi.

 

L’afflusso di jihadisti è un fatto accertato ma misterioso. Quando Mubarak cade, nel Sinai ci sono 150/200 jihadisti. Nel periodo che precede l’avvento di Mursi si passa a 4.000 e, a cadenza mensile se non più frequentemente, vengono organizzati attentati contro le condutture di gas naturale. Dal momento in cui Mursi si sbarazza di Tantâwî e ‘Inân (agosto 2012) gli attentati cessano, per poi riprendere in seguito alla sua caduta. Si sa che il Capo di Stato ha fatto liberare centinaia di jihadisti impenitenti, buona parte dei quali hanno raggiunto i loro omologhi nella penisola. Sotto la presidenza Mursi il numero dei jihadisti nella penisola è raddoppiato o triplicato (tra i 7.000 e i 12.000, con un picco di 20.000 secondo le autorità israeliane, ripartiti fra gruppi con ideologie e legami organizzativi differenti, ciò che tuttavia non impedisce loro di collaborare puntualmente). Molti di essi non sono egiziani (si contano palestinesi, yemeniti, sauditi e pakistani) e sembrano essere transitati per Gaza ed entrati in Egitto attraverso dei tunnel. Ci sono a dir poco forti indizi, se non addirittura qualche prova tangibile, che lasciano pensare che il regime dei Fratelli sapeva ciò che stavano facendo, che ha avuto parecchi contatti con i jihadisti e ha coordinato la sua azione con loro: oltre alla tempistica degli attentati nella penisola, durante le manifestazioni dei Fratelli al Cairo si è vista sventolare la bandiera di al-Qa‘ida e, soprattutto, dopo la destituzione del Presidente il funzionario dei Fratelli Biltâjî ha rilasciato una dichiarazione che sembrava una confessione (gli attentati nel Sinai cesseranno immediatamente dopo il ritorno di Mursi alla presidenza). Al contrario, non si sa se l’amministrazione americana fosse informata o meno di questo afflusso massiccio di combattenti e quale fosse la sua visione in proposito.

I servizi d’intelligence egiziani hanno orchestrato regolarmente fughe di notizie, lasciando intendere che sotto Mursi oltre 14.000 (se non addirittura 50.000) palestinesi erano stati naturalizzati, che questi avevano acquistato dei terreni, e che il regime dei Fratelli si apprestavano a rendere possibile l’emirato di Gaza cedendogli una parte consistente del litorale Nord della penisola. Queste affermazioni potrebbero essere diffamatorie o infondate, ma ciò non toglie che nella burocrazia e tra il popolo egiziano molti vi hanno creduto. Tanto più che il capo di Stato sembra aver effettivamente proposto la restituzione al Sudan della regione contestata di Halayeb Shalâtîn (aprile-maggio 2013), e che la nuova Costituzione dava al Presidente il diritto, con il consenso del Parlamento, di modificare i confini. Anche se si rivelasse che i timori erano infondati (o che false erano le affermazioni circa gli aiuti massici concessi a Gaza nonostante la difficile situazione interna all’Egitto), i legami organizzativi e le affinità tra Hamas e i Fratelli erano comunque potenzialmente pericolosi per gli interessi egiziani, dato che i dirigenti dei grandi Paesi arabi temono costantemente di essere trascinati in conflitti regionali dai piccoli attori desiderosi di azzuffarsi.

 

I Fratelli, musulmani moderati?

Ma pare che gli Stati Uniti abbiano deciso di sostenere i Fratelli per una serie di altre ragioni complementari, tra le quali la classificazione dei Fratelli nella casella dell’“islamismo moderato”. In quest’ottica i Fratelli erano considerati il corrispondente egiziano dell’AKP turco e disponevano di una rete internazionale interessante. Essi – così suonava il ragionamento – erano un concorrente temibile per i vari salafismi e, in caso di scontro tra democratici e salafiti, si sarebbero schierati a favore dei primi. I Fratelli avevano la legittimità per combattere contro al-Qa’ida, e la loro ideologia, in quanto moderata, presto o tardi avrebbe consentito loro di prevalere sulle ideologie salafite. Tutte queste ipotesi si sono rivelate fragili, se non addirittura chiaramente errate. I Fratelli sono molto meno moderati dell’AKP[4], molto meno democratici degli islamisti democratici, molto più salafiti e impregnati di salafismo di quanto non si dica. Un’alleanza con i salafiti è molto più naturale (ideologicamente) e accettabile per la base che una partnership con i democratici. La differenza ideologica tra i Fratelli e i salafiti non risiede nella diversa concezione della città ideale (generalmente è la stessa, nonostante li distinguano alcune sfumature importanti), ma nel gradualismo dell’applicazione del programma e nella classificazione dei nemici. Essendo molto più fragili nella conoscenza del patrimonio islamico e delle scienze religiose, e molto più inclini al doppio linguaggio, i Fratelli sono decisamente più esposti alla “salafizzazione” di quanto i Salafiti lo siano alla “fratellizzazione”[5].

 

L’ascesa al potere dei Fratelli musulmani al Cairo ha sconvolto lo scacchiere regionale. Negli ultimi venticinque anni gli alleati principali dell’Egitto erano stati l’Arabia Saudita e gli Emirati petroliferi, con l’eccezione del Qatar. L’Araba Saudita, principale padrino dei Fratelli negli anni ’50, ’60 e ’70, era diventato il loro peggior nemico. La famiglia reale non ha mai perdonato ai Fratelli il loro atteggiamento durante la guerra di liberazione del Kuwait (1990/91) ed era incline (non senza buone ragioni) ad attribuire i problemi di contestazione interna alle ideologie diffuse nel sistema educativo saudita, un sistema che era stato istituito proprio dai Fratelli negli anni ’60. Essa temeva la seduzione esercitata dal messaggio dei Fratelli sulle classi medie e sulle classi svantaggiate del Regno. Infine, last but not least, le relazioni tra i Fratelli, l’Iran e lo sciismo erano storicamente buone: l’ascesa della Confraternita al potere veniva perciò percepito da Riyadh come un accerchiamento. La stampa del Golfo ha affermato che i Fratelli avevano ricattato più o meno chiaramente gli Emirati della regione: o un aiuto cospicuo, o problemi interni. Alcuni ricercatori ben informati (Ma’mûn Fandî) si sono spinti oltre e hanno affermato che la Confraternita ha tentato attivamente di rovesciare una delle famiglie regnanti del Golfo per accedere direttamente alla manna petrolifera e finanziare il progetto di restaurazione del Califfato. Anche in questo caso non si può sapere se queste asserzioni siano fondate, ma esse riflettono le percezioni delle capitali della regione. A partire dall’aprile 2011 queste ultime hanno fatto sapere all’esercito egiziano e agli attori non islamisti che avrebbero finanziato in maniera cospicua qualunque potere diverso da quello dei Fratelli o capace d’impedire stabilmente una presa del potere da parte della Confraternita. Lo si è visto nel luglio 2013: subito dopo la destituzione di Mursi sono stati offerti 12 miliardi di dollari, e sappiamo con certezza che i sauditi (e probabilmente anche gli altri) conoscevano molto bene le intenzioni della coalizione anti-fratellanza.

 

Guardando a Tehran e Ankara

Le relazioni con l’Iran sono invece difficili da definire. Se la Confraternita ha storicamente intrattenuto buoni rapporti con lo sciismo persiano, resta il fatto che la sua base è andata sempre più salafizzandosi. Le correnti ideologiche di questa galassia (salafita) sono in generale molto ostili allo sciismo. Inoltre gli iraniani erano il maggiore sostenitore del regime siriano che i Fratelli volevano far cadere. Detto altrimenti, vi erano molti e gravi disaccordi. Ma se i Fratelli si sono sforzati di far partecipare Teheran al balletto diplomatico sulla Siria (a scapito di Riyadh), su molte questioni, tra le quali il turismo, una collaborazione fruttuosa sembrava possibile[6]. Resta il fatto che con Mursi il Cairo sembra aver esplorato l’eventualità di un asse Cairo-Teheran-Ankara, senza accorgersi che gli interessi delle altre due capitali erano troppo distanti gli uni dagli altri perché un tentativo simile potesse avere successo.

La Turchia e il Qatar sono stati i principali alleati del governo dei Fratelli: gli hanno fornito un aiuto finanziario cospicuo, si sono fatti carico della formazione dei suoi quadri, e ne hanno difeso la causa in Europa e negli Stati Uniti. Al-Jazeera è diventato “il” canale televisivo per eccellenza dei Fratelli, con pratiche che ignorano le regole più elementari della deontologia professionale, non avendo esitato a diffondere menzogne e immagini truccate. Molti Fratelli espatriati hanno lasciato Londra e Bruxelles per insediarsi ad Ankara, che ha spesso ospitato gli incontri dell’organizzazione internazionale dei Fratelli, e ha parlato di partenariato strategico con il nuovo potere, chiamato a dominare la regione attraverso la pace e il commercio.

 

La spinosa questione delle acque del Nilo e dell’approvvigionamento idraulico dell’Egitto si è ripresentata alla fine del regno dei Fratelli, che si sono dimostrati particolarmente irresponsabili nelle gestione di un ambito così sensibile. Essi hanno invitato i rappresentanti delle forze politiche a discutere di tale questione con la presidenza, ma hanno omesso di precisare che l’incontro sarebbe stato trasmesso in diretta televisiva. Lo spettacolo allucinante offerto da strateghi da bar e il tono ridicolmente aggressivo di alcuni hanno notevolmente indebolito la posizione egiziana, già poco invidiabile dopo due anni e mezzo di processi rivoluzionari. Questo episodio ha contribuito a rinsaldare la convinzione che la formazione islamista non avesse alcuna considerazione per l’interesse nazionale. Ma l’osservatore non sa, e non saprà mai, se gli obiettivi dei Fratelli avrebbero potuto essere raggiunti con una politica più fine, più sottile, e con meno incompetenza.

Personalmente sono propenso a pensare di no: per come era stata definita ed elaborata, la strategia dei Fratelli recava in sé i germi di un clamoroso fallimento. Troppo ambiziosa, troppo pericolosa per i vicini, troppo sprezzante rispetto ai vincoli economici (la pressione demografica così come il ritardo tecnologico impongono agli egiziani una certa prudenza nella gestione delle loro alleanze), questa politica che, detto en passant, avrebbe e ha aumentato considerevolmente le tensioni confessionali nella regione (benché i Fratelli siano lungi dall’esserne i soli responsabili) sarebbe stata contrastata con ferocia da molti attori che lottavano per la loro sopravvivenza.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici

 


[1] Le sue dichiarazioni sono state riportate a più riprese dal grande giornalista ‘Âdil Hammûda e anche altri giornalisti mi hanno detto di aver avuto riscontri simili.
[2] Gli specialisti in questione si basano sui lavori della riunione dell’organizzazione internazionale dei Fratelli tenutasi a settembre 2012 a Khartoum. Non mi è stato possibile procurarmi i documenti in tempo per la redazione di questo articolo. Tuttavia alcuni articoli tratti dalla stampa confermano la riunione. Cfr. Al-tanzîm al-duwalî li-l-ikhwân tajtami‘u fî-l-khartûm wa ‘aynuhu ‘ala ja’iza al-kuwayt, «Masr11» (www.masr11.com), 2 novembre 2012.
[3] Sembra che il presidente Mursi abbia esplorato la pista del “riavvicinamento alla Russia”. Ma il suo viaggio in Russia si è rivelato un fallimento. C’è da domandarsi se questo fallimento non sia dovuto alla politica adottata dai Fratelli in Siria e alle attività degli islamisti nel Caucaso che potrebbero aver irritato la Russia.
[4] Chi ha una buona conoscenza delle due formazioni – non è il mio caso – sostiene che l’internazionalismo dell’AKP, se esiste, è al servizio del nazionalismo turanico, mentre nel caso dei Fratelli vale il contrario: l’internazionalismo viene prima ed essi si ricordano del nazionalismo egiziano solo quando questo conviene ai loro interessi.
[5] Avrebbe dovuto essere chiaro che l’ascesa al potere avrebbe indebolito i Fratelli e reso più attraenti le opzioni salafite.
[6] Occorre introdurre una distinzione importante: tutti i partiti salafiti egiziani si opponevano con forza al rischio di un afflusso di turisti sciiti in pellegrinaggio, e lo sviluppo di questo tipo di turismo sarebbe dipeso dai rapporti tra Fratelli e salafiti. I primi potevano o no fare a meno dei secondi?

Tags